venerdì 29 aprile 2011

Sui limiti della contaminazione tra musica americana ed italiana

Carissimi lettori, non avrei mai voluto scrivere l’articolo che sto per redigere, più che altro perché la persona che sto per difendere (Lucio Dalla) ha 45 anni di carriera sulle spalle che la difendono molto meglio di me.
Il cantautore bolognese, in occasione di un suo discorso tenuto in un’Università, ha affermato che il rap, come forma d’arte, non ha niente a che vedere con la maniera profonda di vivere la musica che noi italiani, volendo o non volendo, ci portiamo nel DNA. Sinceramente, conoscendo approfonditamente l’opera di Dalla, non credo che il discorso, commentato a iosa dai giornali ma da essi non riportato sufficientemente, quantomeno per quello che mi è stato possibile vedere, che il cantautore faccia una serie di affermazioni nazionalistiche. Non avendo io chiare le opinioni di Dalla, in questa sede vorrei solo esprimere le mie, discutibili, personali, relative.
Credo che il rap vada bene (a me comunque non piace) solo cantato nello slang americano che lo ha visto nascere come musica di denuncia. Da noi, e in tutto il resto del mondo, è una di quelle musiche che, ben digerita dal sistema che inizialmente denunciava, è stata da esso dittatorialmente imposta. In Italia, almeno per me, non c’è un solo rapper decente,meno ancora Fabri Fibra, il cui caso veniva citato da un giornalista per considerare Dalla un “incapace”, in quanto non ne avrebbe capito il talento. Sinceramente, e io la metto su un punto di vista linguistico e filologico, tutti quei progetti che prendono il via da premesse che forzano la cultura con i quali essi vengono irrimediabilmente a contatto, non li approvo. Ogni lingua, sia essa maggioritaria o minoritaria, è, ancora prima che una serie di regole, un mondo sonoro che la musica deve saper sfruttare e valorizzare, obbligandosi a non farle fare ciò che non le è naturale. Se si ascolta gran parte del rap italiano, oltre ai testi insulsi della maggioranza dei brani, si sente un insopportabile (almeno alle mie orecchie) maltrattamento della lingua italiana.Sinceramente, poi, non capisco il gusto di scimmiottare pedissequamente una musica importata, oltretutto in maniera innaturale, come accennato poco sopra, rinunciando a prenderne stimoli per poi farne qualcosa veramente di proprio. Sinceramente io preferisco delle esperienze di uso più particolare del parlato, ad esempio brani di Piero Ciampi (1935-1980) come “Te lo faccio vedere chi sono io”, dove la musica non dà lo schema ritmico alla parola, solo il sottofondo affinché il cantante si possa divertire con la parola, non imprigionata negli schemi, concepiti per lo slang americano, del rap. Credo infatti che il parlato sia un grandissimo arricchimento del cantato, come anche altri colori tra cui i finali “calanti”, ma non deve essere una schiavizzazione né un obbligo. Amo infatti il Paolo Conte che mischia cantato e parlato, oppure certi “tangueros” che utilizzano il parlato per andare in controtempo, cosa che si può fare con le lingue neolatine, difattidifficilmente piegabili a schemi ritmici estranei. Sinceramente io lascio ovviamente ad ognuno i propri gusti, ma dico che, come i cantanti americani non cantano all’italiana ma hanno creato orgogliosamente un modo di canto solo per l’inglese, così abbiamo l’obbligo di riscoprire la nostra italianità, la stessa che il mondo ci invidia. Dalla, che non è estraneo alla cultura americana, ne utilizza in maniera molto propria le caratteristiche, avendo creato ad esempio un misto tra rap e scat in brani come “Borsa valori”. Nel brano, infatti, la voce viene usata in gran parte della sua estensione, dalle note alte a quelle medie, non limitandosi allo schematismo, completamente basato su note medie, del rap puro.
Un’altra tendenza che mi dà fastidio, presa anche dalla musica popolare salentina, oltre ai fastidiosissimi brani in italiano, è quella delle contaminazioni, o peggio ancora dell’esecuzione e creazione, di blues italiano. Secondo Paolo Conte,infatti, noi abbiamo la cultura per il swing e la ballad lenta, mentre il blues non è nostro. Difatti,se ci si pensa bene, il swing e la ballad prevedono il canto o un qualcosa di simile al “bel canto”, il blues ha un lamento che si può fare solo in inglese e con le sue sonorità. A dimostrazione di ciò stanno i brani, meravigliosi e indimenticati, scritti da compositori come Giovanni d’Anzi o Gorni Kramer, che negli anni Trenta traghettarono il jazz in Italia, nonostante l’ipocrita e falsa opposizione ufficiale del fascismo.
Come avete visto da una difesa di Dalla si è passato ad enumerare quelli che per me sono i limiti di buon gusto nelle contaminazioni tra la musica statunitense ed il nostro modo di concepire quest’arte, come già notato da noi stupidamente rinnegato (e notare che quando non lo rinnegavamo ma lo esportavamo davvero, noi contavamo musicalmente nel mondo, ora siamo poco più di niente).

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