mercoledì 8 giugno 2011

Inti-Illimani: Conciertos Italia '92"

Carissimi lettori, dopo essermi sfogata in difesa di uno dei più grandi e longevi gruppi salentini, torno, per la seconda volta, ad omaggiare uno dei gruppi più importanti nella mia formazione di appassionata di musica e musicista. Mi riferisco agli Inti-Illimani, che questa volta omaggerò recensendo un loro disco di reperibilità particolarmente difficile dal titolo "Conciertos Italia '92").

Il disco è un bootleg ufficiale, ossia uno di quelli dove il suono dal vivo è lasciato puro o quasi. Il percorso inizia con un brano estratto dall'altro pregevole disco dal vivo del gruppo, pubblicato due anni prima insieme a Paco Peña e John Williams, dal titolo "Leyenda". Il brano è uno di quegli strumentali imponenti così cari al gruppo, che ne ha fatto una delle sue bandiere, più riconosciuta anche della stessa bandiera politica, che invece soprattutto per il pubblico italiano è l'unica che il gruppo ostenta. Il brano si basa su una melodia solo in apparenza scarna e semplice, composta da due giri melodici completamente diversi che si incastonano l'uno dentro l'altro e sono interpretati da un crescendo di strumenti di diverse provenienze, dal charango al tiple, dalle claves al contrabbasso. Solo nella seconda ripresa della parte iniziale, di introduzione alla base della melodia, entra la zampoña, da noi conosciuta comunemente come flauto di pan. La gente accoglie in maniera abbastanza tiepida, anche se forse apprezza sinceramente. Ho già accennato all'eccessivo legame che il pubblico italiano ha con la parte andina del repertorio del gruppo, che non è mai stata la dominante nel suo immaginario, anzi è entrata successivamente rispetto all'inizio della sua carriera in quanto il suo primo disco è un omaggio alla rivoluzione messicana ("Canciones de la Revolución mexicana 1968).

Il gruppo, continuando, va a riprendere uno spumeggiante brano boliviano da lui reinterpretato nel disco "Palimpsesto" (1981), quello che aveva inaugurato la fase della "Finestra aperta" e chiuso quella della "Valigia pronta". Il brano è interpretato inizialmente solo voci a "canone" con un leggero accompagnamento di chitarra sui bassi, per poi esplodere in una festa di armonia tra voci e strumenti.

Il primo intervento parlato è di Jorge, all'epoca principale incaricato dei contatti con il pubblico di un gruppo che non aveva bisogno di aggettivi per presentarsi come "histórico" o "nuevo" e non era stato corrotto dal più grande corruttore dell'arte, il Dio Denaro.

Quando il gruppo torna a cantare presenta un brano, a ritmo di cueca, che all'epoca stava conoscendo le sue prime apparizioni pubbliche, mentre l'anno successivo sarebbe apparso nel cd "Andadas". È un brano sull'esilio e su come questa esperienza faccia poi sentire stranieri in qualsiasi posto. Il brano è veramente stupendo, innova con quella semplicità che ora, spesso, i gruppi popolari di tutto il mondo hanno perso in favore di una discutibile tendenza al barocco. È interessante sentire come il sax soprano di Renato Freyggang riesca ad avere la stessa capacità evocativa della tromba, anzi la superi.

Gli Inti-Illimani, proseguendo, riprendono uno di quei brani che "appartengono in buona misura" alla prima generazione dei loro ammiratori, la più settaria, chiusa ma forse anche sincera. Il brano è "Run run se fue pa'l norte", scritta da Violeta Parra con un ritmo molto più veloce e con un testo molto più lungo, interpretata dal gruppo con un arrangiamento concepito dal grande musicista classico cileno Luis Advis, quello della "Cantata a Santa María de Iquique" per i Quilapayún e del "Canto per un seme" per gli stessi Inti. Il brano fu inciso per la prima volta nel primo periodo cileno del gruppo nel vinile "Autores chilenos" (1971), quasi totalmente riprodotto dal vinile "la nueva canción chilena", inciso in Italia tre anni dopo (1974). La versione del gruppo, nonostante la sua innegabile bellezza, fas perdere molto del carattere narrativo datogli da Violeta Parra (disco "Sus últimas canciones" 1966),, che lo avvicina a certi canti di tradizione italiana con la struttura di ballata.

E il tuffo nei ricordi non si arresta, anzi continua con un "Tincu" estratto e reinterpretato a partire da quel "Canto de Pueblos andinos" inciso pochi mesi prima della tournée in Italia del 1973 che si trasformerà in un esilio durato per quindici anni, ripubblicato in versione originale in Italia nel 1975. La versione live è sempre stata molto più veloce, quindi permette ai musicisti di divertirsi. Bello, e particolare, il controcanto urlato di José Seves (grandissima voce del gruppo, ora negli Históricos,) alle frasi cantate da Horacio Salinas con festosità e misura.

Si torna al presente, o meglio al futuro degli Inti-Illimani, ossia ai brani di "Andadas", con una salsa scritta da Horacio Salinas su testo del grande Nicolás Guillén, lo stesso poeta musicato da Paco Ibáñez nella sua "Guitarra en duelo mayor" ("Soldadito boliviano"), presente nel cd tributo ad Ernesto Che Guevara. L'anima centroamericana del gruppo viene da lontano, si pensi ai pregevoli esperimenti cubani di "Sensemaya" (brano musicato sempre dagli Inti nel disco "Canción para matar una culebra" del 1979, su testo dello stesso Guillén) o alla divertente "Tío Caimán" interpretata nel disco del 1980 dal titolo "En directo" (caldamente consigliato da queste parti).

Meraviglioso l'intervento dell'ottavino e l'uso del tiple come tres, altrettanto efficace nella musica cubana, mentre lo strumento cubano nella pizzica, e lo sapete, non porta a nessun risultato di mio gradimento.

Ed Horacio Durán, con il suo inconfondibile accento romanesco, sta rievocando l'incontro con Roberto De Simone che ha portato il gruppo ha interpretare, in maniera pregevole, sia una composizione dello stesso De Simone dal titolo "Canna Austina", sia una notissima tarantella barocca del repertorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare dal titolo comune di "Tarantella del '600". Per chi volesse approfondire lo spettacolo del teatro Mercadante consiglio il canale di Youtube di Thedonnaregina, all'indirizzo www.youtube.com/thedonnaregina. Tornando all'interpretazione del gruppo di "Canna Austina" è una specie di tammurriata senza tamburi, ma l'insuperabile ritmicità degli strumenti etnici latino-americani non fa sentire la mancanza. La vocalità del gruppo fa il brano proprio ma non stravolge per niente l'atmosfera, forse l'unico problema è la pronuncia del napoletano con mancanze abbastanza evidenti. E senza soluzione di continuità entra il tamburello, basco, e con lui la "Tarantella del '600". Suona particolare sentire una bella tarantella suonata con strumenti tra cui spicca un'arpa peruviana, comunque è bella. Entra l'ottavino, in America Latina chiamato "piccolo", che tanto da vicino ricorda gli strumenti fatti con canne dai nostri pastori (meglio l'ottavino che i flauti dolci e traversi nella musica popolare italiana, grazie!). La struttura tripartita del brano viene completata da una particolare rielaborazione strumentale del tema della "Canna austina", che addirittura prevede la solita zampoña bassa, che qui dialoga e contrasta con uno squillante e festoso ottavino. Il contrasto cede spazio al sassofono soprano che dà veramente l'idea di una ciaramella napoletana. Per ascoltare questa versione, solo la parte strumentale, si può utilizzare il disco "Leyenda", caldamente consigliato anche se non so quanto presente sul mercato nostrano. Particolare è, proseguendo l'ascolto, l'entrata del Cajón peruano con terzine che si incastonano nel ritmo della tammurriata, e ancora più particolare è, ormai alla fine, sentirlo accompagnare, insieme al tamburello basco, l'ultimo vorticoso giro di tarantella. Forse manca la precisione della terzina data dal giro della mano, ma l'effetto è spesso superiore a molte tarantelle nostrane!

Quando si torna a cantare in spagnolo, lo si fa con una di quelle canzoni che, tra quelle a tema politico, hanno sempre riscosso una preferenza da parte mia del tutto specifica e particolare. Mi riferisco ad "America novia mía", pubblicata nel 1977, nel disco "Chile resistencia", il primo che annuncia la maturità musicale del gruppo, che esploderà in dischi come "Canción para matar una culebra" (1979) o "Palimpsesto" (1981). Il brano è musicalmente aperto e complicato, utilizza una serie di terze di due quenas (flauto di canna a canna singola) molto particolari. Il testo è sulla necessità, ancora oggi molto sentita nonostante tutto, di liberare il continente latino dal giogo del nord.

Continuando si torna ad uno dei brani che faranno parte poi del successivo lavoro degli Inti, il bellissimo "Andadas" (1993). Il brano è cantato in una lingua precolombiana, credo Quechua. Qui la musica andina nonesplode, anzi è addolcita da certe idee armoniche del gruppo che tendono ad interiorizzarla facendola quasisparire. Particolare è, ad esempio, il fatto che gli accordi di "re minore" (tonica" e "mi minore" siano sostituiti dalle proprie settime, creando così un leggero arricchimento jazzistico, che d'altronde, se inficia un po' la festa, non tradisce nemmeno la radice del canto eseguito.

Sia gli Inti-Illimani che i Quilapayún, entrambi esiliati in Europa per quindici anni durante la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1988), hanno voluto ringraziare i rispettivi paesi di accoglienza (Italia per i primi e Francia per i secondi) con composizioni a loro dedicate, scegliendo località a loro particolarmente familiari. È questo il caso di questa "Cinque terre", basata su un basso ostinato su varianti di "mi maggiore", al confine con il doddiesis minore. L'atmosfera creata dal brano dà una grandissima idea di fluidità, di acqua marina in dolce movimento. Infatti, in maniera simbolica, il brano finisce con un "Palo de agua", strumento da noi conosciuto come "Canna della pioggia".

Ed a proposito di brani dedicati all'Italia, si prosegue con "Danza di Cala Luna", basata su un ritmo popolare sardo. Il brano conserva la tipica alternanza tra parti in maggiore, affidate solo alle corde e leggeri tocchi di piatti, e parti in minore dove entra una zampoña contrastata da assoli di corde al contempo intime e scatenate. Nella parte in minore, poi, dal punto di vista armonico, è interessante la presenza del sol maggiore che sostituisce il ben più tradizionale do maggiore. Qui l'alternanza si fa più serrata ed avviene all'interno di uno stesso giro melodico, oppure si potrebbe dire che giri dalla struttura armonica diversa si susseguono in maniera più serrata rispetto al resto del brano. A seguire si torna alla calma del giro in minore. Il brano è presente in due dischi del gruppo intitolati "De Canto y baile" e "Fragmentos de un sueño", risalenti entrambi alla fine degli anni Ottanta.

Si prosegue con un ritmo negro peruviano, sul quale il gruppo canta un testo ispirato a José Seves dalla lettura del libro "L'autunno del patriarca" di Gabriel García Márquez. Anche questo brano è tratto da "De canto y baile", e ancora una volta è caratterizzato da una ricchezza di atmosfere e tecniche esecutive veramente invidiabile (probabilmente se i nostri gruppi di musica popolare ascoltassero più musica latino-americana e meno blues nascerebbero composizioni meno paranoiche e più belle!). Ed entra il flauto ottavino, già presente nel ritornello, per aiutare la festa data dalla sperata, e all'epoca dell'incisione di questo disco finalmente ottenuta, libertà dalle dittature. Il finale è l'esplosione di allegria prima solo accennata, qui sia il cajón che il cencerro la fanno da padrone, e anche gli strumenti a corde e a fiato acquistano una certa leggerezza tipica delle percussioni.

Chicca assoluta è questa "El guarapo y la melcocha", brano tradizionale cubano, giusto per continuare a tentare di sfatare questo mito per il quale gli Inti sarebbero un gruppo che si sarebbe dedicato solo alla musica andina, dal titolo ispirato ad un liquore (el guarapo) e a un dolce (la melcocha). L'interpretazione è festosa, anche se, purtroppo, il pubblico non si sente ad aiutare il gruppo con le mani. Belli gli assoli di tiple, che, come detto prima, anche in questi ritmi sa fare la propria figura (anzi è bello perfino nella musica popolare italiana, per accorgersene basta ascoltare i mirabili contrappunti eseguiti da Daniele Durante su questo strumento nel brano "Quantu è bruttu e miseru lu spettare" nel cd "Allora tu si de lu Sud" (Animamundi). Per ascoltare il brano basta venire sul mio canale di Youtube che, vi ricordo, si trova all'indirizzo www.youtube.com/valentinalocchi.

Il concerto sarebbe finito, infatti la gente stta reclamando il ritorno sul palco del gruppo, il quale accontenta e chiude con un brano boliviano molto amato da noi italiani, e credo non solo. Il brano in questione è "La fiesta de San Benito", pubblicata per la prima volta in Cile nel 1969 (disco "Inti-Illimani"), da noi conosciuta per il rifacimento nel disco "Viva Chile" del 1973, primo pubblicato in Italia dal gruppo.

In questa versione, cosa mantenuta anche nelle successive, c'è una modifica nel testo, infatti il verso "coge tu mante" (prendi il tuo mantello) viene sostituito da un "aunque tunante", ossia seppur girovago. In questa versione fanno capolino alcune influenze africane, ma siamo ben lontani dalle rielaborazioni jazzate, per me insopportabili, fatte spesso dall'attuale direttore degli Inti-Illimani "nuevos" Manuel Meriño. Il gruppo nel finale gioca con le armonie, magari questo smorza la festa che si fa, e voglia se si fa, quando si ascolta questo brano. Il consiglio, in chiusura di questo articolo, è diascoltare questo brano solo nella versione di "Viva Chile".

Sperando di avervi fatto piacere, ¡Viva Chile!

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