mercoledì 28 novembre 2012

Francesco Guccini: L'ultima Thule

Carissimi lettori, ieri 27 novembre è uscito l'ultimo (è veramente l'ultimo o così sembra) album di Francesco Guccini. Sinceramente, da subito, grido al capolavoro. Il cd ha quella tenerezza poetica e folgorante a cui Guccini ci ha sempre abituato, ma che, nonostante questo, resta sempre miracolosamente nuova. La prima traccia, "Canzone di notte n. 4", è la definitiva sulle sue esperienze notturne, dedicata prevalentemente alle notti pavanesi, sia rivissute teneramente e crepuscolarmente dell'infanzia, sia quelle attuali. Si inizia con la riproduzione del rito dell'interruzione della lettura notturna, abitudine che il bambino Guccini portava avanti quasi con caparbietà. Se dovessi descrivere il brano musicalmente lo definirei una rivisitazione di "Canzone delle osterie di fuori porta", ma il parallelismo è per una parte minima. La voce di Guccini è profonda, forse non perfetta ma penetrante come scure. Qui c'è un tempo che oscilla tra il passato e il futuro, quello che una nuova politica miope avrebbe voluto o vorrebbe farci dimenticare. I testi hanno sempre quella tensione tra il semplice ed il letterario, tra il colto ed il popolare, insomma è tornato il Guccini migliore. La stessa tenerezza crepuscolare, forse anche più accentuata, la si ritrova in "L'ultima volta", dialogo con una persona che non si vede ma si immagina lì vicina. Anche qui i "valichi dell'Appennino" sono i protagonisti, ricordando e aggiornando un classico gucciniano come "Incontro" (in fondo, riducendone molto lo spessore e la complessità potremmo affermare che questo cd ricorda molto il mitico "Radici" del 1972, disco che quest'anno compie quarant'anni). "L'ultima volta" è uno di quei brani "fra la Via Emilia e il West", dove quel limite tra realtà e fantasia si sfiora, ma stavolta lo si fa tramite la musica, caratterizzata la fortissimi richiami al bob Dylan folk, anche grazie all'armonica a bocca. Particolare, alla fine del penultimo giro melodico, sentire il rumore del Limentra, fiume che scorre al Mulino dei Guccini, dove il cd è stato registrato (particolare che lo lega ancora una volta alle "Radici" del cantautore. A proposito di "Radici" Guccini ha una grande passione per tutto ciò che è tradizionale appenninico, incluso il dialetto, da cui ha tradotto la terza traccia di questo cd, la commovente "Su in collina", narrazione di un incontro tra partigiani che si trasforma in lutto e funerale improvvisato. La musica, di juan Carlos "flaco" Biondini, è una ballata che, almeno a me, ha fatto venire una lacrima agli occhi. Si sente il cammino nel ghiaccio sulla collina, la batteria e tutta la ritmica simula quei passi, forse con una canzone così uno potrebbe riavere rispetto per la Resistenza (cosa che ci hanno fatto dimenticare in questi vent'anni bui). Il brano ha due particolarità puramente musicali che ne caratterizzano l'inizio e la fine: all'inizio si sente una ghironda, che porta una melodia che potrebbe ricordare certe ballate celtiche, mentre il finale rimanda alla "Primavera di Praga" in "Quasi come Dumas" (1989). La quarta traccia continua il discorso, raccontando, tra tenerezza e allegria, il 25 aprile 1945, dove un padre ritorna finalmente a casa, anche se la sua vita non è più la stessa. In questo 24 aprile, ritorna una gran parte del XX secolo, dalla carezza di Giovanni XIII allo sbarco sulla luna. La quinta traccia è una tarantelluccia circense dal titolo "Il testamento di un pagliaccio", che in molti casi ricorda Berlusconi. Il brano l'avevamo già sentito negli ultimi anni ai concerti, cosa che vale anche per la bellissima "Su in collina". "Il testamento di un pagliaccio" è un miscuglio tra l'Apocalisse che diventa paradosso e una descrizione impietosa di questi vent'anni che credo siano stati fortemente traumatici per chi abbia vissuto invece quelli della forte creatività del boom economico. Non so se pensare che il pagliaccio è Berlusconi oppure qualcuno che abbia lottato contro di lui. Subito dopo si torna alla tenerezza e si torna a cantare la notte. Su un giro di accordi in maggiore che non disdegna passaggi in minore che fanno da ponte, si raccontano le notti vissute in vario modo, ma rispetto all'iniziale "Canzone di notte n. 4" è meno personale. L'accompagnamento è cantautorale, diventa leggermente pop solo in una parte intermedia a metà brano, anche laddove è moderno sgorga sempre quell'odore di ballata americana così tipico a Guccini, che gli permette di far defluire il suo fiume di parole godute, quello che manca a questo rap che, se da una parte riporta una socializzazione della musica, dall'altra distrugge l'italiano e la sua poesia. Particolare è l'esperienza di sentire una chitarra elettrica leggermente "effettata", ma l'atmosfera prevalentemente è quella di un pop che si impregna di jazz e folk, due mondi che, insieme all'America Latina, forse costituiscono i perni della musicalità del "maestrone". Con un pianoforte accompagnato da leggeri canti d'uccello (o qualcosa che sembra un canto d'uccello) inizia un ritratto ironico e tenerissimo degli artisti, tra cui Guccini, forse per civetteria, non si conta definendosi "umile artigiano" (dopo essersi definito "piccolo baccelliere" in "Addio", brano che chiudeva "Stagioni" cd del 2000). Il brano "Artisti" è un valzer al limite tra argentina e Francia, ed è caratterizzato da una chitarra classica quasi magica nonché dal bandoneón Dubito che noi, ammiratori di Guccini, possiamo condividere l'ultima parte del testo, ma ognuno sente la propria arte come vuole (dovete ascoltare per capire se darmi ragione o no). L'ultima traccia de "L'ultima thule" (questo è il titolo del cd di cui abbiamo parlato) è, musicalmente, un miscuglio tra "Cristoforo Colombo" (2004, "Ritratti") e "Bisanzio" ("Metropolis", 1981). Il protagonista è un navigatore disincantato, che non ha più interesse nel presente, che forse è l'incarnazione metaforica del Guccini che con questo cd saluta la musica come arte a cui dedicarsi costantemente, ma forse saluta anche altro (e non è la mania alla Vasco Rossi per stare sempre sotto i riflettori). C'è comunque la speranza che il protagonista faccia qualcosa, ma è come se si tendesse verso l'intimo ed il privato. Credo sia raro avere la sensazione che in un cd tu non avresti cambiato niente, a me questo l'ha data. Guccini ci saluta in maniera sublime, da godere e da tenere da conto per quando ci vorremo ubriacare di un'essenza che probabilmente non odoreremo più.

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