sabato 27 agosto 2011

Considerazioni sulla parte iniziale del concertone di Melpignano 2011

Carissimi lettori, questa sera recensirò la prima metà (circa tre ore e mezzo) del concertone di Melpignano, in diretta grazie allo streaming web della televisione locale salento web tv all'indirizzo www.salentoweb.tv.

Il concerto è iniziato con un breve discorso, dopo il quale hanno iniziato a cantare le "'Ngracalate", ottimo gruppo tradizionale. Accompagnate dalla fisarmonica di Roberto Corciulo (da me conosciuto ai tempi della sua militanza negli Aramirè) hanno intanto interpretato "Santa Cesarea", canto riconducibile agli Ucci, quindi al pluricitato ma poco omaggiato in questo festival Uccio Aloisi. L'interpretazione è stata molto bella e sanguigna, ed ha subito ceduto il passo a "La fija de lu massaru", brano che a cappella si rallenta rispetto alla versione degli Agorà nel cd "Io, pizzica e tu...". L'interpretazione è sporca quanto basta, ma le voci sono belle ed intonate.

Subito dopo si è avuta un'interessantissima versione di "Damme la manu" (conosciuta anche come "Damme nu ricciu), che ha subito notevoli (ma tradizionali) variazioni. Magari tutti la facessero così!

Subito dopo, sempre con la bellissima fisarmonica di Corciulo, sono arrivati dei bellissimi stornelli con delle notevoli improvvisazioni testuali (così si innova! Credo che il Salento sia uno dei pochi posti al mondo in cui si pensa di innovare solo musicalmente, oltretutto forzando molto la mano, mentre si neglige l'aspetto canoro, lasciando ad esempio perdere le possibilità che per dire sarebbero date da un addolcimento rispettoso del canto, nonché l'aspetto testuale). Gli stornelli erano sulla melodia del "Fior di tutti i fiori", di cui riprendevano anche alcune strofe. Suona strano sentire alcune strofe che si sono conosciute lente a stornello, ad esempio la coppia di distici legati "Donnaci stai alla ripa de la Francia/ dimme l'amore comu se cumincia// E se cumincia cu soni e cu canti/ e va finire cu pene e turmenti". Comunque grande lezione a tre quarti dei gruppi salentini.

Il pubblico è un po' casinaro, meglio sinceramente nelle sagre di paese, anche pensando al fatto che il secondo gruppo sta accordando gli strumenti (sì perché le 'Ngracalate" hanno suonato appena un quarto d'ora e tutti i gruppi tradizionali dovrebbero suonare per un totale di un'ora e tre quarti (certo, Uccio è meglio rappresentato da Ludovico Einaudi piuttosto che dalla gente come lui...). Poi delle disparità fra il trattamento riservato a Uccio Aloisi quest'anno e quello riservato a Pino "Zimba" tre anni fa da pagani avremo modo di parlarne polemicamente (giusto per non essere polemici quell'anno, il 2008, tre ore del concertone furono tradizionali... rifletteteci...).

Il secondo gruppo, e giustizia sia!, è l'Uccio Aloisi gruppu, che ora, dopo la morte del suo ispiratore avvenuta alla fine d'ottobre dell'anno scorso, si chiama Robba de smuju. L'esibizione è iniziata con una breve cantata a cappella, seguita subito da dei bei stornelli. Gli stornelli sono stati alla maniera di Uccio, cantati da una bellissima voce tenorile, che in questa occasione è stata affiancata da una bellissima voce femminile (che non so a chi appartiene, durante le presentazioni speriamo di capirlo. Va detto che l'audio è un po' brutto, ma questo è l'unico canale che trasmette il concertone senza pubblicità). Naturalmente va detto da subito che l'Uccio Aloisi gruppu (o Robba de smuju) ha nel mandolinista Antonio Calzolaro il miglior elemento, per quanto tutti siano bravi (se avete più fortuna di quanta ne ho avuta io quando sono andata giù che me li sono visti solo per mezz'oretta, godrete davvero).

Il brano successivo è stata una pizzica molto coinvolgente quasi al modo della cutrofianese. Della cutrofianese ha conservato la caratteristica della sfida (fra la voce tenorile e quella femminile) oltreché molta parte della melodia.

Subito dopo c'è stato un valzerino a me completamente nuovo (e così mi piace, altra bella lezione ai gruppi di riproposta: la tradizione si rispetta non a chiacchiere ma a fatti, non si sfrutta come miniera di testi, ma se ne rispetta tutto o molto, non come fanno troppi).

Ora siamo con un'altra pizzica, una molto bella (forse la più bella da me sentita) versione di "Sta cala lu serenu". Sarà anche che la leggerezza del mandolino equilibra in maniera insuperabile il battito ossessivo e forte dei tamburelli, creando quell'armonia che molti gruppi di riproposta perdono, e non dico solo quelli contaminati.

Ora i Robba de smuju si stanno dedicando all'esecuzione di "Vorrei volare", uno dei brani più noti del repertorio di Uccio Aloisi,serie di stornelli in lingua italiana che io non amo più di tanto, sia per il fattore linguistico, ma anche per quello ritmico: lo stornello lo voglio scatenato. Comunque questa è una versione interessante perché c'è la sfida tra le due voci maschili del gruppo, la tenorile e quella meno corposa ma comunque potente di Domenico Riso.

Con la partecipazione di Antonio Melegari il gruppo sta eseguendo una pizzica di Cutrofiano al modo degli Ucci. Davvero bella. Ci sono molte strofe a me conosciute, forse c'è anche qualche improvvisazione. Possiamo finalmente dare un nome ai cantanti citati poco sopra: la voce tenorile appartiene a Gino de Nuzzo, anche dedito al tamburello, mentre la notevole voce femminile è quella di Lucia Passaseo, anche negli Ariacorte e collaboratrice sporadica di Cinzia Marzo in un bellissimo quartetto vocale costituito anche da Rachele Andrioli (ex cantante degli Zoè)e Rosaria Gaballo (una delle sorelle di Nardò, grandi cantrici riportate alla luce da Dario Muci).

Il pubblico nel precedente momento di pausa ha preso i tamburelli e ha fatto qualche strofa spontanea (che non ho capito, comunque è un bel clima anche se forse la troppa gente fa fare meno festa e diminuisce l'effettivo coinvolgimento del pubblico). Il pubblico sta cantando "Bella ciao", qualcuno, molto suscettibile e fascista che frequentava il sito www.pizzicata.it qualche anno fa si arrabbierebbe allo sfinimento. È un canto inframezzato da grida e un po' stonato ma è segno di festa e perché no di ribellione a queste ultime decisioni governative che ci vorrebbero perfino privare del 25 aprile e del 1 maggio.

Ed eccoci agli Arakne Mediterranea, di cui io ho ampiamente parlato su queste pagine, gruppo diretto attualmente da Imma Giannuzzi, che insieme a Cinzia Marzo e Anna Cinzia Villani forma il trio delle grandi cantanti femminili salentine. Il primo brano è una pizzica-pizzica che convoglia una serie di tarantelle barocche. Notevoli il flauto e il violino. Il flauto attualmente si sta lasciando andare a delle improvvisazioni non molto leggere, un pochino disarmoniche (giusto per tornare a quella mancanza di armonia che mi capita di trovare di tanto in tanto in molti gruppi di riproposta).

E finalmente si è potuta sentire la bella voce di Imma Giannuzzi interpretare "Fimmene fimmene", momento di suprema armonia che precede una pizzica per ora inascoltabile a causa delle esternazioni poco armoniche di una zampogna, strumento che mi sta particolarmente antipatico nelle musiche dove non c'è di tradizione (e anche nei posti dove c'è preferisco i momenti in cui tace).

Gli Arakne provengono da Martignano, altro paesino della Grecia salentina come Melpignano, ora stanno cantando una pizzica in minore, esattamente in la, dove per fortuna le esternazioni poco armoniche di cui sopra sono equilibrate dai voli leggiadri di un mandolino. Se ve la dovessi descrivere direi che questa pizzica riprende il giro armonico tonica-dominante in la minore, come alcune pizziche scritte modernamente nella zona di Lecce o come altre tradizionali nella zona di Brindisi, che però generalmente hanno anche il terzo accordo, ossia la sottodominante.

E dagli studi del Di Lecce, ex direttore del gruppo e suo fondatore, proviene questo insieme di strofe che viene solitamente cantato con l'aiuto di una tammorra muta e delle mani del pubblico. Per trovare la genesi di questo brano si può leggere il volume comunque interessante "Danza della piccola taranta", edito da Sensibili alle foglie nel 1994.

Tamburelli, nacchere e ciaramella eseguono una pizzica in sol. La melodia è una tipica scala, alternativamente ascendente e discendente, molto ripetitiva. Il brano era iniziato con un assolo di zampogna e circolarmente ci si è concluso.

Ed eccoci ad una pizzica (che non ascolterò per intero perché c'è qualche problema streaming), una pizzica tarantata dove i tamburelli sono le mani del pubblico. Le strofe sono di varia provenienza ma riportate rigorosamente in leccese. Nel ritornello si ha la possibilità di apprezzare la bravura di Luigi Giannuzzi, che oltre ad avere un'eccelsa voce da tenore ha una strabiliante mano su molti strumenti tra cui il tamburello. Da questa pizzica è sgorgato, senza soluzione di continuità, l'assolo di questo strumento. Non ritengo questo momento fondamentale, anzi a me il tamburello piace quando accompagna, non quando diventa una batteria. Magari mi impressiona ma poi dico: "Che mi ha dato?" "Niente!". Comunque dalle acrobazie rinasce la pizzica e ritorna l'ultimo giro di tarantata.

Omaggio a Pino "Zimba", con l'attacco di "Sale", che inizia una pizzica ugentina, difatti questa strofa ("sale, ulia mangiare cent'anni sale/ pe 'na donna ca me disse su dessapitu" o anche "lu testamentu", come hanno fatto gli Arakne) è esclusiva di Ugento. Nonostante questo ritornello le strofe che luigi Giannuzzi canta sono quelle comunemente cantate come "Sta cala lu serenu", già sentita poco fa dai Robba de smuju (fantasia!). C'è di buono che le melodie sono diverse e anche gli approcci al brano, quindi non dà fastidio. L'assolo di flauto ha concluso questo brano mentre il violino ha iniziato una bellissima, e credo anche lunghissima, "Pizzica tarantata". La versione degli Arakne ha una grande parte in cui il tamburo è rappresentato dalle mani della gente, devo dire che il lavoro lo stanno facendo bene. La parte di violino, oltre che da variazioni sul tipico giro di tarantata alla Stifani, è costituita da parti in minore. Ed entra l'armonica in do, con lei arriva anche la voce di Imma che inizia a cantare le strofe che si sentono nella "Pizzica taranta" di "Tre tarante". Forse la parte di armonica pecca un pochino per certe (leggere e poco importanti) incrinature blues, soprattutto sulle note che precedono i leggeri respiri che ogni armonicista deve concedersi per non sfiancarsi del tutto. Le strofe stanno cambiando, mamma mia che bello. Qui le incrinature moderne si sentono di più, peccato perché questa pizzica è profondamente concepita come omaggio alla tradizione. A livello di canto si riconoscono infatti le strofe di Cosimino Surdo e quelle di altri anziani che non identifico. E siamo arrivati alla tipica presentazione del gruppo da parte della sua leader Imma Giannuzzi, caratterizzata dalla specificazione della provenienza, paese per paese, di ogni componente del gruppo. Difatti, meglio ricordarlo, il gruppo, anche se a prevalente presenza leccese, è composto anche da brindisini e baresi ed esegue repertori provenienti da tutta la regione. Per averne conferma basta ascoltare il cd "Apulia". Da lì è partito l'assolo di percussioni con cui il gruppo ha salutato il pubblico.

Datemi ora la pazzienza per reggere quello che sta per succedere, ossia le rielaborazioni di un grande ma molto presuntuoso musicista che si chiama Ludovico Einaudi. Odio infatti le generalizzazioni del tipo: "la musica elettronica è l'unica in grado di parlare al mondo contemporaneo". Secondo me queste affermazioni, oltre ad essere irrispettose per la complessità dei gusti possibili, denotano grandissima ignoranza, che non può esser cancellata da niente, tantomeno da anni di conservatorio e teoria musicale. Secondo il mio parere gli unici in grado di capire questa musica sono quelli che si fanno guidare da essa, non quelli che hanno la presunzione di incasellarla arbitrariamente nei loro schemi. Io nelle sagre di paese dove sono andata, specialmente a Tricase Porto, ho visto molta gente che la capiva, la amava e la sentiva come propria,senza stare a dire di sapere chissà quale verità assoluta ed acquisita. Ovviamente nemmeno io voglio con questo articolo dare qualcosa che si avvicini alla verità, voglio solo far sentire una voce che si unisce ad un coro già iniziato degli scettici e, perché no, degli stanchi, di quelli che pensano che il futuro di questa musica vada o possa anche essere ricercato nella sua innovazione rispettosa e non solo nella contaminazione sfrenata.

Comunque ora che inizia l'orchestra popolare ne parleremo canzone per canzone.

Il pubblico si sta serenamente dando a canti e grida, è rispuntata "Bella ciao", si è sentita qualche bella terzina di pizzica, si aspetta che i "signoroni" salgano sul palco e che il loro ambaradan di cose venga montato.

C'è la fanfara di Tirana che segue un brano tradizionale albanese, devo dire che i fiati qui ovviamente non mi danno fastidio, anche perché io non amo la disarmonia, dove c'è l'armonia amo tutto. Il brano è sostenuto da un accordo di fa, è in maggiore ed ha una parte iniziale paragonabile a certe musiche di liscio italiane, seguita da parti con il tipico intervallo di seconda aumentata fra il primo e il secondo grado della scala, così tipico di varie tradizioni fra cui quella balcanica. E da un brano in fa, cambiando completamente di ritmo, si passa ad un'altra melodia stavolta basata su un "basso ostinato" in sol, addolcito solo da qualche momento in do e in fa. la compattezza dei fiati è veramente strabiliante, nonché il naturale (non hanno bisogno di fare assoli, il virtuosismo sta nel ritmo stesso) girare mirabolante delle percussioni. Sempre senza soluzione di continuità, senza respiro né pausa, si arriva ad un brano più ricco, caratterizzato da un'alternanza di momenti minori a momenti maggiori.

E dopo tre brani in uno si ha la prima pausa dell'esibizione, dopo la quale si riprende con un brano in fa minore, dove si assaporano tutte le scale balcaniche grazie ad un portentoso sax contralto, presto seguito da tutta la banda nelle sue evoluzioni.

È entrato un "basso ostinato" collettivo a fare da sottofondo e poi da contraltare ad un assolo di un dolce ma pur sempre scatenato clarinetto. E cambiando di ritmo si va in do minore, con un brano in cui la fanfara armonicamente suona una coinvolgente ma triste melodia. Ed ecco gli ottoni bassi che si preparano a fare da contraltare alle acrobazie del sax, che però in questo caso esegue parti brevi e con pause, anche se questo non mitiga per niente l'effetto ossessivo (imparate salentini che pensate che per ottenere la trance uno debba sentire una stessa nota ripetuta allo sfinimento). Questo pezzo in do minore ha avuto addirittura una codina cantata. Varie voci cantano all'unisono, caratteristica comune in molte culture mediterranee, quanto la polifonia, che oltretutto nel salento non ha gli schemi rigorosi che certi pretesi insegnanti pretendono attribuirle.

Ed il brano successivo è un brano d'orchestra ma dala struttura spesso fortemente cameristica, nel senso che la fanfara ama dividersi in gruppi più o meno grandi che amano dialogare tra loro. Dopo ciò ora si sta eseguendo un vorticosissimo brano in sibemolle, breve ma sfianca tutti.

Una voce tenorile sta eseguendo un canto in sol minore, lento ma con una batteria forse anche un po' fastidiosa. Comunque il canto è interessante per certe fioriture e coloriture messe indifferentemente sulle alte e sulle basse. Il pubblico purtroppo nonascolta, per questo ripeto: meglio le sagre di paese, per quanto lì ci sia anche chi è maleducato qui si dà il massimo. Il canto è accompagnato da una nota di bordone e da qualche fioritura più alta.

E si torna ai brani veloci continuando ad ascoltare cantare voci tenorili, questa volta in tonalità maggiore. La caratteristica del grado di seconda diminuito è in questo caso la più interessante caratteristica del canto. A cui si intreccia un fiato che dopo aver stimolato in un ultimo sprint di canto il cantante fa un breve assolo che prelude ad un breve sfogocollettivo. La voce torna a far sentire il suo canto con caratteristiche di confine fra il canto e l'urlo, dal quale però sfocia un pianissimo che porta ad una velocizzazione del tempo che porta alla chiusura del brano.

Da un inizio lentissimo è arrivato il solito ritmo veloce, questa volta suonato in un gaio fa maggiore, con scale simili alle nostre, che contemplano comunque tutti i colori caratteristici dei balcani ma lasciano spazio anche alle atmosfere del nostro liscio. Le percussioni fanno la parte del leone, dando alla batteria solo il ruolo di rafforzatore del proprio messaggio (imparate batteristi da strapazzo della musica popolare italiana). Questo brano ha avuto una parte abbastanza strana in quanto carattterizzata da una mancanza di coordinazione fra gli strumenti bassi e quelli alti, i quali suonavano in completa autonomia! Il tutto poi si è pacificamente risolto con l'entrata della fanfara in re, in un'alternanza di parti maggiori e minori, tutte caratterizzate da questa scala. La gente non ho idea di quello che stia facendo, spero che stia ballando.

E il vortice continua tornando sul do minore, con un brano ricchissimo di cambi e modulazioni, con giri simili a certe cose del cante jondo andaluso, soprattutto per la scala, per quanto essa è molto più diluita, con la possibilità per ogni accordo di restare nelle orecchie di chi lo riceve.

Su un ossessivo do minore si staglia il clarino, che con dolcezza si porta dietro la gente in un ballo scatenato, che precede il dialogo tra le varie parti dell'orchestra prese singolarmente. Il brano poi si sviluppa in sibemolle minore e contempla dei fischi altissimi, bello!

Il brano ora si sta sviluppando con un assolo di tromba incastonato su un "basso ostinato" sul fa, che precede i fischi e la riesposizione del tema trainante.

Su un ritmo simile ad una habanera si sviluppa un dolce tema con tonica in sol, il quale ben presto non disdegna profondissime aperture armoniche. Quanta armonia c'è, i salentini dovrebbero farne tesoro ma credo che risulterà loro difficile.

Il brano sta continuando a scorrere, guidato dal clarinetto, strumento da noi poco valutato nella musica popolare in nome dell'idolatria generalizzata all'insipido (e scusate!) flauto dolce. Il brano dà tutta l'idea di essere una serenata suonata davanti ad un'ipotetica finestra.

Ma ecco che il ritmo si fa di nuovo vorticoso, con un ennesimo brano in sol minore, che è ancora una volta caratterizzato da certi "bassi ostinati" che non annoiano perché sono riarmonizzati e riequilibrati da molta ricchezza melodica (anche qui: imparate salentini!).

Brano apparentemente lento in fa, iniziato da un basso ostinato in fa. Quando il basso sparisce il brano diventa vorticoso, è caratterizzato dalle solite alternanze tra scale maggiori e minori, però stavolta quando si va in minore si cambia di tono, toccando il sibemolle.

Molto bello ma secondo me dovevano suonare di più i salentini: è o non è questo il festival della nostra musica popolare per eccellenza per quanto contaminata, sporcata e forse sputtanata?

Avrebbero potuto fare benissimo mezz'ora le 'ngracalate, avrebbero potuto ma non l'hanno fatto.

Si è sentito il tormentone insopportabile (in cui purtroppo sono caduti pure gli Zoè nelle ultime date da me viste) sull'acquisto dei cd, pace.

Si è sentita una pubblicità, probabilmente inizia l'incubo fra qualche minuto.

Scusate lo scetticismo ma non condivido questo festival, ora anche per esperienza diretta della tappa di Zollino. È una baraonda dove la musica popolare è ridotta veramente a musica di consumo, fanno pizziche e canti popolari come potrebberofare qualsiasi cosa. Ripeto: meglio le sagre di paese.

Il pubblico si è ridato di nuovo alle sue grida, stiamo aspettando chissà che.

Vorrei nel frattempo approfittare per soffiare sul fuochino delle polemiche sulla disparità fra Uccio e "Zimba". Non so quanti di voi ricordano che nel 2008 ben metà concertone fu tradizionale, ad eccezione o quasi di quella grandissima pagliacciata (e mi fa male il cuore) dei cantori di Villa Castelli e Mario Salvi. C'erano Giovanni Avantaggiato, Uccio, gli Zoè, gli Zimbaria e addirittura Edoardo Winspeare.

Addirittura, dopo una versione vergognosa dell'inno nazionale fatta con la chitarra elettrica e distorta (perché noi dobbiamo sempre imitare qualcuno!) si ascolta Gianni Morandi cantare Sergio Endrigo (non capisco se sto vivendo un incubo o è vero, la canzone è bella ma che c'entra). Comunque la canzone è "Te lo leggo negli occhi", meravigliosa canzone d'amore lanciata da Dino. Io ripeto che qui siamo in un altissimo livello, ma mi chiedo che c'entra. Potevamo far durare gli interventi il giusto. Stessa identica considerazione feci a Zollino con le mie amiche che mi accompagnavano. Stiamo tutti aspettando che venga montato il mostruoso palco, che il baraccone attacchi, che il presunto futuro della musica salentina nasca.

E prima bisogna anche sentire lo Zecchino d'oro, mamma mia, Santu Paulu meu de le tarante, de li scurzuni e de tutti l'animali de lu munnu!

Il brano è "44 gatti", inno di tutti i centomila gatti che sono lì in piazza ad aspettare di buttarsi in un concerto rock dove la musica popolare è sfruttata e basta.

E perfino la musica classica viene scomodata per attendere Einaudi ed i suoi arrangiamenti. Si ascolta il "Nessun dorma" dalla "Turandot" di Puccini. Bellissima, ovvio, ma che c'entra. Va bene che i momenti di attesa a nessun concerto sono riempiti con musica in tema col concerto stesso, però insomma non ne potrei più, anche pensando all'immane ingiustizia fatta ai gruppi salentini che non hanno avuto il giusto peso.

In attesa si può anche ascoltare la "Volta la carta" di De Andrè live con la PFM. Almeno, dio sia lodato, questa è una tarantella. Ovvio la critica resta tutta.

E scusate se non riesco a parlarvi del concertone nella sua parte enaudiana, non ho pazienza. Questo ho fatto!





martedì 23 agosto 2011

aRIAFRISCA: "lA STRADA DELLE ROSE".

Carissimi lettori, questa sera ho finalmente l'onore di potervi parlare degli Ariafrisca, ottimo gruppo di musica popolare salentina con sede a Felline (LE), in attività da ormai dieci anni.

Il pretesto è la recensione al loro pregevole ultimo compact disc dal titolo "la strada delle rose".

Il cd si apre con una spumeggiante versione strumentale della Pizzica di Cisternino (BR), diversa da quella presentataci da Massimiliano Morabito nel suo "Sendë na rionettë sunà". Se la prima è in minore, questa si lascia andare in un semplice giro maggiore a due accordi, il tipico tonica-dominante della pizzica più pura. La presenza di ben due archi (un contrabbasso ed un violino) danno alla versione degli Ariafrisca una consistenza unica che rasenta l'ossessivo (fortuna!) senza però arrivare agli estremismi che danno certe trovate ormai comuni nella riproposta. Ciò che si trova qui è la semplicità delle pizziche antiche, quella spesso ripudiata da chi questa musica la vuole sfruttare solo per ciò che gli conviene e non valutarne i pregi obiettivi.

Quando si inizia a cantare si sente subito il valore vocale del gruppo che è davvero notevole. Intanto c'è la voce femminile di Maria Laura De Filippis, il cui timbro ha una forte personalità seppur vi si riconoscono chiarissime le influenze della scuola di Anna Cinzia Villani, in una certa potenza che a certe orecchie non abituate potrebbe sembrare calco (ma non lo è). Su certe vocali finali si riconosce (o si potrebbe riconoscere) uno stile che rimanda anche a certo canto contadino non solo salentino. Il primo canto è una versione estremamente personale (e bella!) de "Lu sule calau calau". Di personale vi sono i controcanti nonché piccole parti melodiche, ma soprattutto gli assoli di flauto e mantici, che forse sono le vere armi degli Ariafrisca. Difatti, secondo me, ciò che è migliorato tra "Sona ca nc'è l'aria" e questo cd, sicuramente più bello e maturo, è l'uso di questi elementi. Da notare, in questo brano, l'inizio ed il finale a cappella, eseguiti con uguale perizia anche live (la bellissima serata a Tricase Porto lo testimonierà presto anche per chi vorrà passare sul mio canale di Youtube quando essa sarà pubblicata in molti suoi momenti).

La traccia successiva è "Lu tommareddu meu", ma non vi fate illudere dal titolo, di cose particolari ve ne sono a iosa. Intanto il brano è un misto di almeno tre pizziche. La prima, quella eseguita sempre a gruppo completo (sempre impreziosito dal solito contrabbasso che dà un corpo notevole) è una serie di strofe di tematica varia, non solo sul tamburello. La seconda, leggera variante della prima, contiene strofe particolarmente piccanti, mentre la terza, omaggio ad Otello Profazio o quantomeno da me fortemente collegata al repertorio di questo grande calabrese, è eseguita, meno che l'ultima ripetizione, voci e tamhuri. Imparate gruppetti da strapazzo!

La traccia successiva è una toccante e tradizionalissima "Damme la manu". Si sente una notevole voce da basso, ruolo particolarmente negletto da questi innovatori da quattro soldi che pensano che il futuro della musica popolare sia per forza da trovare nelle contaminazioni spinte. Vanno notate le fioriture della voce principale, nonché il fatto che il controcanto va a terze (ritenuto rigidamente lo schema della tradizione ora che deve essere insegnata in pretese scuole) solo nelle parti finali di ogni distico, giusto a dimostrare che la linearità non era un attributo della vera tradizione.

La traccia successiva è una classica (solo apparentemente) versione della "Pizzica di San Vito" (BR). Intanto non viene eseguita la versione in la minore, bensì quella che lo stesso "mestu" Vincenzino Vita eseguiva in sol-mi. Il testo è tradotto in leccese, sinceramente non disturba. Le strofe sono quelle di Angelo Sabatelli per i "Tre violini inediti del tarantismo" di Fernando Giannini, libro edito per le edizioni Kurumuny di LuigiChiriatti. Per quanto riguarda la parte strumentale essa viene rispettata solo limitatamente alla parte in maggiore, quando si va in minore entra un flauto (forse tenore) e esegue un giro che porta l'armonizzazione anche verso il grado di "sottodominante", ma neanche questo disturba. Nella parte in sol ci sono due strumenti che nella tradizione sanvitese, che io sappia, sono rari. Mi riferisco all'armonica e all'organetto. Ragazzi, questa comunque è una delle migliori (se non la migliore!) versione della pizzica di San Vito all'infuori di quelle dei coniugi Sabatelli!

Ed andiamo avanti con un valzerino intitolato "Il cacciator del bosco". La versione degli Ariafrisca ha di strano il fatto che la parte narrativa è affidata alla voce femminile, mentre sinceramente credo che il canto sia spudoratamente maschile. Questo brano ha delle parti strumentali dove i tamburelli si rimpallano alternando uno una parte quasi brasiliana, l'altro un qualcosa di simile alla pizzica.

Sinceramente lo stacco non risulta molto gradevole alle mie orecchie, più che altro perché spezza l'atmosfera di un raro e gradevole valzer in lingua italiana. Lo stacco in sé non è male, si potrebbe obbiettare (e io obbietto!) che potrebbe essere base per un brano d'autore, non ha senso (ripeto sono opinioni personali e non vincolanti) metterlo in un brano spudoratamente e fortunatamente tradizionale. Alla fine, dall'ultima ripetizione dello stacco, si parte con una pizzica in minore (tonica-dominante) davvero spacca tutto!

Interessanti i dialoghi fra fl'auto e mantici, supportati dalla vigorosa sezione ritmica.

Nel finale la pizzica fa finta di stemperarsi e si ritorna brevemente al tema mediterraneo (o brasiliano) precedentemente toccato. Per fortuna è solo una finta.

Andando avanti si trova una tarantella in maggiore, con una scala amplissima, con un testo tradizionalee semitradizionale. È la storia dell'inizio e sviluppo di una storia d'amore nel mondo contadino. Anche questo è cantato prevalentemente in lingua italiana, in quell'italiano condito di dialetto che, nonostante io non lo ami, mi fa comunque tenerezza mentre (come ormai sapete) non sopporto l'italiano standard accompagnato dagli strumenti tradizionali. Curioso notare come le parti femminili siano in un dialetto più stretto, che viene ripreso, finalmente, anche dalle parti maschili. Ma alla fine si torna all'italiano, in nome di quella convivenza che si può toccare ancora con mano in certe zone del Salento e non solo negli anziani. Musicalmente il brano non porta al ballo, talmente è annacquata e addolcita.

Il brano successivo è sulla melodia nota come "Giulia di Fornovo", grazie alla maledetta fantasia e superficialità di Giovanna Marini. Il brano inizia con una strofa di quelle cantate dalla stessa cantante romana, ma ha una grande coerenza di trama, si sente che è un documento filologicamente rispettato ed eseguito a cappella.

E tornando alle tarantelle, stavolta belle forti, si canta su un monaco un po' poco ligio ai doveri eclesiastici, che preferisce l'amore alle funzioni di chiesa. Nel ritornello strumentale si assiste, ancora una volta, alle strabilianti entrate del flautista e dell'armonicista. Magari le terzine non sono senza respiro tipo Alla Bua ai tempi di Pierpaolo Sicuro, l'efficacia comunque è sempre tanta. Alla fine del brano il ritornello viene ripetuto svariate volte, l'ultima con un finalea cappella giusto per ricordarci di chi stiamo godendo l'arte.

Ed eccoci al brano che dà il titolo al cd, una pizzica in minore, con giro variabile dai tre ai quattro accordi, con musica d'autore ma testo liberamente creato mettendo insieme alcuni gioielli tradizionali poco cantati (questa è una delle caratteristiche degli Ariafrisca, che però non la coltivano in modo paranoico come tre quarti dei gruppi salentini).

Se dovessi raccontare la struttura della melodia dovrei citare gli Zoè e le pizziche in minore di Pisanello ("Don pizzica" e "Filia"), ma lo stile degli Ariafrisca dà tutta un'altra aria al tutto. Da ascoltare con rapimento. C'è questa solita leggerezza che dai tarantati alla Sparagna potrebbe essere mal interpretata, è solo segno di raffinatezza. Nella stessa direzione si muove il lungo crescendo di cui si rendono protagonisti la chitarra, il contrabbasso con l'archetto, l'organetto ed il sassofono soprano, che partono dopo che la stupenda voce di Maria laura De Filippis abbia smesso di cantare, con la sua particolare timbrica tra il rude ed il dolce, bellissime strofe di tematica romantica. Quando si torna a pizzica il sassofono ha il ruolo del canto, incalzato dai mantici. Bisogna dire che in contesto live questa parte perde un po' data la tendenza ad accentuare la botta del tamburello, mentre qui è tutto perfetto.

L'ultima traccia è un brano irlandese, difatti il mondo celtico aleggia per tutto il cd prima di materializzarsi in questa ballata. L'interpretazione è convincente dal punto di vista musicale, anche se il canto forse non rende, come non rendono i tamburelli.

Comunque è un cd bellissimo, che si chiude con una pizzica vorticosa in sol che si attacca all'ultima parte di questa ballata irlandese.

Per scoprire gli ariafrisca si può andare su www.ariafrisca.it o su www.youtube.com/ariafrisca.

Buona scoperta, resterete almeno colpiti.

martedì 16 agosto 2011

Agorà: "Io, pizzica... e tu..."

Carissimi lettori, sono appena tornata dal Salento, dove ho assistito a moltissimi concerti e comprato e ricevuto qualche disco degno di essere recensito.
Questa sera pago il pegno di gratitudine più grande, quello nei confronti del gruppo specchiese degli Agorà (visitate il loro sito all'indirizzo www.agoracantiantichi.net). Ho avuto la fortuna di vedere all'opera questo gruppo amatoriale ma non per questo peggiore di molti professionisti (nel Salento spesso dilettantismo significa attaccamento alla vera tradizione, quindi qualità). Il gruppo suonava in una ventosissima serata a Torre Pali. In quell'occasione ho avuto la possibilità di ricevere il cd (in regalo) uscito l'anno scorso dal titolo "Io, pizzica... e tu...".
Il percorso del gruppo, dal pregevole "Canti antichi" fino a questo perfetto ultimo disco, ha avuto una tappa intermedia nel già qui recensito "Canti de na fiata".

Il disco inizia con un inedito che racconta come sia cambiata la raccolta delle olive (giusto per dimostrare che, come diceva Raheli, una delle strade possibili per la sopravvivenza e il rinnovamento della musica popolare salentina è la composizione di "Nuova vecchia musica salentina". Il brano, intitolato "Lu trappitu", è stato scritto da Saverio Fonseca, affabile signore a cui tocca dirigere questa grande piccola nave della musica popolare salentina. La canzone ha il ritmo della tarantella, il giro tonica-dominante-sottodominante, quindi niente astrusità. Stupenda!

La seconda traccia è una perfetta "Pizzica di Cutrofiano" interpretata magistralmente da Maria Rimini e una voce maschile (forse quella di Giacomo casciaro) che in questo cd suona anche i flauti e il mandolino, forse lo strumento principe della grande elevazione stilistica del gruppo specchiese. Mai, infatti, nessuno strumento straniero potrà rimandarmi un centesimo della leggerezza magica del mandolino. Il brano non è veloce, anzi, è una delle pizziche più "stanche" e coinvolgenti che io abbia mai sentito. Il testo è quello degli Ucci, con qualche variante frutto di accurate e personali ricerche sul campo.

Sempre a tempo di pizzica arriva la bellissima "Quando te vitti", bella pizzica in minore sempre fatta sul giro tonica-dominante-sottodominante. Le strofe tradizionali sono interpretate da Maria Rimini, bella e ormai matura voce del gruppo, con l'aiuto di una voce maschile, che prende delle note che modernamente sono spesso eseguite dalle
donne.

Nel ritornello si omaggia Cosimino Surdo, il quale, invece di utilizzare il solito "Beddhra l'amore e ci la sape fa", intercalava le strofe della sua bellissima pizzica con un "Amame beddhra e nun me bbandunà".

Alla quarta traccia si arriva al primo valzerino del cd, con una bellissima "la fija de lu massaru", che ricorda in molti aspetti certe cantate del patriarca della musica popolare salentina Uccio Aloisi, morto qualche mese fa, e molto poco ricordato nel Salento anche da chi dice di volerlo ricordare.

In questo brano si dimostra ancora una volta che, proprio per i numerosi ostacoli che gli si frapponevano da parte di una società profondamente ingiusta, l'amore dei contadini poiché raro è forse più puro. Il brano scorre leggerissimo come tutto il cd, che prende in maniera assoluta chi ancora sa apprezzare questa musica per quello che è, un genere senza mediazioni.

Quando si torna alla pizzica si arriva ad un collage di strofe tradizionali, dove il giovane Giacomo Casciaro dimostra tutta la sua insuperabile abilità nei ricami su sol centrali sulla "a" della parola "fijata" del comune, ma non per questo stancante, ritornello "Na, na, na, comu balla fijata e ne pizzicau lu core mamma mia ce dulore".

Anche in questa pizzica, insieme a strofe comuni, si sentono assolute gemme di rarità poetica inusitata (agli autori di canzoni politiche a orologeria... meditate gente meditate!).

Solo nelle due ripetizioni della prima strofa si sente il "Beddhru l'amore e ci lu sape fa", ma non stanca.

La mandola che conclude il tutto da veramente la sensazione di essere noi la stella che compare a levante.

Sulla melodia del già di per sé raro canto "'Ntunucciu", riproposto veramente in contate occasioni quasi solo dai gruppi ricollegabili alla prima ondata della musica popolare salentina (Canzoniere e Aramirè in primis) si ascolta un testo in griko cantato dalla cantante femminile aiutata da questi particolari controcanti maschili che andrebbero a toccare note che, solo per spiccata tendenza al convenzionale, consideriamo caparbiamente femminili. Mentre la cantante interpreta con durezza, la voce maschile, pur restituendo il medesimo respiro, addolcisce molto il canto creando un interessantissimo contrasto.

Quando si torna a cantare in salentino lo si fa con l'unico momento un po' fiacco del cd, una versione lenta, simile a quella degli Zoè in "Terra" (pur nella profonda diversità della rielaborazione) di "Nia, nia, nia". Musicalmente sinceramente il brano è un po' troppo elaborato, soprattutto per quanto riguarda l'ultimissima parte del giro del canto, che poi, come nella più autentica tradizione salentina, corrisponde con la completa esplicitazione di ogni singolo distico. Il brano, comunque, è interessante per quanto riguarda il testo. Infatti, ancora una volta, oltre a qualche strofa del testo leccese spesso cantato a pizzica, si assiste ad assolute novità.

Così come per "Lu rusciu de lu mare" nel precedente "Canti de na fiata", anche qui abbiamo due versioni di questo testo. Contrariamente al precedente citato, però, qui le strofe non corrispondono per tutto il tempo. La melodia utilizzata, altro merito agli Agorà, è quella di Luigi Stifani che costui interpreta a filastrocca nel cd "Io al Santo ci credo" allegato all'omonimo libro delle Edizioni Aramirè di Lecce, utilizzata dagli stessi Aramirè in maniera molto buona per la loroversione, unica pubblicata ufficialmente, del classico "Opilllopillopì".

E si torna al valzer, cantando una melodia che gli Zimba (vedere il cd allegato al libro "Zimba voci, suoni e ritmi di Aradeo" delle Edizioni Kurumuny diLuigi Chiriatti) utilizzava per rivendicazioni o consigli sulle lotte alle tabacchine del paese. Il testo qui, invece, è bucolico, forse anche troppo, ma forse anche questo era la musica popolare, anzi forse lo era anche più di quanto fosse questo veicolo di lotta che secondo molti, in maniera estremistica, sarebbe così importante nel folklore salentino, anzi addirittura lo monopolizzerebbe.

Melodia leggera e bella, ispira libertà e gaiezza, anche grazie alla mandola, la cui profondità non dà fastidio, perché non utilizzata in maniera mediterranea (bella ma ormai comune nella musica salentina) ma tendente ad un'italianità spesso dimenticata, in nome di pretesi globalismi o glocalismi che ovviamente è la nostra radice più grande.

La traccia successiva, con la quale si torna alla pizzica, è una versione molto buona, anche se forse non molto convincente perché tradotta dal dialetto d'origine al leccese, della "Pizzica di Torchiarolo", con il testo riportato alla luce di recente da Enza Pagliara.

Ancora una volta ritroviamo questa pizzica, forse per gli standard di certa gente "stanca", ma per me, proprio perché tale, coinvolgente e anche interessante per la possibilità di essere portati dall'arte del gruppo fino a profondità dove la velocità non porta.

La voce del cantante è molto vicina ai portatori della tradizione, è dura e graffiante, niente a che vedere con gli atteggiamenti da "Sanremo dei proletari" che si vedranno tra una decina di giorni a Melpignano.

La mandola cesella leggermente variato il tema vocalizzato nel ritornello, così si va avanti lentamente ma irreparabilmente nella pizzica.

Avrete forse capito che ritengo una lezione grandiosa questo cd, a chi pensa che questa musica vada fatta facendo caciara.

E utilizzando un ritmo latino completamente entrato nella nostra tradizione si interpreta un carinissimo canto da osteria intitolato spesso "Na mujere vascia vascia. una coppia tenta di separarsi minacciando l'altro componente di non farne più parte perché costui (o costei) sarà data, ma poi tutto si risolve per il meglio. Curiose certe inflessioni napoletane nella pronuncia della frase "nui ci ulimu bene", presente nel ritornello. Questo è uno di quei canti che potrebbe continuare all'infinito, per la sua circolarità. Vediamo se anche questo repertorio, tramite qualche coraggioso tra cui gli Agorà, i Calanti e i Briganti di Terra d'Otranto, acquista la dignità che ha acquistato (o fatto finta di acquistare...) la pizzica. Anche qui la mandola cesella il brano con interessanti note ribattute in corrispondenza di ogni pausa.

La penultima traccia, insieme alla seconda, è da sempre (ossia dai cinque giorni in cui ho potuto assaporare il cd) la mia preferita. Il brano si sviluppa in una vorticosa (ma sempre "stanca" e leggerissima) pizzica di Aradeo, inpreziosita dai voli del flauto irlandese, che se fosse meno leggero, diventerebbe, come per miracolo, uno di quei flautini che si sentono in qualche traccia del cd "Le tradizioni musicali in Puglia vol. 3" di Giuseppe Michele Gala.

Anche qui, pur nella relativa stabilità e frequenza delle strofe, si assiste a qualche succulenta novità che non vi anticipo, costringendo chi avrà la curiosità sufficiente, a provare a prendere il cd magari ad uno dei bellissimi concerti del gruppo specchiese.

Va detto, per la cronaca, che anche per quanto riguarda le voci, il gruppo, pur non rinunciando alle sue caratteristiche veramente tradizionali, è migliorato infinitamente.

L'ultima traccia è una tarantelluccia che ricorda da una parte "lu scarparu" cantata dagli Alla Bua nel cd "Stella lucente" del 1999, dall'altra, ampliata credo, una poesia di Cesare Monte, il cui repertorio suonato con gli strumenti del Sud è anche carino. Bellissimi i controcanti di due mandole, una sulle note sottto l'ottava centrale del piano e l'altra sopra.

Avete voglia di fare un po' di festa e magari ubriacarvi anche di semplicità? Ascoltatevi l'ultimo prezioso cd degli Agorà.