lunedì 10 settembre 2012

Un paio di riflessioni

Carissimi lettori, oggi mi va di fare una riflessione su quanto i nomi possano sfogare i nostri più profondi preconcetti, che nemmeno un'esperienza diretta delle cose che portano quei nomi può far regredire. Mi è capitato di divulgare la mia iniziativa legata al folk con una e-mail ad un'associazione di salentini dai quali mi sono sentita rispondere che loro vogliono divulgare il passato e la pizzica nel passato aveva un ruolo secondario mentre, secondo loro, nel mio canale avrebbe un ruolo primario. Voglio quindi tentare di chiarire una volta per tutte, spero di non doverci più tornare né qui né in qualsivoglia altra sede, il perché della scelta del nome "Pizzica e dintorni". La pizzica, lo si voglia o no, è il ballo più rappresentativo di tutta la tradizione centromeridionale italiana, tra quelli di origine propriamente contadina. Questo nome quindi non poteva che far capire (avevo pensato io e tutt'ora lo penso) che il mio canale caparbiamente avrebbe emesso solo brani di tradizione contadina suonati del tutto o in prevalenza con strumenti contadini. Avevo pensato che si potesse capire un concetto così semplice, sarebbe poi ora che coloro che tutelano i patrimoni tradizionali non si dedicassero solo a tutelarli in contesto tradizionale, ma ne tutelassero la riproposta rispettosa, evitando magari eventi come Melpignano, che sinceramente con la musica popolare c'entra pochissimo. Difatti la Notte Della Taranta mi sembra diventata un "Sanremo dei proletari", dove chi è già famoso per altri motivi, magari anche nobili e di qualità, viene a farsi una passerella prendendo però in mano qualcosa che non gli appartiene. Io sinceramente non mi dedico ai puristi, ma nemmeno al pubblico della Notte (ma poi siamo sicuri che questa gente ami così tanto ed abbia così bisogno di questa musica contaminata?). aIo mi dedico a tutti coloro che si vanno a vedere i numerosi concerti che portano la musica popolare in giro per l'Italia e per il mondo, a tutti coloro che si vogliono divertire al suono degli strumenti tradizionali, con consapevolezza ma senza chiusure. Il mio canale quindi è per la non musealizzazione del folklore e per far capire a qualcuno che, forse, non tutto quello che si fa adesso è da condannare od esecrare, come non tutto quello che si faceva una volta è da ritenere buono solo perché antico. Scusate lo sfogo e se potete andate su www.pizzicaedintorni.it/radio.html e fatevi il viaggio.

domenica 9 settembre 2012

Canto remolino

Carissimi lettori, già torno perché ho il cuore dolcemente aperto da un acquisto fatto ieri sera a quella fantastica rimpatriata con gli Inti di cui ho parlato nel post precedente. Mi va di parlare del cd "Canto remolino" che José Seves pubblicò nel 2002, due anni prima di rimettersi con Salinas e riprendere l'avventura degli Inti. La prima canzone ha un testo ed una musica perfettamente equilibrate, entrambi quasi surreali. Nonostante ciò la realtà c'è tutta anche nella sua cruda tragicità. Sono curiosi, qui e in molti altri brani, i numerosi canti staccati così tipici di quella cultura africana che ha influenzato tanto la cultura afroamericana che è entrata così profondamente nell'anima di Seves. La seconda traccia è una dolcissima ma durissima dichiarazione di intenti, un manifesto di Seves da solista, ma che in molti casi ricorda le battaglie che gli Inti hanno portato e portano ancora avanti. Musicalmente il brano è uno dei più semplici e cantabili del disco, niente politonalità, un semplicissimo si minore, una melodia festosa ma che lascia trasparire il raccoglimento del testo. Ma la politonalità torna, molto meno presente, in "El eco de ayer", bel ritmo tradizionale dove si canta di speranza e di nostalgia sempre con questo tocco immaginificotipico della penna di Seves (che spero che a questo punto si esprima di più anche negli Inti, magari creando qualcosa musicato dal grande Salinas). E questa forte anima afro di José Seves si sfoga forse in maniera radicale in "Saber mapudungún", brano che è dedicato dal musicista alla gente d'etnia "mapuche" (indigeni cileni). La canzone è in mi maggiore, con bassi ostinati soprattutto nella ripetizione osessiva di "Mapudungún". Molto bel brano, la voce di José è sempre stupenda, poi accompagnata da strumenti che diventano percussioni si staglia in tutta la sua forza espressiva. La traccia successiva, intitolata 2Llover", con moltissimi verbi all'infinito come questo del titolo, è una ballata con una bellissima fisarmonica (penserei perfino ad un bandoneón ma non sono sicura). Il canto di Seves si esprime con quegli staccati che come ho detto prima caratterizzano molti momenti diquesto cd, molto bello, trasognato, raccolto, come però forse oggi non si accettano più. Andando avanti si arriva a "Será la sombra", semplice ritmo popolare in tonalità minore, che ritmicamente ricorda "La charagua" di Víctor Jara", che gli Inti suonaronocon maestria nel 1970, quando fu eletto Salvador Allende. La canzone è tutta incentrata sul tentativo di identificare un'ombra inidentificabile. Il brano successivo è "Velório de un negro criollo", che tramite una secca cronaca di una veglia per un negro creolo, denuncia la condizione d'emarginazione sociale da cui i neri sono usciti ancora in troppo poche occasioni. Il brano è caratterizzato da una bella voce femminile che compensa perfettamente la potenza dolce di quella di Seves. Il finale di questa cronaca amara ed ironica degli atteggiamenti umani nei confronti della morte, è caratterizzato da frasi semplici di fiati che traducono con i suoni ciò a cui si allude nel testo. Altra gemma del cd è un brano intitolato "Cantantes invisibles", nel quale José Seves fa un omaggio a quei cantori che improvvisano i loro testi. Forse simbolicamente si sceglie un ritmo cubano per accompagnare questo inno al canto concepito come grido di libertà, difatti Cuba è una delle zone più attive da questo punto di vista. Senza andare troppo lotnano da ciò che si sente abitualmente per radio, si potrebbe pensare alla parte finale di ogni buon brano di salsa. Però il canto di Seves ricorda coloro che in queste forme metriche libere lanciano anche messaggi politici, sociali. Andando avanti si va verso un classico venezuelano di cui José Seves dà un'interpretazione molto lontana da quelle che conosco io, ma non sono particolarmente affidabile. La voce del nostro, in questa "Tonada de luna llena", è solo è accompagnata solo da una percussione e da un cuatro, strumento tipico del paese d'origine del brano. Molto bella la voce di Seves che si libra in volo tra i suoi atti, a volte in pianissimo altre volte fortissimi, ed i suoi toni gravi, che in pochissimi conoscono se non lo sentono parlare (perché la sua parlata è politonale, espressiva e quasi cantata). Il brano seguente è un altro momento di intimità, difatti la voce del nostro è accompagnata da chitarre che solo molto raramente lasciano l'arpeggio per poi diventare ritmiche. Il brano a cui mi riferisco è "Valdivia en la niebla", in cui si direbbe che la voce ama andare verseo il recitato. Il testo è in quel limite fra realtà e sogno in cui mi sembra trovarsi quasi tutto il cd. E quest'anima africana che aleggia come una guida segreta all'interno del disco torna a farsi respiro evidente in questa "Esperanza y yo". Come brano è in gran parte un son cubano, che racconta, così come la già trovata title track "Canto remolino", la sua autobiografia, ci si ritrovano riferimenti all'esilio e alla tristezza che questa esperienza porta inevitabilmente con sé. Questa traccia, però, sviluppa come nessuna il fatto che nella sua vita c'era sempre la speranza come una bussola. Il brano successivo, "He preguntado por él", sembra dedicato a Augusto Pinochet, difatti vi si racconta con poesia e dolcezza della resistenza clandestina. Il brano L'ultimo brano è un tocco di poesia e ritmiche quasi brasiliane (un po' una "Líneas para un retrato" ante litteram). Il brano è un canto alle radici geografiche di Seves, un sud del Cile tra vissuto e sognato, in quel confine in cui si muove tutta l'opera. Bel cd, caldamente consigliato a chi abbia la fortuna di trovarlo.

Inti-Illimani Histórico alla Stazione Birra

Carissimi lettori, oggi ho l'onore di recensire il bellissimo concerto che gli Inti-Illimani Histórico hanno tenuto alla Stazione Birra di Ciampino (data l'ora tarda non l'ho sentito tutto...) L'inizio è stato folgorante con la bellissima "Danza" che gli Inti riprendono da quel gioiello supremo chiamato "Palimpsesto" del 1981. La versione se possibile è ancora più struggente dell'originale, grazie all'utilizzo della quena, flauto il cui suono sembra riecheggiare in sé tutto il lamento di un popolo. Interessanti le timbriche della fisarmonica che sostituivano il violino, la mano di Salinas qui era perfetta, mentre nel concerto a "Cooperativa en vivo" si erano sentite delle imperfezioni. Quando si inizia a cantare si interpreta "Polo Doliente", brano estratto da un altro dei miei dischi preferiti degli Inti, quel "Canción para matar una culebra" che per me segna la definitiva maturazione del gruppo. In questo brano José Seves, con cui tra l'altro prima del concerto ho avuto una lunga e bella chiacchierata in castigliano dopo averne fatte di brevi con Durán e Eduardo Carrasco muralista amico degli Inti ed autore di "Inti-Illimani storia e mito", ha dimostrato di non avere assolutamente difficoltà nel padroneggiare il suo fantastico timbro in cui potenza e dolcezza si equilibrano in modo magico. Fa strano sentire la parte d'arpa (affidata a Jorge Coulon) nelle mani del prode Camilo Salinas al piano. Non sta male, anzi, nei ritmi centroamericani dal Venezuela a Cuba passando per la Colombia il piano ci sta benissimo. Il terzo brano è stato una commovente "Papel de plata", dove si è potuta apprezzare la bellissima e ruvida voce di Horacio Salinas, che ha conservato il suo inconfondibile timbro arricchendolo con una leggera sfumatura rauca. Molto bello l'uso della batteria ad imitare il pandero andino, molto rispettoso pur nella contaminazione. Continuando il tuffo negli anni '70 si ascolta "La exiliada del sur", brano di Violeta Parra che gli Inti avevano inciso ne "La nueva canción chilena" (1974). La versione è molto fedele all'originale, le parti di Jorge sono state cantate da un'altra voce molto più potente (non la distinguo...), molto bello sentire le profondità del basso allearsi con la percussività grave della parte centrale del bombo. Tornando agli strumentali si è avuto poi il piacere di riscoprire una delle più belle composizioni di "Salinas", quella "Araucarias" che impreziosiva ulteriormente il già di per sé bellissimo "Andadas" (1992). Faceva strano sentire il brano abbassato di un tono (da la minore a sol minore), faceva un effetto molto classicheggiante sentire il pianoforte che eseguiva battute bartockiane sulle gravi. La parte finale, quella che nel cd era eseguita da Renato Freyggang col sassofono, è stata eseguita da Camilo Salinas (figlio dell'autore del brano e direttore degli Históricos) con la sua magica fisarmonica. Poi si è fatto un salto di vent'anni (indietro) con "Ya parte el galgo terrible". Le strofe se le rimpallavano Salinas e Seves, molto bello, stupende anche le altre coloriture sia musicali che vocali. Insieme a Massimiliano Stefanelli, direttore d'orchestra appassionato di strumenti latinoamericani che suona con abilità, il gruppo ha poi eseguito una bellissima versione di "Takakoma" da "Lejanía", disco che non è mai arrivato ai negozi di dischi italiani. Interessante, rispetto a questa versione in studio, unica da me conosciuta perché non possiedo "Esencial" che pure contiene il brano, degli assoli di quena leggere varianti della melodia. Stefanelli in questo brano suonava il charango insieme a Durán, bello. Da "Hacia la libertad" del 1975 viene "El arado" di Víctor Jara, che qui è stata cantata nelle parti soliste da un bravo e forse un po' emozionato Horacio Salinas. La voce del nostro si rompeva leggermente sempre sul sol prima dell'esecuzione dell'ultimo verso di ogni parte solista. Molto bel brano, belli anche gli impasti vocali, anche se forse mancava in parte minima la perfezione degli originali. Il brano successivo ci ha permesso di andare verso quel gioiellino che è "Travesura", cd di canzoni per bambini inciso dagli Históricos due anni fa. Il brano è stato interpretato con maestria, anche io ho contribuito cantandolo a squarciagola, difatti è la mia traccia preferita del disco. Belli gli impasti vocali, non c'è niente da fare ma per me gli Inti si ottengono con voci dolci e potenti equilibrate, non con timbri dello stesso tipo. Dopo due brani de "Los bipolares", gruppo da cui provengono Danilo Donoso (batteria e percussioni), Fernando Julio (basso) e Camilo Salinas (pianoforte e fisarmonica), quando gli Inti sono saliti di nuovo sul palco si è ascoltata un'applauditissima "Alturas". In questo brano c'è stata qualche leggerissima e non fastidiosa smagliatura nella parte di sicus, il resto è stato impagabile come sempre (bombo, charango, chitarra e sicus sono sempre una magia grandiosa). E andando avanti si arriva ad "Arróz con cocolón", brano inciso in "Esencial" del 2006, pezzo dalle forti sonorità afroperuviane, evidenziate dall'abilità di Danilo Donoso al cajón. Molto efficace comunque l'insieme del gruppo, fantastico Camilo Salinas al pianoforte, che veramente nella musica latinoamericana scopre la sua anima percussiva che in Europa è così negletta. Dopo c'è stato spazio per quel divertissement durissimo da suonare dal titolo "La marusa", che Horacio Salinas ha interpretato con Massimiliano Stefanelli al cuatro venezuelano. Veramente bravissimi entrambi, anche qui c'è forse stata qualche leggera smagliatura ma niente di fastidioso. Si è andato avanti poi con "Vuelvo", un inno del ritorno dei cileni dall'esilio, scritto da Salinas e Manns nel 1979 quando ancora mancavano dieci anni alla fine della dittatura. Bellissima l'interpretazione di Seves, che forse aggiungeva alla rabbia dell'esiliato quella dello scontento per come sono poi andate le cose in Cile. Faceva strano, ma non dava per niente fastidio, sentire le parti di tiple affidate al pianoforte di Salinas jr. Qui si potevano ammirare i favolosi impasti vocali unisoni che hanno fatto la fortuna e l'inconfondibilità dello stile Inti (se ascoltate altri gruppi forse difatti la vocalità è più generalizzata, nel senso che le voci si scorporano e si fanno controcanti, pensate al livello di arte a cui i Quilapayún hanno sviluppato questa arte anche grazie a Víctor Jara). Tornando al repertorio più noto in Italia si ha il piacere di ascoltare "Lo que más quiero", testo della cantautrice cilena Violeta Parra egregiamente musicato da sua figlia Isabel. L'interpretazione degli Inti conservava le sue caratteristiche base, cambiava solo la distribuzione delle strofe tra le varie voci. Molto bello il vocalizzo a canone che inizia e conclude il brano. Un altro momento esplosivo, anche per gli assoli di Camilo al piano e Danilo alla batteria, è stato "Mulata", brano a ritmo di salsa che sfrutta una poesia molto bella del poeta cubano Nicollás Guillén. Mancava solo il flauto ottavino, che in questi repertori fa sempre la sua inconfondibile figura, ma comunque è stata un bellissimo pezzo (peccato che il pubblico non ballasse!). Da brividi è stato anche il canto antirazzista "Samba landó", che il gruppo riprende da quel gioiello, già qui pluricitato, dal titolo "Canción para matar una culebra". Le strofe se le rimpallavano Seves e Salinas, dando ognuno il proprio conio, che veramente sapeva dell'autentica storia del gruppo. Anche noi nel ritornello contribuivamo con il coro su "Samba landó, que tienes tú que no tenga yo". Io ero emozionatissima, sinceramente questi sono i miei inti! Gli ultimi tre brani che abbiamo sentito sono stati tre superclassiconi del periodo '70 inizi '80. Il primo è stato "El pueblo unido", che gli Inti ci hanno invitato a cantare, devo dire che molta gente se la ricordava, poi comunque si esplodeva sempre nel ritornello. Il secondo è stata una "Fiesta de San Benito", dove, ancora una volta, la batteria ha fatto le veci del pandero. Io questo brano l'ho ascoltato in piedi ed ho dato anche qualche accenno di danza (per quanto possa permettermelo io!). Comunque cantavo e me la godevo anche se ero mezza afona a forza di commuovermi ed impazzire. L'ultimo brano da me sentito integralmente è stato "El mercado de Testaccio", uno di quei gioielli di gratitudine che i gruppi cileni composero nel periodo del loro esilio europeo ("Vals de Colombes" per i Quilapayún o, tornando agli Inti tra le altre "Una finestra aperta"). Mentre andavo via ho sentito le prime inconfondibili note di "Simón Bolívar", e così gli Inti mi hanno salutata. Fantastico concerto, il consiglio spassionato è di andare a vedere gli Históricos quando passano dalle vostre parti!

domenica 2 settembre 2012

Enrico Ruggeri a Ragusa

Carissimi lettori, questa sera mi va di recensire il concerto di Enrico Ruggeri, che il cantautore milanese sta tenendo a Ragusa in questo stesso istante (miracoli di Internet). Tutto ciò è reso possibile da www.oraziosgarlata.it, che lo manda in streaming. Il primo brano è "Cercami cercami", brano molto rock ma melodico, come solo Enrico Ruggeri ne sa fare. La stessa atmosfera è ripresa dalla "Señorita", brano storico dell'inizio degli anni '80, che Enrico Ruggeri canta tutt'ora con verve invidiabile. Andando avanti si comincia a sentire il mio Ruggeri preferito, quello delle ballate lente e sinuose, come "Prima del temporale". In questa occasione il brano, originariamente tratto da "Peter Pan", acquista una ruvidezza e una durezza che però, almeno secondo me, non disturbano il romanticismo strappacuore di questo brano, tra i migliori del Rouge. Si può dire che interpretato così, seppur abbassato di due toni (da do minore a la minore) il brano riacquista la propria anima di ballad rock, che nella pur pregevole versione di "La vie en rouge" aveva perso, per diventare una bella (ma non perfetta) ballad acustica. E dopo questa rimpatriata con il Ruggeri storico si torna al bellissimo, e purtroppo poco amato, "La ruota", con il brano sanremese "La notte delle fate". Il brano diventa ancora più rock, ma è sempre in quel confine strano, che solo Ruggeri esplora con innata perfezione, tra melodia italiana e sonorità punk-rock. Il brano successivo è "Il portiere di notte", probabilmente la prima canzone del Rouge ad essermi entrata dentro, grazie ad un doppio vinile dei miei genitori, misto di brani d'autore. Questa versione ci permette di apprezzare il valore di Francesco Luppi, tastierista della band di Enrico Ruggeri. Pur non avendo una manualità da pianista (o non avendo difficoltà nel suonare da tastierista) Luppi riesce a trasmettere tanto con pochissime note. Il brano è interpretato in maniera molto simile alla versione di Enrico VIII, ma c'è nel finale un assolo accapponapelle di Schiavone, che traduce con tutt'altro linguaggio, quello della chitarra elettrica, la calda essenza dell'oboe. E dopo un discorso abbastanza forte (sono eufemistica) contro questo governo e lo strapotere delle banche si continua con un brano che parla di carcerati, anzi si mette nella mente di uno di loro e ce ne racconta, dubbi, ansie e frustrazioni. Andando avanti torniamo al Ruggeri migliore, il mio Ruggeri, quello cantato da Fiorella Mannoia alla fine degli anni Ottanta, quello de "I dubbi dell'amore". L'arrangiamento ricalca quello de "La vie en rouge" (live nel 2001 insostituibile per chi volesse conoscere Ruggeri), ma vi aggiunge una ruvidezza data dalle due chitarre elettriche, una delle quali riprende l'assolo che in quella occasione fu di Davide Brambilla e la sua tromba. Ed Enrico Ruggeri continua a navigare tra i suoi successi, riproponendoci "Primavera a Sarajevo", che lo vide arrivare quinto (che tempi) al Sanremo 2002. Mentre nella versione originale, contenuta nel già pluricitato "La vie en rouge", le influenze balcaniche erano evidenti grazie alla tromba del già ricordato Brambilla, qui diventa un brano rock, con l'unica smagliatura data dal 2/4 che accomuna molti ritmi balcanici e la polka tanto amata dai nostri contadini. La versione è bella, Enrico è in grande forma, fa solo strano sentire il refrain di tromba eseguito da uno strumento che non identifico, forse dalle tastiere. E si va avanti con "Il mare d'inverno", accolta dal composto ma sincero delirio della gente. Devo dire che Luppi, il solito tastierista di cui prima, sta eseguendo la parte di piano in maniera ineccepibile (leggere smagliature verso la fine, peccato!). La versione è stranamente vicina a quella del 1983, l'originale. Il brano è commovente, Enrico ne dà una versione a fior di pelle, fortemente emotiva. Da diversi anni l'accompagnamento è assicurato anche da una chitarra elettrica distorta, che dà una sensazione di spettralità abbastanza inusitata. Il brano è finito con uno strano accordo di mi maggiore, tenuto da una chitarra elettrica (probabilmente quella dello storico collega e compagno di Ruggeri Luigi Schiavone). Andando avanti si chiama alla memoria "Punk (prima di te)", traccia del cd "Il falco e il gabbiano", dove Ruggeri rivendica la sua appartenenza al vero movimento punk italiano, di cui lui ha rappresentato un apice con i suoi decibel (quelli di "Contessa", ma soprattutto di pezzi come "A mano armata" o "Il lavaggio del cervello", di un'attualità tragica, quasi profetica). Subito dopo il cantautore esegue due brani che hanno segnato due sue partecipazioni al Festival di Sanremo. La prima è "Rien ne va plus", presentata a quello del 1986. Il brano, che se non sbaglio faceva parte del disco "Difesa francese", è un sinuoso e difficile valzer, nella più nobile tradizione dei vals musette. Nello stesso medley c'è stato spazio anche per la commovente "Nessuno tocchi caino", contro la pena di morte, presentata al Festival di Sanremo 2003. Il brano non ha perso in forza, anzi. Nello stesso medley c'è anche "Peter pan", che abbassata di ben due toni, perde molto. Dimenticavo che in mezzo c'è stata "Si può dare di più", inno della Nazionale Cantanti, presentata al Festival di Sanremo 1987. Sempre nella stessa sessione retrospettiva si ascolta una delle mie canzoni più care di Ruggeri, la ballata piena di tenerezza e nostalgia, uno degli inediti che impreziosiscono "La vie en rouge". Il brano si intitola "Quante vite avrei voluto", qui haacquistato un'anima rock che solo orecchie attente potevano sospettare sotto la patina di dolce folk dell'originale. Dopo questa full immersion nel Ruggeri storico e forse migliore si torna ad un album recente, dal titolo "Rock show". Il brano, omonimo, è un rock che distilla filosofia "on the road", fa piacere vedere che Ruggeri continua a fare questa vita potendoselo permettere. E si torna a "Il falco e il gabbiano", con una delle ballate più belle, profonde e riuscite del rouge. Ilbrano è "Ti avrò" e fa strano sentirla riarrangiata in maniera così rock, dura, ruvida, da strada. Forse la tenerezza del testo va indovinata, sotto la scorza dei suoni distorti, ed è un'esperienza alquanto particolare sentire un groove di batteria che potrebbe ricordare "Tutto subito", collegato a questo momento di supremo romanticismo della produzione di Ruggeri. Dopo un basso ostinato in do, parte "Poco più di niente". Qui il brano perde la sua melodicità, radicalizzando la sua matrice punk. Comunque è bella, e almeno secondo me Ruggeri ancora ha una voce che si può permettere certe cose. Fa riflettere il fatto che affidi le parti del ritornello, particolarmente alte, a dei cori, che non so da chi siano formati. Comunque è un rock corposo, bello, non casinaro. Nel Festival di Sanremo 1987 Enrico Ruggeri era presente anche come autore, per una non debuttante ma ancora sconosciuta Fiorella Mannoia. Il brano era "Quello che le donne non dicono", che permise a Ruggeri di vincere il Premio della critica. La versione conserva la sua melodicità ammaliante (Luigi Schiavone, oltre ad essere uno dei migliori chitarristi italiani, è un autore di musiche fenomenale) ma prende la ruvidezza che caratterizza l'insieme di questo spettacolo. E al secondo ritornello Ruggeri fa dire il "Siamo così" al pubblico, ma sicuramente è più emozionante quando fa cantare intere parti di testo al pubblico (peccato che stasera non sia successo). Comunque il nostro sta in gran forma, da un gran gusto sentirlo. E abbassato di quattro toni torna uno degli inediti che impreziosivano la bellissima raccolta "La giostra della memoria", uscita dopo la partecipazione del cantautore al Festival di Sanremo 1993 (vi ricordate quando vinse con "mistero"? Che tempi ragazzi!). Il brano spacca, è molto ruvido, le chitarre elettriche sono le protagoniste assolute, insieme alla batteria impetuosa di Marco Orsi. Il brano di cui si parla è "Bianca balena". E sul basso ostinato di mi minore, re e do si è snodato un brevissimo ma supremo assolo di chitarra elettrica, prima dell'ultimo refrain (non ritornello, perché questo brano non ce l'ha almeno inteso in senso convenzionale). E con un'intro che ricorda molto quella della versione del sopracitato "La giostra della memoria" arriva "Polvere", brano che dava il titolo ad uno dei fondamentali della discografia di Ruggeri (1983). La versione è assolutamente dura, piena di quell'impeto che caratterizza questa band. Molto bello è sentire come Ruggeri scandisca in maniera particolarmente emotiva il "che la mia condizione mi dà", dimostrando una totale identificazione con queste atmosfere, non cadendo però nella tentazione di nascondere i trent'anni passati e la maturazione da lui avuta. Il concerto sarebbe finito ma ci sono i bis, e credo di sapere già cosa sta per succedere. Si torna al periodo punk, con "Tenax", brano che non mi aspettavo. Il brano è uno di quei pezzi in minore in cui Ruggeri entra nel suo. Il brano ricorda le atmosfere fine '70 e inizio '80. La canzone non mi è particolarmente familiare, ecco perché si resta sul vago nel recensirla. Ed eccola la "Contessa", che perde il mitico attacco a note singole, per entrare subito nell'impietoso giro dance. È abbassata di ben due toni, ma è bella. Qui, come spesso accade, Ruggeri ha sfidato la bravura del pubblico nel tenere il tempo, naturalmente i siciliani non sono rimasti fregati. Il brano è uno degli inni del Rouge, io personalmente non lo amo più di tanto, ma ti soggioga. Bel concerto, Rouge in grandissima forma!