giovedì 31 ottobre 2013

Renato Zero "Amo capitolo 2"

Carissimi lettori, oggi mi sfogherò su questo blog su almeno due cd, usciti freschi freschi questo martedì. Il primo di cui parlo è "Amo capitolo 2", seconda parte di un progetto con cui Renato Zero si racconta. La prima traccia è un filtraggio di situazioni da parte della filosofia del cantautore romano. Si potrebbe dire che il brano sia dedicato al nostro paese, a distanza di quindici anni dalla più arrabbiata "L'italiana", che apriva (ulteriore coincidenza) "Amore dopo amore". Musicalmente siamo con questo sound tra italiano e internazionale, che sta piacevolmente caratterizzando il nuovo Renato Zero. Il brano, dal titolo "Nuovamente" ha una chiusura con un riferimento (solo letterario) a uno dei classici della canzone italiana vernacolare, anzi della canzone classica napoletana, "'O paese d'o sole". Nella traccia successiva, sempre ballata ma leggermente più elettrica, l'amore è declinato in maniera privata, si può dire che sia una dichiarazione, diremmo quasi da serenata. Andando verso un sound leggermente elettronico ma restando nel melodico arriva "La fabbrica dei sogni", che potremmo paragonare a brani come "L'incontro", di quelli in cui Renato sprona il suo pubblico a vivere meglio e più forte. Melodicamente è diviso in due parti, una in tonica e l'altra un semitono sotto, ognuna con parole diverse, insomma se cercate il ritornelluccio facile vi prego di scordarvelo. La traccia successiva permette di assaporare un rock, con sfumature anni '70 soprattutto nella chitarra elettrica d'accompagnamento. Nella bella tonalità di sol si cantano dei consigli per i quali Renato viene spesso considerato populista, mentre è un grande aiuto a vivere in maniera migliore. Il brano si divide in due parti, dopo quella rock c'è una sezione classica in tonalità minore, che Renato canta accompagnato solo dagli archi (e non è poco). Con "L'eterno ultimo" si ritorna alla serie di canzoni di sprone, particolarmente rivolte ai giovani. Qui ci lasciamo avvolgere dalle sonorità acustiche, solo archi e piano avviluppano la voce di Renato, con una melodia che potrebbe ricordare certe cose dalla commedia musicale italiana condite con un p'o' di raffinatezza armonica americana. Entra anche uno strumento che Renato Zero ha usato poco, ma quelle poche volte lo ha fatto in maniera geniale. Mi riferisco all'armonica cromatica suonata su lamella singola, che già c'era in "La grande assente", omaggio a Mia Martini, contenuto nel già citato in questa stessa recensione "Amore dopo amore". Andando avanti si torna alle sonorità pop quasi anni '70, riviste in salsa leggermente e discretamente elettro. Con queste atmosfere si canta "Nessuno tocchi l'amore", brano che ci ha fatto scoprire questo cd. La canzone è un inno all'amore in senso largo, anche come forma di denuncia di ogni forma di discriminazione o violenza (Renato aveva già cantato una canzone dove si spronava le donne ad avere coraggio nel denunciare la violenza, mi riferisco a "Digli no" nel disco "L'imperfetto" del 1994). Tornando a ritmi lenti e sonorità acustiche (quelle che io preferisco sempre) arriva un brano che parla di un sentimento che oggi non ha una grande popolarità, anzi abbiamo gente che in Parlamento ci si è seduta sbandierando (e guai chi glieli tocca) sentimenti contrari. Il brano invita gli italiani, che ne hanno già passate molte, ad essere solidali. Bellissimo messaggio ad un paese che ha paura di riscoprirsi nel suo insieme. Il brano, dal titolo "Si può" (come un noto brano di Giorgio Gaber) si chiude con un assolo di chitarra elettrica inequivocabilmente blues. L'armonica cromatica torna anche per questa specie di bossettina dal titolo "Una volta non ci basta". Le strofe sono su un ritmo classificabile molto difficilmente, la "specie di bossettina" è il resto del brano, che comunque non ha ritornello. Il finale sembra qualcosa di inclassificabile, tra dialogo e cantato (anzi tra sospirato e cantato). L'arte del sospiro, e lo sanno i veri sorcini, è una di quelle in cui Renato non ha rivali attendibili. Su sonorità anni '70 solo riviste con elettronica attuale, arriva "Titoli di coda", un brano dedicato all'alienazione causata dai media che pretendono di renderci dipendenti dalla loro produzione spesso senza qualità. La traccia successiva, ritornando alle sonorità per bambini di "Dormono tutti" di "Presente", si intitola "Via degli sciacalli n°0". Molto bella, ricorda molto "La casa" di Sergio Endrigo, da cui, forse, riprende il titolo. Una delle canzoni di "Amo" ha anche una seconda vita. Nel primo volume era "Dovremmo imparare a vivere", nel secondo è "O si suona o si muore", inno dei musici, musicisti e musicanti. Molto bella e leggera, quasi da cartone animato (registi, pensateci!). un brano tra il ritmato ed il classico, sulla fine di un amore, senza smielonerie e retorica, alla Renato insomma. , quello che Potrebbe ricordare, per citare brani del volume I di "Amo" "I '70", molto belli gli arrangiamenti che riportano di moda gli anni '70 anni che, l'idolatria di questa supposta contemporaneità, forse avevamo archiviato superficialmente. La traccia successiva ci fa scoprire un Renato Zero che è emerso solo negli anni recenti, quello che canta Roma ed è orgoglioso di cantarla nel suo dialetto. Molto bella, con quelle melodie che fanno emergere quelle qualità per cui Renato è ancora lui. Le orchestre, come anche il testo, riportano alla Roma anni cinquanta, a quella dei grandi Trovajoli, Garinei, Giovannini... Si torna a sonorità rock, implacabili. La melodia naturalmente nella parte in minore è stretta, quando rallenta e va in re si allarga per poi raccontare un mondo a due facce. La parte in re dimostra una coppia che dialoga, nella parte in minore si denuncia l'ambizione sfrenata dell'uomo che reprime i sentimenti più istintivi. Le caratteristiche musicali più evidenti, di parti specifiche del brano, sono l'inizio a cappella e l'entrata del sassofono contralto (dalle sonorità graffianti) per sviluppare il finale. Il brano ha poi una specie di codina, dove la voce di Renato Zero torna filtrata da un mondo lontano. Quando si torna alle sonorità acustiche, lo si fa con quella che per me, sin da quando l'ho sentita via Internet registrata negli ultimi concerti, è stata da subito uno dei miei riferimenti. La canzone, dal titolo "Il principe dell'eccentricità", è un dialogo grato con i fan, con i quali Renato, nonostante qualche spigolosità, ha sempre avuto un rapporto franco (non se ne è mai dimenticato). Musicalmente è una ballata molto bella, melodicamente orgogliosa di quella musicalità italiana che noi, dimostrando la nostra proverbiale superficialità, rinneghiamo in nome di una supposta internazionalità. Bel disco, bentornato ad un artista che resta in forma e non vuole mai coprirsi di ridicolo.

mercoledì 9 ottobre 2013

Andrea Tarquini: "Reeds"

Carissimi lettori, oggi mi va di parlarvi di un bellissimo disco, acquistato stamattina stessa. Il cd si intitola "Reeds!", di Andrea Tarquini, allievo di Stefano Rosso. Proprio al cantautore romano è dedicato questo album, che si apre con una versione, dalle forti tinte bluegrass, di "E intanto il sole si nasconde". Il brano è cantato insieme a Luigi Grechi - De Gregori, che ha una voce molto più limpida e bella del ben noto fratello. Il brano è eseguito con una chitarra accordata nell'inconfondibile tonalità di re maggiore, così cara ai bluesman. La stessa atmosfera riecheggia nelle acciaccature del violino, nell'anima country del mandolino di Carlo Aonzo. Alla chitarra e al mandolino è dedicata l'esecuzione del brano successivo, tratto dal vinile "Unastoria disonesta", primo e più glorioso vinile di Stefano Rosso. La leggerezza della scrittura di Rosso viene sviluppata e fatta evolvere nella volatilità del mandolino e nel pudore con cui la schietta voce di Tarquini reinterpreta il brano, solo un po' meno ironica, per il diminuendo alla fine di ogni frase melodica. Sempre all'universo dei valzer (poi il brano si evolve in parte verso un 5/4 alla "Take five") arriva "Anche se fosse peggio", sempre tratta dal vinile su citato. Qui il Tarquini riprende, con personalità ma con voglia di rispettarla, quella istrioneria romanesca tanto tipica del Rosso. Le spazzole della batteria danno un'anima leggermente jazz al brano, confermata dal giro di violino che potrebbe rimandare qualche orecchio agli assoli di Grappelli con Django Reinard. E a ritmo di swing si va avanti, con "C'era una volta e ancora c'è", una canzone che dietro la solita ironia tenera, denuncia, neanche troppo mascheratamente, la repressione che continuava ad esserci (e ancora c'è quarant'anni dopo). Notevole l'assolo di clarinetto, ma stupenda è la chitarra alla Reinard. Continuiamo e arriviamo ad una ballata più blues che swing, interessanti i finali calanti che caratterizzano alcuni finali di verso, che mostrano i bellissimi toni gravi della voce di Tarquini. Il clarinetto dà essenza immateriale ai vagheggiamenti di filosofia spicciola ed eterna tanto rossiani. Il clarinetto e la voce dialogano, in maniera semplice, prima che lo strumento ci porti verso il finale. Ilbrano si intitola "Ancora una canzone". La traccia successiva è una versione tra il jazz ed il folk di "Preghiera", canzone di Stefano Rosso lanciata da Mia Martini. La melodia acquista un'anima quasi folk americana grazie alla seconda voce, che ricorda certe cose del De Gregori di qualche anno fa ("Bellamore" in primis). Il testo che viene cantato in questa versione non è quello cantato da Mimì, che Stefano Rosso incise nel 1997, ma quello dedicato a Giorgiana Masi, militante radicale uccisa a Roma nel 1977. La prossima traccia è "Via del tempo", un country spudorato, dove i giri di chitarra acustica dànno allegria frenetica, anche grazie al grande mandolino che dialoga con il gruppo acustico. La successiva è un swing, uno dei ritratti di luoghi così cari a Rosso. Il swing si snoda tra personalità, oggetti, crepuscoli tradotti in poesia. La prossima traccia continua questo discorso, ma non siamo a Roma, siamo a Milano. Il brano, a tempo di valzer, racconta la delusione avuta quando si aspetta troppo da qualsiasi luogo. Anche la delusione però riecheggia in tenerezza poetica e crepuscolare, il valzer ha una leggerissima anima blues, ma la melodia è italiana e si snoda alla nostra maniera (musicisti d'oggi: imparate da Rosso). Negli ultimi anni Stefano Rosso ha coltivato in maniera profiqua, da indipendente, lo stile del finger piking americano, tramite dischi di indubbia qualità dedicati a sue composizioni su quello stile. Proprio a questo si ispira Tarquini per la sua "Ho capito come", che si snoda su un giro di sol abbastanza ostinato su un basso, dove si stagliano il mandolino ed il clarinetto. Il cd si chiude con quella che più di ogni altra, insieme alla "Storia disonesta" è stata la croce e la delizia di Rosso. La "Letto 26" di Tarquini ricorda "Everybody is talking at me". Il banjo a cinque corde si staglia con un giro ostinato e ricco, su un contrabbasso ritmico e su una chitarra che si scopre strumento percussivocon strappate. La parte in mi diventa un caloroso bluegrass, molto bella. Più che consigliato, per riscoprire Stefano Rosso e scoprire en passant un grande cantautore ed interprete come Andrea Tarquini.

"Reeds! -