domenica 18 dicembre 2011

"Sodade": ricordo di Cesaria

Carissimi lettori, la musica capoverdiana oggi è di lutto, difatti ieri se ne è andata la più grande voce dell'arcipelago, la cantante di Mornas e Coladeras Cesaria Evora.

Per descrivere i generi di musica capoverdiani, alcuni portoghesi, forse con un po' di megalomania ma comunque realisticamente, dicono che sono "fados con ritmo".

Per me, sinceramente, pur avendo sentito altri cantanti capoverdiani, nessuno ha l'espressività dolcemente strappacuore della voce di Cesaria.

L'album a cui io sono più legata è "Café Atlántico", disco del 1999 dove, oltre a Mornas e Coladeras, si assiste anche all'interpretazione di brani in portoghese ("Negue", classico brasiliano) e in spagnolo ("Maria Helena"). Per motivi ovvi, legati alla lingua, rende di più l'interpretazione intima del primo brano, piuttosto che quella del secondo, dove comunque c'è un bellissimo arrangiamento.

Le canzoni di Cesaria sono cantate in creolo, una lingua nata dal contatto tra il portoghese, lingua dei colonizzatori europei, e i dialetti africani autoctoni. Purtroppo io non capisco molto i testi, ma spesso essi sono animati da un senso quasi ecumenico, che forse la nostra musica (sia leggera che popolare) dovrebbe riscoprire.

Bella la voce dell'Evora, che era dolce ma potente, leggera e malinconica.

Gli ultimi album, come i primi, usciti tra l'altro quando la cantante aveva più di quarant'anni, non sono forse perfetti. Le due gemme che costellano la sua discografia sono, almeno per me, "Café Atlántico" (già citato ma "repetita iuvant") e "São Vicente di longe".

Scusate se questo articolo non può assolutamente ambire ad essere il ritratto di questo genio capoverdiano, è stato l'unico modo che ho trovato per sfogare la mia tristezza.

martedì 6 dicembre 2011

Chicca officiniana imperdibile!

Carissimi lettori, devo aggiornare il blog con un piacere del tutto particolare. Rovistando nel web (e non si finisce mai di scoprire roba nuova!) ho trovato un'intervista a Lamberto Probo degli Zoè veramente succulenta. Risale alla partecipazione del gruppo alla penultima edizione di "Roma incontra il mondo", rassegna di musiche popolari che si tiene nell'estate romana.
Il link è radiosonar.net/.../82-intervista-officina-zoe-10-luglio-roma-incontra-il-mondo.html.
Non ve la spiego, il musicista si sfoga a tutto tondo, da godere!

domenica 4 dicembre 2011

Una bella notizia "pizzicata"

Carissimi lettori, oggi scrivo per darvi una delle notizie più belle che mi potesse capitare di dare.
Dal sito "www.radiotvsalento.net" si può accedere con estrema facilità alla prima web radio dedicata alla pizzica ed alla musica popolare salentina chiamata "radio salento pizzica station".

Laprima volta che l'ho aperta il giorno non sembrava essere dei migliori perché mi ha salutato il gruppo dei Mascarimirì (il "cavallo" e il "cavallino" che nitrivano di una contaminazione tra pizzica, tarantella, rai e non so che altro... incubo!).

Dopo, a Dio piacendo, sono arrivati gli Allabua con "'A vigna", traccia minore del loro secondo cd, incisa con la collaborazione di Quintino Sicuro alla ghironda. Subito dopo sono partiti i Cunservamara, gruppo della nuova ondata, non privo di spunti di interesse. Il loro brano era una versione stornellante di "Te sira".

Tornata ad accendere la web radio sono stata accolta da una "Carataranta" del Canzoniere Grecanico Salentino a guida Daniele Durante. Il brano non è un capolavoro ma è inhnegabile la maestria del gruppo.

Ora mi stanno deliziando gli Officina (Zoè ovviamente!) con la loro versione de "lu rusciu de lu mare", tratta dal classicissimo "Terra".

Continuerò per un po' ad ascoltare redigendo un resoconto di una playlist, per consigliarvi a voi comunque di ascoltarla e farle anche delle critiche, costruttive e sentite come a me piacciono.

Continuando si arriva ad un brano de La notte Della Taranta, ossia alla"Pizzicarella" versione Sparagna. La critica che viene istintiva è che mettono troppo prevalentemente cose commerciali ma meglio di niente come divulgazione della pizzica si può accettare.

Il brano sinceramente è una delle peggiori cose che si siano mai fatte, in quanto il signorino Sparagna nei suoi tre anni di conduzione dell'orchestra popolare (idea bruttissima in sé oltretutto!) si è ritenuto in diritto e in dovere, per ridare contemporaneità al folk salentino, di rimusicarlo in tutto e per tutto. Questo a casa mia si chiama essere ladroni! Per me, e fortunatamente non solo, la "Pizzicarella" della "Simpatichina" è più bella e più coinvolgente.

Poi, per quanto riguarda la voce di Alessia Tondo, bambina prodigio della Notte, non ha una voce convincente ma nemmeno un po', e sette anni dopo questa incisione (2004-2011) la sua voce è già rauca e forza molto se canta. Se questo è il futuro del Salento sinceramente meglio restarsene al passato.

Va detto che la batteria, e su questo Sparagna è stato bravo, imita i tamburelli, anche se piuttosto che sentirli imitati da una batteria io li avrei voluti sentire dal vero i tamburelli.

Pur di allungarla allo sfinimento, invece di trovare nuove strofe, cosa che veramente darebbe un futuro a questa musica, la "Pizzicarella" si ricanta identica in tutto e per tutto. Fantasia, novità, innovazione solo a chiacchiere, a fatti stagnazione!

Gli strumenti si stanno dando a una pizzica casinara ma forse coinvolgente per i "tarantolati" (e la smettessero di chiamarsi così!) che stavano nel cortile del convento degli Agostiniani.

Questa stazione ha di bello che alterna brani veloci e brani lenti. Andando avanti si ascolta un brano, probabilmente in dialetto siciliano o brindisino, con un testo bellissimo ma con una musica ed un arrangiamento di questi che vanno di moda ora, in minore, con tre accordi e melodie dove, pur di non calcare e imitare gli anziani, si fadiventare il folk altrodase stesso. Almeno qui non c'è la batteria, si ascolta un gruppo quasi tradizionale. Come spesso succede nei gruppi nuovi, magari si assiste anche ad un dominio buono degli strumenti, qui fanno cose interessanti sia le percussioni che il violino, ma anche alla scarsità delle voci, che invece, secondo quanto affermano quelli che hanno iniziato questo lavoro venti o più anni fa, sono l'elemento più importante della musica popolare salentina, che, non lo scordiamo, era cantata nei campi e non c'erano strumenti se non in cotnate occasioni.

Il brano successivo fa fare un bel salto di qualità, difatti, dal cd "Focu d'amore" del Nuovo Canzoniere Grecanico Salentino a guida Mauro Durante, si ascolta la "Pizzica caddhipulina", molto ben cantata e suonata da tutti.

Il canale comunque è caldamente consigliato, ma ancora un pochino lo seguiamo redigendo un resoconto.

Oltre al repertorio tipico di ogni regione o di ogni zona c'è un repertorio che ormai è diventato una "coinè", ossia uno standard panameridionale. Tra i brani che compongono questo standard, purtroppo, c'è "Brigante se more", brano con testo e musica d'autore (Eugenio Bennato e Carlo D'Angiò) dedicato al brigantaggio, una forma di "leghismo" meridionale, molto più giustificato della secessione della Lega Nord, comunque inutile in un'epoca di globalizzazione selvaggia dove per aver spazio si può solo pensare unitariamente e non separarci.

Si dovrebbe riparare le ingiustizie che da ogni lato si sono perpetrate, si dovrebbe vivere in pace tra di noi, l'Italia è bella perché è ricca di diversità, restare uniti è un dovere!

Comunque questa canzone io non l'ho amata né nella versione originale né, tantomeno, in quelle fatte in tutto il Sud senza conoscere il dialetto napoletano, in una coinè (anche questa insopportabile quanto questo obbligo di scimmiottare i dischi di Bennato di trent'anni fa spacciati per tradizione) dove si mischia napoletano, salentino, siciliano. La stessa traccia continua con "Vulesse addeventare nu brigante", altro brano della "coinè" che io condanno (il Sud, come tutta l'Italia, è bello perché è diverso e vario. Un conto è se tu scegli consapevolmente di fare tutto il Sud, un altro è, come succede ora spessissimo, se per ignoranza di quello che hai a casa tua, lo vai ad arricchire con brani, oltretutto prevedibilissimi, presi da altre regioni senza studiarti niente né gli stili né i dialetti).

Adesso stiamo ascoltando un brano di un gruppo a me sconosciuto (purtroppo qui non so se si sanno gli interpreti ed i titoli delle canzoni, per ora io non so come fare). Il brano è bello solo per la musica, le voci fanno abbastanza pena, ma già ne abbiamo parlato in precedenza,questo è il futuro della musica salentina (preferisco il passato, grazie!).

La critica è sempre quella, quasi solo cose commerciali!

E torniamo al piacevole, arrivano gli Zimbaria (i veri, quelli con Pino "Zimba"!). Dal loro primo disco ("live", 2004) arrivano degli stornelli con strofe riprese dagli Ucci, almeno adesso si canta la vera tradizione salentina.

Adesso fate voi, io ve l'ho detto e comunque sono felice.

mercoledì 9 novembre 2011

Lucio Dalla: "Questo è amore" (2011)

Carissimi lettori, ieri è uscito il nuovo disco di Lucio Dalla, una raccolta "extraordinaria" (come l'ha definita lo stesso Dalla) che riporta alla luce brani particolari.

La prima traccia è "La leggenda del prode Radamès", omaggio del cantautore al Quartetto Cetra.

L'arrangiamento rimanda istintivamente e spudoratamente alle atmosfere del dalla giovanile, quello nato ancora prima del cantautore, il musicista che suonava dixieland. Il brano potrebbe essere considerato un ritratto ironico del trattamento che spesso si riserva alle donne e non dico altro.

La prima delusione (cocente!) si ha con la seconda traccia, la reinterpretazione di "Anema e core", capolavoro della musica napoletana scritto nel 1950 da Tito Manlio e Desposito.

Intanto non mi piacciono le libertà armoniche e melodiche che dalla si prende, poi, addirittura, sfociate nello spostamento di una parte di testo, in secondo luogo è deludente la pronuncia nel napoletano.

Non viene per niente conservata la classicità che ha fatto di questa melodia un brano tra i più conosciuti al mondo. Il canto non usa mai tentativi di avvicinarsi alle tecniche del bel canto (che poi Dalla ama e conosce).

L'ultimo inedito (l'unico vero inedito!) è "Anche se il tempo passa (amore)". Come ritmo potrebbe ricordare Mary Luis, anche se le sonorità sono quelle elettroniche ed elettriche che caratterizzano l'ultimo Dalla. Comunque sotto l'apparente semplicità si intravede un impegno nella ricerca di sviluppi melodici ormai poco consueti, tipici di chi ha avuto la fortuna di iniziare l'attività musicale negli anni Sessanta.

Nominata e vista! Eccoci ad una "Mary Luis", non riarrangiata, solo con alcune parti di canto affidate a Marco Mengoni. Devo dire che rende bene, il brano fra l'altro è molto bello e tratto da uno degli album più riusciti del nostro, quel "Dalla" che fra l'altro conteneva "Futura", "Mambo", "La sera dei miracoli" e altri classici di Dalla.

Da qui inizia la parte propriamente antologica, un percorso a ritroso, iniziando dalle più attuali, fra le canzoni meno conosciute. Il viaggio comincia con "Angoli nel cielo" title track del disco precedente del Dalla. Se dovessi descrivere il brano, che non conoscevo prima, direi che è una ballata dall'atmosfera molto sospesa, anche grazie ai tocchi di pianoforte e percussioni latine, che dove arrivano addolciscono sempre i tocchi di batteria.

Il brano successivo è uno degli esempi del Dalla che amo di meno, quello che, pur facendo tanta morale agli altri, leggere la dichiarazione per musicblog it per credere, copia dall'estero dei generi che neanche riesce a reggere. Il brano infatti sarebbe anche una suadente ballata, se non fosse riarrangiata con delle chitarre elettriche distorte che non le rendono giustizia, semmai la rendono inascoltabile.

Anche il brano successivo è un esempio di questo tipo di repertorio, in cui bei testi, magari anche belle melodie, sono riarrangiate talmente male che sono inascoltabili. Il brano si chiama "Malinconia d'ottobre", c'è un violoncello talmente mal usato che non riesci nemmeno a fartene cullare.

Il brano è curioso perché ha un pezzettino dedicato a Lisbona, al Café Martinho Da Arcada, bar che Fernando Pessoa frequentava negli anni Trenta del Novecento, in cui c'è sempre spazio per lui, come se dovesse arrivare ad ogni istante. A questo stesso ambiente si riferisce Antonio Tabucchi nel bellissimo "Sostiene Pereira", libro da cui è stato tratto un film, l'ultimo recitato da Marcello Mastroianni.

Dall'album "lucio" del 2003 viene questa bellissima "Amore disperato", che Dalla interpreta insieme a Mina. Il brano è stato originariamente composto per l'adattamento moderno e personale che Dalla ha fatto della storia di Tosca. Il brano ha una struttura fortemente classica, cosa che lo potrebbe paragonare a "Caruso", uno dei classici del repertorio dalliano. Sicuramente le due voci stanno molto bene insieme, anche perché entrambe amano molto allargare i propri orizzonti in sede interpretativa, non accontentandosi quasi mai di cantare semplicemente. Per avere conferma di ciò basta sentire l'ultima bellissima canzone di Mina dal titolo "Questa canzone".

Il brano successivo, tornando a Dalla, è "Prima dammi un bacio", altra traccia di "lucio" dal sapore fortemente nostalgico e melodico. Interessante questa valutazione del terzinato, lento come se fosse un bolero cubano, così tipico di classici come "Canzone per te" di Sergio Endrigo. Contrariamente al precedente citato, però, il brano di Dalla è in maggiore (il brano di Endrigo alterna strofe in minore a ritornelli in maggiore) ed è fortemente elettronico, addio a quelle fantastiche orchestre!

Saltando a piè pari l'album "Ciao" (1999) (per fortuna!) si arriva a "Canzoni" (1996) da cui si fa emergere un classico (checchè ne dica Dalla qualche brano famoso qui c'è!) come "Tu non mi basti mai", uno dei più belli dell'ultima produzione del cantautore.

Il successivo è una di quelle ballate che, se non fosse per l'arrangiamento pop troppo sfrontato (ti credo che si è stancato!) sarebbe anche bella. La strofa inizia e spesso torna su un inusitato dosettima aumentata e su un ritmo che non saprei descrivere. I ritornelli, o meglio la seconda frase melodica che implacabile continua la prima ad ogni sua riapparizione, ha come sue punte armoniche un fa maggiore utilizzato su una scala di sol e un finale su si minore e la alternati. Ritmicamente potrebbe ricordare certe canzoni anni Ottanta, che nel secondo compact avremo il piacere di riascoltare.

Il brano successivo, dal titolo "Latin lover", potrebbe essere considerato il secondo tentativo, dopo la già ricordata "Caruso", di scrivere un brano che ricordi ed utilizzi le caratteristiche del melodramma italiano in chiave moderna. Dallaè molto bravo ascrivere brani con queste strutture spesso terzinate, anche se forse la sua voce non è la migliore per la loro interpretazione, difatti questo pezzo renderebbe molto di più interpretato da una voce tenorile.

La melodia comunque è interessante ed aperta, anche se è semplice.

Il brano successivo fa parte del Lucio Dalla che non sopporto (preferisco quattro martellate piuttosto che ascoltare sto pezzo!). Se non sbaglio stava nel cd "Henna", uno di quelli che ho odiato di più della discografia di Dalla. L'unica traccia che andrebbe riscoperta è "Cinema", brano con l'inconfondibile partecipazione del già citato Mastroianni.

Arrivando a "Cambio" (1990, ultimo album veramente bello prodotto da Dalla) si riscopre un capolavoro sconosciuto intitolato "Le rondini". È una ballata sostenuta da una base completamente elettronica (ovviamente se fosse stata acustica era meglio!) dedicata ad una serie di sogni, forse alla libertà vera, quella interiore. Incredibile il sassofono nel finale, che si prodiga in assoli dalle venature jazz, tanto amati da Dalla, in dialogo con una chitarra elettrica distorta.

La prossima, sempre da "Cambio" è un brano completamente in "scat", se non fosse per il ritornello dove si dice solo "è l'amore" (a questo punto si poteva mettere il "pezzo zero" del cd 2 di questa antologia!). Questa non mi è mai piaciuta più di tanto ma sono solo gusti personalissimi e discutibilissimi.

Il secondo cd inizia con una delle canzoni più belle del repertorio del nostro, la poco conosciuta "Chissà se lo sai", interpretata anche da Ron. La versione di Dalla è forse più convincente, anche perché il cantautore ancora era orgoglioso del suo vero timbro (siamo arrivati con questo brano negli anni Ottanta). Vaanche detto che qui Dalla non ha bisogno di fare la morale sull'esterofilia imperante, anche perché se la fa è solo dato che sa benissimo che lui è il primo a non applicare ciò che chiede agli altri. Il brano è una bella ballata romantica, conclusa da uno di quegli assoli di sassofono di Dalla, allo stesso tempo dolci e graffianti.

Altro brano che ha cullato la mia infanzia è la seconda, "Soli io e te". Anche questa è una ballata, dove la musica leggera viene usata per creare delle melodie e delle armonie semplici ma non banali (spesso ormai la complicazione è talmente comune che essa stessa è la banalità!). Bella la corposità del suono del gruppo pop, dove gli strumenti elettronici non sostituiscono ma aiutano gli acustici.

La traccia successiva è un brano che non ricordavo dal titolo "Stornello". Da questo pezzo si deduce quella particolare familiarità del cantautore bolognese con il folk e con la melodia italiana, la stessa che lo ha portato ad incidere brani come "4 marzo 1943", "Piazza grande", "Itaca" ed altri. il brano ha una struttura quasi brasiliana che dà alla sua semplice melodia italiana un tocco molto esotico. La canzone ha anche un'altra curiosità, è natalizia, più semplice, anche se scettica, del capolavoro di De Gregori "Natale".

Ed eccoci ad un altro di quei quadretti storici che Dalla amava molto dipingere, con una ballata dalle tinte un po' blues, sospese, melodiche ma non troppo. Il brano si chiama "Viaggi organizzati". È da molto tempo che non ascolto la versione in studio di questo brano,che ho imparato ad amare follemente grazie a "Dallamericaruso", album che consiglio in maniera calda e spudorata. La versione da studio è molto più calma, d'altronde Dalla,come vero artista che è, si presenta per quello che è solo live, e forse ora non è neanche più in grado di tenere un concerto di quelli memorabili.

La traccia successiva è una poco conosciuta ma bellissima "Pecorella", tratta da "1983". Per chi non la conosce potrei presentare questa canzone come un brano dalle atmosfere latine, il bilico tra un accenno di chachacha e certe atmosfere jazz del pianoforte. La traccia successiva è "Solo", sempre tratta da "1983". È interessante la chitarra elettrica spesso usata con il wawa. Bello anche il ritmo sospeso come gli accordi, tra maggiore e minore, tra semplicità e avanguardia, d'altronde questo è il vero Dalla.

Continuando si ascolta "Mambo" tratta dall'album "Dalla" del 1978. Qui siamo davanti al Dalla migliore, né troppo vanguardistico (insopportabile!) né troppo semplice (riduttivo e poco stimolante!). Va anche detto che qui le tastiere non esistono, questo canto di sdegno e disprezzo è accompagnato con suprema sapienza solo da un gruppo di strumenti acustici, spesso suonati con abilità dallo stesso Dalla.

Interessantissima la scaletta che esegue il sassofono nella parte finale del brano, semplice, ricca ed ossessiva.

Le ritmiche sospese così care a Dalla sono le assolute protagoniste di questa ballata dal sapore quasi portoghese, dal titolo "Notte" estratta dal classico e bellissimo "Com'è profondo il mare" (1977). Il brano è in fa ma si adagia sia su scale di mi minore che in accenni di sol e do. Finalmente, verso la parte finale, il brano prende ad avere un ritmo non più sospeso, è preciso e classificabile come una specie di valzer terzinato con degli arpeggi che cesellano un giro su una scala di do che vede l'entrata fugace di un la minore.

Sempre dallo stesso lp viene la prossima traccia, uno di quei quadretti di guerra a cui Dalla ci ha sempre abituato quasi dolcemente. Il ritmo, nonostante il titolo sia "Tango", non è quello argentino, d'altronde Dalla non ama indugiare sulle ritmiche di questo grande paese, coltivate invece benissimo da Guccini in brani come "Tango per due". Qui le atmosfere argentine sono portate solo da una fisarmonica che fa brevi passaggi molto argentini, oltre a cesellare una di quelle melodie del migliore Dalla, compromesso tra semplicità e larghezza di veduta musicale (non mi stancherò mai di dire che questo è il Dalla che preferisco: né avanguardia né pop moderno odark!).

Sempre da "Com'è profondo il mare" (1977) viene questa "Quale allegria". Il brano è una riflessione amara sulla vita e sulle sue menzogne. Questa è una di quelle canzoni senza ritornello, un fiume di parole che sfocia naturalmente in un mare di note. Interessante anche lo scat finale, anche quello amaro e quasi urlato.

Sempre dallo stesso lp del '77 viene anche "Non andar più via", ballata lenta e articolata, come era il Dalla migliore. Il testo è un grido di libertà, una rivendicazione di esistenza di cui forse l'arte avrebbe bisogno più oggi che allora. Forse è anche un grido d'aiuto a chi ascolta, comunque è un bel brano. Interessante è la coda strumentale, con un leggero elemento disarmonico.

Da "Automobili", ultimo album scaturito nel 1976 dalla collaborazione con il poeta Roberto Roversi, viene questa "Due ragazzi". La prima parte è una tarantella spezzata e rivissuta da un musicista geniale, mentre la seconda è una ballata con tinte jazz. Il testo è la descrizione di un amore svoltosi in un auto. Veramente bella!

La traccia successiva già sta ai limiti di quel Dalla avanguardistico che non amo,così come non stimo il cantautore pop nato dopo "Amen" (1993. Il brano è una canzone d'amore un po' allucinato.

Molto bella e un po' felliniana è "Anna bell'Anna", presentata al Disco per l'estate 1974. In più punti ricorda le colonne sonore di Nino Rota o anche gli stilemi delle musiche del cinema muto. La ballata ha una struttura che permette al banjo di swingare, atmosfera rafforzata anche dall'interessante intervento del piano elettrico nonché dallo "scat" finale di Dalla. Va detto che il cantautore con gli anni ha forse perso smalto anche in questa sua seminale caratteristica.

Questa è una delle canzoni che più ha cullato la mia infanzia, si intitola "Il cojote". Credo sia una metafora dell'eterna sfida fra il debole ed il forte, spesso ingiustamente vinta da quest'ultimo. La metafora è rappresentata dal cojote e la stella, il racconto è scandito da continui "crescendo" che scandiscono il racconto triste e sentito. Difatti il brano ha tre tonalità re mibemolle e mi, e si torna in re solo per la chiusura in "scat", stile che spesso dialoga con la batteria che esegue virtuosismi.

Un'altra chicca, anche se non particolarmente importante nella mia vita, è la traccia successiva e conclusiva dal titolo "l'ultima vanità". Il brano è una specie di habanera, tra minore e maggiore, perfino con interessanti passaggi arabi nella parte iniziale, mentre la chiusa strumentale, brevissima, si schiude in un valzer.

Nell'insieme è un bel disco, ovviamente sconsigliato ai neofiti che devono (e dico devono!) cominciare con "12000 lune" del 2006, triplo cd con tutte le più belle di Dalla.

mercoledì 2 novembre 2011

Canti e pizzichi d'amore Canzoniere Grecanico Salentino

Carissimi lettori, pubblico una recensione di "Canti e pizzichi d'amore" del Canzoniere Grecanico Salentino, che apparirà anche su www.blogfoolk.com, ottimo blog dedicato alla musica popolare ed alternativa curato dal campano Salvatore Esposito.

Il Canzoniere Grecanico Salentino è uno dei gruppi più longevi della scena della riproposta salentina, il più antico tra quelli in attività e l'unico rimasto in piedi (seppur con formazione completamente rimaneggiata) tra quanti iniziarono negli anni Settanta la riscoperta del folklore basso-salentino.
Lo stile del gruppo si è sempre trovato in bilico tra riscoperta delle sonorità popolari ed innovazione, specialmente per quanto riguarda i testi (prima fase coincidente con gli anni Ottanta) e i tocchi strumentali (successivamente, fino ad oggi).
Dimostrazione di ciò è il disco "Canti e pizzichi d'amore", album pubblicato nel 2000 per l'etichetta "Salento altra musica".
L'album è composto da brani tradizionali rielaborati dal gruppo sia musicalmente che testualmente (è raro che il Canzoniere esegua i classici salentini con le strofe che si trovano nei corrispondenti documenti originali).
Il cd è introdotto da rullate di plettri (tipiche dello stile di Daniele Durante) che ci portano verso una "Pizzicarella" caratterizzata da un interessante ed inusitato passaggio in sottodominante che ricorda certe pizziche dei secoli precedenti. Il canto è portato da Rossella Pinto (storica voce femminile del gruppo sin dagli anni Settanta e fino al 2007, anno di uscita anche per Daniele Durante) ed Anna Cinzia Villani, allora alle prime armi come interprete di canti popolari, ma già dotata di una fortissima personalità.
Dal punto di vista testuale il brano è caratterizzato dal minor numero di strofe rispetto alla versione raccolta da Brizio Montinaro nel suo "Musiche e canti popolari del Salento", che contiene anche la parte di testo dedicata alla rondine.
Forse i controtempi di chitarra affievoliscono la forza della pizzica, comunque è una buona versione.

Sempre dai dischi di Brizio Montinaro proviene "Ferma Zitella", che invece viene eseguita per intero, con un ritmo molto fedele a quello del documento "di campo" seppure quest'ultimo è eseguito a cappella.
La prima strofa è cantata a cappella, poi entra una chitarra accordata in re minore, dalle forti risonanze barocche, accentuate anche dal mandolino e dal violino. I momenti strumentali forse tendono a far dimenticare che il canto è narrativo, una maggiore fluidità sarebbe un elemento a favore di una maggiore leggerezza e anche, perché no, di una maggiore filologia.

Tornando alla pizzica si arriva a "Canuscu na carusa",, ancora lontana dall'essere quel classico della tradizione salentina, lanciato in ogni salsa a partire dall'inclusione del brano nelle scalette del Concertone di Melpignano. La versione del Canzoniere è caratterizzata dall'importanza della voce baritonale di Durante, che per la prima volta all'interno di questo disco canta con piglio da protagonista, delegando i cori alle due voci femminili, Anna Cinzia Villani sulle basse, Rossella Pinto un'ottava sopra il canto principale. È interessante notare come il brano sia guidato, come già "Pizzicarella", dalla fisarmonica, che esegue un assolo successivamente ripreso da Durante nella canzone "A ddhai oju bu bisciu" del cd "E allora tu si de lu sud" (Animamundi 2007).

Dai dischi di Montinaro proviene la traccia successiva, giustapposizione di due brani di ispirazione religiosa: "Oh Diu quantu sta casa è benedetta" e "Sia benedettu ci fice lu munnu".
Il primo brano è eseguito a cappella, così come avviene nel documento originale, se non fosse che nella versione del Canzoniere assistiamo alla polifonia, con lo schema già enunciato per il brano precedente. La seconda parte della traccia è eseguita con l'accompagnamento degli strumenti, ma invece di usare cupacupa ed organetto (come nell'originale) il gruppo opta per un trio composto da tamburello, flauto e mandolino. Quest'ultimo è sicuramente lo strumento che esegue le parti più interessanti, dato che si assiste ad una contaminazione tra tecniche da "barbiere" e stili della tradizione portoghese, specialmente per quanto riguarda gli accordi eseguiti con il tremolo. La parte di flauto, ponte strumentale tra le varie strofe, è una serie di scale eseguita con un semplicissimo flauto dolce.

Nella traccia successiva, la classica "Quantave", fa la sua comparsa da protagonista il violino di Mauro Durante. È lui difatti a guidare questa pizzica che, a livello di intensità e di spirito, potrebbe ricordare la "Tarantata" o "indiavolata" di Luigi Stifani, seppure non ne ricalca mai i giri melodici.
Come per "Pizzicarella" anche qui va notata la tendenza del gruppo a stemperare la forza della pizzica, creando così una scuola che, in modo diverso, ha influenzato quasi tutti i gruppi salentini degli ultimi vent'anni.
Della tradizione il brano conserva l'entrata degli strumenti in momenti diversi, stratagemma che viene utilizzato anche per la loro uscita. Difatti il tamburello, dopo l'ultimo assolo di violino, esegue una serie di accenti dopo iquali sparisce, permettendo a chitarra, violino e fisarmonica di chiudere da soli il pezzo in sfumato.

La traccia successiva è "Ohi rondinella ci", brano lento che il gruppo riprende nella versione pubblicata su partitura dallo stesso Daniele Durante nel volume "Canzoniere", curato insieme a Luigi Chiriatti per le Edizioni Erreci di Lecce nel 1990. Il brano ha una struttura di ballata, paragonabile al Fado portoghese, seppure la fluidità della serenata viene intaccata dai troppo numerosi e lunghi assoli strumentali, eseguiti sia dai plettri che dal violino, creando una certa pesantezza in chi ascolta. Va anche detto che forse la voce di Anna Cinzia Villani in questo brano dolcissimo non convince, data la sua ancestrale durezza.

Tornando alle pizziche si esegue una strabiliante versione del classico "Te sira", delegata solo al tamburello, che usa la tecnica moderna con una terzina che ne ingloba varie al suo interno, e alla fisarmonica oltre alle solite tre voci. Il canto qui torna ad essere affidato a Daniele Durante, mentre le voci femminili fanno solo i cori, stavolta con Anna Cinzia Villani sulle note alte.

Dalle ricerche di Giovanna marini nonché dal primissimo repertorio del Canzoniere stesso viene la traccia successiva, un toccante canto funebre intitolato "'Ntunucciu". La versione del gruppo consta di due parti ben delineate. La prima, corrispondente al primo giro melodico, è un raffinato valzer lento solo inficiato da qualche nota di troppo della fisarmonica che prova, riuscendoci a stento, ad imitare la sacralità dell'organo.
La seconda parte, il resto del brano, è un valzer quasi festoso che, almeno secondo chi scrive, non si addice alla tristezza del testo. Solo la raffinatezza dei controcanti per terze smorza un po' l'atmosfera di festa, rafforzata dall'uso del tamburello, che nella tradizione non accompagna mai momenti tristi, spesso delegati alle sole voci.

Andando avanti si torna alle pizziche con una delle più classiche, quella conosciuta come "Pizzica di Aradeo". Il gruppo, così come avviene nella più schietta tradizione, la accompagna con un giro in "modo misto", maggiore-minore. Ciò che smorza molto sono i controtempi degli strumenti melodico-armonici rispetto al tamburello, unico a cui viene delegata l'esecuzione dell'ossessivo ritmo. Sembra vi siano anche dei problemi di utilizzo della metrica, vi sono delle strofe dette un po' troppo velocemente, il che fa perdere l'incisività del testo, costituito da strofe di varia origine accomunate dalla tematica romantica.

La traccia successiva è forse la meno riuscita del disco, una versione a pizzica-pizzica di "Sutt'acqua e sutta ientu", melodia suonata negli anni Cinquanta come tarantella, sicuramente molto più adatta a questo ritmo.
La versione del Canzoniere inizia in maggiore con una parte lenta caratterizzata dall'utilizzo di accordi di settima aumentata e settima, poco usati, raffinati ma forse inutili.
Nella parte a pizzica, come nel brano precedente, sono facilmente rilevabili gli effetti di una scansione alternativa (forse sbagliata) delle parole, perfino nell'uso del fiato.

Il momento massimo del disco è la sua ultima traccia, una "Ronda" registrata live. Il brano è un'insieme di varie melodie di pizzica, eseguite "a botta" (voce e tamburo) in una sfida fra Daniele Durante e Anna Cinzia Villani. Rossella Pinto interviene solo nel ritornello che riecheggia la pizzica di Ugento e viene interpretato a tre voci.

mercoledì 14 settembre 2011

Ciao Gino!

Carissimi lettori, sono due giorni che lascio in silenzio la mia anima, è tempo invece di ricordare un altro grande della musica italiana che ci ha lasciato domenica scorsa. Infatti, all'età di ottantasei anni se ne è andato il più grande baritono (opinione personale e discutibile) che la musica leggera abbia mai potuto vantare.

Mi riferisco al grande Gino Latilla, che viene ora ricordato solo per "Vecchio scarpone" (presentata al Sanremo1953) e "Tutte le mamme", vincitrice del Sanremo 1954. Questo brano, come avveniva nei festival storici, venne cantato dal nostro in coppia con il tenore bolognese Giorgio Consolini. Entrambe le versioni sono presenti su Youtube (quella di Latilla grazie a mrclimonmusica, quella di Consolini grazie a Mazzone1). La solennità della voce di Latilla per me è molto più affascinante, fa provare sensazioni molto più forte. Questa mia passione potrebbe anche essere semplicemente dovuta alla rarità del timbro di baritono, che oggigiorno è solo prerogativa della lirica, difatti la musica leggera è il regno della più totale disimpostazione vocale, delle voci senza personalità, tanto se sono stonate si truccano.

Si deve a Latilla anche la scoperta di un altro grande, il contrabbassista, violinista e compositore torinese Fred Buscaglione (1921-1960). Difatti negli anni Cinquanta, checché ne dicano certi cultori del jazz estremisti, la nostra inconfondibile melodicità italiana amava adagiarsi spesso su tappeti jazz. È il caso del brano bellissimo, ma poco conosciuto, dal titolo "Scusami", interpretato da Latilla nel Festival di Sanremo del 1957.

Sul mercato, oggi come oggi, di Latilla si trova pochissimo, oltretutto niente di veramente storico. Difatti solitamente io sono contraria a tutti quei dischi dove i cantanti ricantano i loro successi, infatti è raro che questi progetti poi portino ad esperimenti di vera qualità e siano fatti pensando alla raffinatezza delle orchestrazioni, caratteristica basilare delle registrazioni anni Cinquanta. Sperando che il lugubre fatto accaduto domenica 11settembre (ora data funesta anche per la musica italiana, non solo per il Cile e gli Stati Uniti) faccia ristampare qualcosa, cito "Una voce senza tramonto" della Cetra, rigorosamente introvabile.

Buon ascolto, riscoprite le grandi voci della nostra canzone!

sabato 27 agosto 2011

Considerazioni sulla parte iniziale del concertone di Melpignano 2011

Carissimi lettori, questa sera recensirò la prima metà (circa tre ore e mezzo) del concertone di Melpignano, in diretta grazie allo streaming web della televisione locale salento web tv all'indirizzo www.salentoweb.tv.

Il concerto è iniziato con un breve discorso, dopo il quale hanno iniziato a cantare le "'Ngracalate", ottimo gruppo tradizionale. Accompagnate dalla fisarmonica di Roberto Corciulo (da me conosciuto ai tempi della sua militanza negli Aramirè) hanno intanto interpretato "Santa Cesarea", canto riconducibile agli Ucci, quindi al pluricitato ma poco omaggiato in questo festival Uccio Aloisi. L'interpretazione è stata molto bella e sanguigna, ed ha subito ceduto il passo a "La fija de lu massaru", brano che a cappella si rallenta rispetto alla versione degli Agorà nel cd "Io, pizzica e tu...". L'interpretazione è sporca quanto basta, ma le voci sono belle ed intonate.

Subito dopo si è avuta un'interessantissima versione di "Damme la manu" (conosciuta anche come "Damme nu ricciu), che ha subito notevoli (ma tradizionali) variazioni. Magari tutti la facessero così!

Subito dopo, sempre con la bellissima fisarmonica di Corciulo, sono arrivati dei bellissimi stornelli con delle notevoli improvvisazioni testuali (così si innova! Credo che il Salento sia uno dei pochi posti al mondo in cui si pensa di innovare solo musicalmente, oltretutto forzando molto la mano, mentre si neglige l'aspetto canoro, lasciando ad esempio perdere le possibilità che per dire sarebbero date da un addolcimento rispettoso del canto, nonché l'aspetto testuale). Gli stornelli erano sulla melodia del "Fior di tutti i fiori", di cui riprendevano anche alcune strofe. Suona strano sentire alcune strofe che si sono conosciute lente a stornello, ad esempio la coppia di distici legati "Donnaci stai alla ripa de la Francia/ dimme l'amore comu se cumincia// E se cumincia cu soni e cu canti/ e va finire cu pene e turmenti". Comunque grande lezione a tre quarti dei gruppi salentini.

Il pubblico è un po' casinaro, meglio sinceramente nelle sagre di paese, anche pensando al fatto che il secondo gruppo sta accordando gli strumenti (sì perché le 'Ngracalate" hanno suonato appena un quarto d'ora e tutti i gruppi tradizionali dovrebbero suonare per un totale di un'ora e tre quarti (certo, Uccio è meglio rappresentato da Ludovico Einaudi piuttosto che dalla gente come lui...). Poi delle disparità fra il trattamento riservato a Uccio Aloisi quest'anno e quello riservato a Pino "Zimba" tre anni fa da pagani avremo modo di parlarne polemicamente (giusto per non essere polemici quell'anno, il 2008, tre ore del concertone furono tradizionali... rifletteteci...).

Il secondo gruppo, e giustizia sia!, è l'Uccio Aloisi gruppu, che ora, dopo la morte del suo ispiratore avvenuta alla fine d'ottobre dell'anno scorso, si chiama Robba de smuju. L'esibizione è iniziata con una breve cantata a cappella, seguita subito da dei bei stornelli. Gli stornelli sono stati alla maniera di Uccio, cantati da una bellissima voce tenorile, che in questa occasione è stata affiancata da una bellissima voce femminile (che non so a chi appartiene, durante le presentazioni speriamo di capirlo. Va detto che l'audio è un po' brutto, ma questo è l'unico canale che trasmette il concertone senza pubblicità). Naturalmente va detto da subito che l'Uccio Aloisi gruppu (o Robba de smuju) ha nel mandolinista Antonio Calzolaro il miglior elemento, per quanto tutti siano bravi (se avete più fortuna di quanta ne ho avuta io quando sono andata giù che me li sono visti solo per mezz'oretta, godrete davvero).

Il brano successivo è stata una pizzica molto coinvolgente quasi al modo della cutrofianese. Della cutrofianese ha conservato la caratteristica della sfida (fra la voce tenorile e quella femminile) oltreché molta parte della melodia.

Subito dopo c'è stato un valzerino a me completamente nuovo (e così mi piace, altra bella lezione ai gruppi di riproposta: la tradizione si rispetta non a chiacchiere ma a fatti, non si sfrutta come miniera di testi, ma se ne rispetta tutto o molto, non come fanno troppi).

Ora siamo con un'altra pizzica, una molto bella (forse la più bella da me sentita) versione di "Sta cala lu serenu". Sarà anche che la leggerezza del mandolino equilibra in maniera insuperabile il battito ossessivo e forte dei tamburelli, creando quell'armonia che molti gruppi di riproposta perdono, e non dico solo quelli contaminati.

Ora i Robba de smuju si stanno dedicando all'esecuzione di "Vorrei volare", uno dei brani più noti del repertorio di Uccio Aloisi,serie di stornelli in lingua italiana che io non amo più di tanto, sia per il fattore linguistico, ma anche per quello ritmico: lo stornello lo voglio scatenato. Comunque questa è una versione interessante perché c'è la sfida tra le due voci maschili del gruppo, la tenorile e quella meno corposa ma comunque potente di Domenico Riso.

Con la partecipazione di Antonio Melegari il gruppo sta eseguendo una pizzica di Cutrofiano al modo degli Ucci. Davvero bella. Ci sono molte strofe a me conosciute, forse c'è anche qualche improvvisazione. Possiamo finalmente dare un nome ai cantanti citati poco sopra: la voce tenorile appartiene a Gino de Nuzzo, anche dedito al tamburello, mentre la notevole voce femminile è quella di Lucia Passaseo, anche negli Ariacorte e collaboratrice sporadica di Cinzia Marzo in un bellissimo quartetto vocale costituito anche da Rachele Andrioli (ex cantante degli Zoè)e Rosaria Gaballo (una delle sorelle di Nardò, grandi cantrici riportate alla luce da Dario Muci).

Il pubblico nel precedente momento di pausa ha preso i tamburelli e ha fatto qualche strofa spontanea (che non ho capito, comunque è un bel clima anche se forse la troppa gente fa fare meno festa e diminuisce l'effettivo coinvolgimento del pubblico). Il pubblico sta cantando "Bella ciao", qualcuno, molto suscettibile e fascista che frequentava il sito www.pizzicata.it qualche anno fa si arrabbierebbe allo sfinimento. È un canto inframezzato da grida e un po' stonato ma è segno di festa e perché no di ribellione a queste ultime decisioni governative che ci vorrebbero perfino privare del 25 aprile e del 1 maggio.

Ed eccoci agli Arakne Mediterranea, di cui io ho ampiamente parlato su queste pagine, gruppo diretto attualmente da Imma Giannuzzi, che insieme a Cinzia Marzo e Anna Cinzia Villani forma il trio delle grandi cantanti femminili salentine. Il primo brano è una pizzica-pizzica che convoglia una serie di tarantelle barocche. Notevoli il flauto e il violino. Il flauto attualmente si sta lasciando andare a delle improvvisazioni non molto leggere, un pochino disarmoniche (giusto per tornare a quella mancanza di armonia che mi capita di trovare di tanto in tanto in molti gruppi di riproposta).

E finalmente si è potuta sentire la bella voce di Imma Giannuzzi interpretare "Fimmene fimmene", momento di suprema armonia che precede una pizzica per ora inascoltabile a causa delle esternazioni poco armoniche di una zampogna, strumento che mi sta particolarmente antipatico nelle musiche dove non c'è di tradizione (e anche nei posti dove c'è preferisco i momenti in cui tace).

Gli Arakne provengono da Martignano, altro paesino della Grecia salentina come Melpignano, ora stanno cantando una pizzica in minore, esattamente in la, dove per fortuna le esternazioni poco armoniche di cui sopra sono equilibrate dai voli leggiadri di un mandolino. Se ve la dovessi descrivere direi che questa pizzica riprende il giro armonico tonica-dominante in la minore, come alcune pizziche scritte modernamente nella zona di Lecce o come altre tradizionali nella zona di Brindisi, che però generalmente hanno anche il terzo accordo, ossia la sottodominante.

E dagli studi del Di Lecce, ex direttore del gruppo e suo fondatore, proviene questo insieme di strofe che viene solitamente cantato con l'aiuto di una tammorra muta e delle mani del pubblico. Per trovare la genesi di questo brano si può leggere il volume comunque interessante "Danza della piccola taranta", edito da Sensibili alle foglie nel 1994.

Tamburelli, nacchere e ciaramella eseguono una pizzica in sol. La melodia è una tipica scala, alternativamente ascendente e discendente, molto ripetitiva. Il brano era iniziato con un assolo di zampogna e circolarmente ci si è concluso.

Ed eccoci ad una pizzica (che non ascolterò per intero perché c'è qualche problema streaming), una pizzica tarantata dove i tamburelli sono le mani del pubblico. Le strofe sono di varia provenienza ma riportate rigorosamente in leccese. Nel ritornello si ha la possibilità di apprezzare la bravura di Luigi Giannuzzi, che oltre ad avere un'eccelsa voce da tenore ha una strabiliante mano su molti strumenti tra cui il tamburello. Da questa pizzica è sgorgato, senza soluzione di continuità, l'assolo di questo strumento. Non ritengo questo momento fondamentale, anzi a me il tamburello piace quando accompagna, non quando diventa una batteria. Magari mi impressiona ma poi dico: "Che mi ha dato?" "Niente!". Comunque dalle acrobazie rinasce la pizzica e ritorna l'ultimo giro di tarantata.

Omaggio a Pino "Zimba", con l'attacco di "Sale", che inizia una pizzica ugentina, difatti questa strofa ("sale, ulia mangiare cent'anni sale/ pe 'na donna ca me disse su dessapitu" o anche "lu testamentu", come hanno fatto gli Arakne) è esclusiva di Ugento. Nonostante questo ritornello le strofe che luigi Giannuzzi canta sono quelle comunemente cantate come "Sta cala lu serenu", già sentita poco fa dai Robba de smuju (fantasia!). C'è di buono che le melodie sono diverse e anche gli approcci al brano, quindi non dà fastidio. L'assolo di flauto ha concluso questo brano mentre il violino ha iniziato una bellissima, e credo anche lunghissima, "Pizzica tarantata". La versione degli Arakne ha una grande parte in cui il tamburo è rappresentato dalle mani della gente, devo dire che il lavoro lo stanno facendo bene. La parte di violino, oltre che da variazioni sul tipico giro di tarantata alla Stifani, è costituita da parti in minore. Ed entra l'armonica in do, con lei arriva anche la voce di Imma che inizia a cantare le strofe che si sentono nella "Pizzica taranta" di "Tre tarante". Forse la parte di armonica pecca un pochino per certe (leggere e poco importanti) incrinature blues, soprattutto sulle note che precedono i leggeri respiri che ogni armonicista deve concedersi per non sfiancarsi del tutto. Le strofe stanno cambiando, mamma mia che bello. Qui le incrinature moderne si sentono di più, peccato perché questa pizzica è profondamente concepita come omaggio alla tradizione. A livello di canto si riconoscono infatti le strofe di Cosimino Surdo e quelle di altri anziani che non identifico. E siamo arrivati alla tipica presentazione del gruppo da parte della sua leader Imma Giannuzzi, caratterizzata dalla specificazione della provenienza, paese per paese, di ogni componente del gruppo. Difatti, meglio ricordarlo, il gruppo, anche se a prevalente presenza leccese, è composto anche da brindisini e baresi ed esegue repertori provenienti da tutta la regione. Per averne conferma basta ascoltare il cd "Apulia". Da lì è partito l'assolo di percussioni con cui il gruppo ha salutato il pubblico.

Datemi ora la pazzienza per reggere quello che sta per succedere, ossia le rielaborazioni di un grande ma molto presuntuoso musicista che si chiama Ludovico Einaudi. Odio infatti le generalizzazioni del tipo: "la musica elettronica è l'unica in grado di parlare al mondo contemporaneo". Secondo me queste affermazioni, oltre ad essere irrispettose per la complessità dei gusti possibili, denotano grandissima ignoranza, che non può esser cancellata da niente, tantomeno da anni di conservatorio e teoria musicale. Secondo il mio parere gli unici in grado di capire questa musica sono quelli che si fanno guidare da essa, non quelli che hanno la presunzione di incasellarla arbitrariamente nei loro schemi. Io nelle sagre di paese dove sono andata, specialmente a Tricase Porto, ho visto molta gente che la capiva, la amava e la sentiva come propria,senza stare a dire di sapere chissà quale verità assoluta ed acquisita. Ovviamente nemmeno io voglio con questo articolo dare qualcosa che si avvicini alla verità, voglio solo far sentire una voce che si unisce ad un coro già iniziato degli scettici e, perché no, degli stanchi, di quelli che pensano che il futuro di questa musica vada o possa anche essere ricercato nella sua innovazione rispettosa e non solo nella contaminazione sfrenata.

Comunque ora che inizia l'orchestra popolare ne parleremo canzone per canzone.

Il pubblico si sta serenamente dando a canti e grida, è rispuntata "Bella ciao", si è sentita qualche bella terzina di pizzica, si aspetta che i "signoroni" salgano sul palco e che il loro ambaradan di cose venga montato.

C'è la fanfara di Tirana che segue un brano tradizionale albanese, devo dire che i fiati qui ovviamente non mi danno fastidio, anche perché io non amo la disarmonia, dove c'è l'armonia amo tutto. Il brano è sostenuto da un accordo di fa, è in maggiore ed ha una parte iniziale paragonabile a certe musiche di liscio italiane, seguita da parti con il tipico intervallo di seconda aumentata fra il primo e il secondo grado della scala, così tipico di varie tradizioni fra cui quella balcanica. E da un brano in fa, cambiando completamente di ritmo, si passa ad un'altra melodia stavolta basata su un "basso ostinato" in sol, addolcito solo da qualche momento in do e in fa. la compattezza dei fiati è veramente strabiliante, nonché il naturale (non hanno bisogno di fare assoli, il virtuosismo sta nel ritmo stesso) girare mirabolante delle percussioni. Sempre senza soluzione di continuità, senza respiro né pausa, si arriva ad un brano più ricco, caratterizzato da un'alternanza di momenti minori a momenti maggiori.

E dopo tre brani in uno si ha la prima pausa dell'esibizione, dopo la quale si riprende con un brano in fa minore, dove si assaporano tutte le scale balcaniche grazie ad un portentoso sax contralto, presto seguito da tutta la banda nelle sue evoluzioni.

È entrato un "basso ostinato" collettivo a fare da sottofondo e poi da contraltare ad un assolo di un dolce ma pur sempre scatenato clarinetto. E cambiando di ritmo si va in do minore, con un brano in cui la fanfara armonicamente suona una coinvolgente ma triste melodia. Ed ecco gli ottoni bassi che si preparano a fare da contraltare alle acrobazie del sax, che però in questo caso esegue parti brevi e con pause, anche se questo non mitiga per niente l'effetto ossessivo (imparate salentini che pensate che per ottenere la trance uno debba sentire una stessa nota ripetuta allo sfinimento). Questo pezzo in do minore ha avuto addirittura una codina cantata. Varie voci cantano all'unisono, caratteristica comune in molte culture mediterranee, quanto la polifonia, che oltretutto nel salento non ha gli schemi rigorosi che certi pretesi insegnanti pretendono attribuirle.

Ed il brano successivo è un brano d'orchestra ma dala struttura spesso fortemente cameristica, nel senso che la fanfara ama dividersi in gruppi più o meno grandi che amano dialogare tra loro. Dopo ciò ora si sta eseguendo un vorticosissimo brano in sibemolle, breve ma sfianca tutti.

Una voce tenorile sta eseguendo un canto in sol minore, lento ma con una batteria forse anche un po' fastidiosa. Comunque il canto è interessante per certe fioriture e coloriture messe indifferentemente sulle alte e sulle basse. Il pubblico purtroppo nonascolta, per questo ripeto: meglio le sagre di paese, per quanto lì ci sia anche chi è maleducato qui si dà il massimo. Il canto è accompagnato da una nota di bordone e da qualche fioritura più alta.

E si torna ai brani veloci continuando ad ascoltare cantare voci tenorili, questa volta in tonalità maggiore. La caratteristica del grado di seconda diminuito è in questo caso la più interessante caratteristica del canto. A cui si intreccia un fiato che dopo aver stimolato in un ultimo sprint di canto il cantante fa un breve assolo che prelude ad un breve sfogocollettivo. La voce torna a far sentire il suo canto con caratteristiche di confine fra il canto e l'urlo, dal quale però sfocia un pianissimo che porta ad una velocizzazione del tempo che porta alla chiusura del brano.

Da un inizio lentissimo è arrivato il solito ritmo veloce, questa volta suonato in un gaio fa maggiore, con scale simili alle nostre, che contemplano comunque tutti i colori caratteristici dei balcani ma lasciano spazio anche alle atmosfere del nostro liscio. Le percussioni fanno la parte del leone, dando alla batteria solo il ruolo di rafforzatore del proprio messaggio (imparate batteristi da strapazzo della musica popolare italiana). Questo brano ha avuto una parte abbastanza strana in quanto carattterizzata da una mancanza di coordinazione fra gli strumenti bassi e quelli alti, i quali suonavano in completa autonomia! Il tutto poi si è pacificamente risolto con l'entrata della fanfara in re, in un'alternanza di parti maggiori e minori, tutte caratterizzate da questa scala. La gente non ho idea di quello che stia facendo, spero che stia ballando.

E il vortice continua tornando sul do minore, con un brano ricchissimo di cambi e modulazioni, con giri simili a certe cose del cante jondo andaluso, soprattutto per la scala, per quanto essa è molto più diluita, con la possibilità per ogni accordo di restare nelle orecchie di chi lo riceve.

Su un ossessivo do minore si staglia il clarino, che con dolcezza si porta dietro la gente in un ballo scatenato, che precede il dialogo tra le varie parti dell'orchestra prese singolarmente. Il brano poi si sviluppa in sibemolle minore e contempla dei fischi altissimi, bello!

Il brano ora si sta sviluppando con un assolo di tromba incastonato su un "basso ostinato" sul fa, che precede i fischi e la riesposizione del tema trainante.

Su un ritmo simile ad una habanera si sviluppa un dolce tema con tonica in sol, il quale ben presto non disdegna profondissime aperture armoniche. Quanta armonia c'è, i salentini dovrebbero farne tesoro ma credo che risulterà loro difficile.

Il brano sta continuando a scorrere, guidato dal clarinetto, strumento da noi poco valutato nella musica popolare in nome dell'idolatria generalizzata all'insipido (e scusate!) flauto dolce. Il brano dà tutta l'idea di essere una serenata suonata davanti ad un'ipotetica finestra.

Ma ecco che il ritmo si fa di nuovo vorticoso, con un ennesimo brano in sol minore, che è ancora una volta caratterizzato da certi "bassi ostinati" che non annoiano perché sono riarmonizzati e riequilibrati da molta ricchezza melodica (anche qui: imparate salentini!).

Brano apparentemente lento in fa, iniziato da un basso ostinato in fa. Quando il basso sparisce il brano diventa vorticoso, è caratterizzato dalle solite alternanze tra scale maggiori e minori, però stavolta quando si va in minore si cambia di tono, toccando il sibemolle.

Molto bello ma secondo me dovevano suonare di più i salentini: è o non è questo il festival della nostra musica popolare per eccellenza per quanto contaminata, sporcata e forse sputtanata?

Avrebbero potuto fare benissimo mezz'ora le 'ngracalate, avrebbero potuto ma non l'hanno fatto.

Si è sentito il tormentone insopportabile (in cui purtroppo sono caduti pure gli Zoè nelle ultime date da me viste) sull'acquisto dei cd, pace.

Si è sentita una pubblicità, probabilmente inizia l'incubo fra qualche minuto.

Scusate lo scetticismo ma non condivido questo festival, ora anche per esperienza diretta della tappa di Zollino. È una baraonda dove la musica popolare è ridotta veramente a musica di consumo, fanno pizziche e canti popolari come potrebberofare qualsiasi cosa. Ripeto: meglio le sagre di paese.

Il pubblico si è ridato di nuovo alle sue grida, stiamo aspettando chissà che.

Vorrei nel frattempo approfittare per soffiare sul fuochino delle polemiche sulla disparità fra Uccio e "Zimba". Non so quanti di voi ricordano che nel 2008 ben metà concertone fu tradizionale, ad eccezione o quasi di quella grandissima pagliacciata (e mi fa male il cuore) dei cantori di Villa Castelli e Mario Salvi. C'erano Giovanni Avantaggiato, Uccio, gli Zoè, gli Zimbaria e addirittura Edoardo Winspeare.

Addirittura, dopo una versione vergognosa dell'inno nazionale fatta con la chitarra elettrica e distorta (perché noi dobbiamo sempre imitare qualcuno!) si ascolta Gianni Morandi cantare Sergio Endrigo (non capisco se sto vivendo un incubo o è vero, la canzone è bella ma che c'entra). Comunque la canzone è "Te lo leggo negli occhi", meravigliosa canzone d'amore lanciata da Dino. Io ripeto che qui siamo in un altissimo livello, ma mi chiedo che c'entra. Potevamo far durare gli interventi il giusto. Stessa identica considerazione feci a Zollino con le mie amiche che mi accompagnavano. Stiamo tutti aspettando che venga montato il mostruoso palco, che il baraccone attacchi, che il presunto futuro della musica salentina nasca.

E prima bisogna anche sentire lo Zecchino d'oro, mamma mia, Santu Paulu meu de le tarante, de li scurzuni e de tutti l'animali de lu munnu!

Il brano è "44 gatti", inno di tutti i centomila gatti che sono lì in piazza ad aspettare di buttarsi in un concerto rock dove la musica popolare è sfruttata e basta.

E perfino la musica classica viene scomodata per attendere Einaudi ed i suoi arrangiamenti. Si ascolta il "Nessun dorma" dalla "Turandot" di Puccini. Bellissima, ovvio, ma che c'entra. Va bene che i momenti di attesa a nessun concerto sono riempiti con musica in tema col concerto stesso, però insomma non ne potrei più, anche pensando all'immane ingiustizia fatta ai gruppi salentini che non hanno avuto il giusto peso.

In attesa si può anche ascoltare la "Volta la carta" di De Andrè live con la PFM. Almeno, dio sia lodato, questa è una tarantella. Ovvio la critica resta tutta.

E scusate se non riesco a parlarvi del concertone nella sua parte enaudiana, non ho pazienza. Questo ho fatto!





martedì 23 agosto 2011

aRIAFRISCA: "lA STRADA DELLE ROSE".

Carissimi lettori, questa sera ho finalmente l'onore di potervi parlare degli Ariafrisca, ottimo gruppo di musica popolare salentina con sede a Felline (LE), in attività da ormai dieci anni.

Il pretesto è la recensione al loro pregevole ultimo compact disc dal titolo "la strada delle rose".

Il cd si apre con una spumeggiante versione strumentale della Pizzica di Cisternino (BR), diversa da quella presentataci da Massimiliano Morabito nel suo "Sendë na rionettë sunà". Se la prima è in minore, questa si lascia andare in un semplice giro maggiore a due accordi, il tipico tonica-dominante della pizzica più pura. La presenza di ben due archi (un contrabbasso ed un violino) danno alla versione degli Ariafrisca una consistenza unica che rasenta l'ossessivo (fortuna!) senza però arrivare agli estremismi che danno certe trovate ormai comuni nella riproposta. Ciò che si trova qui è la semplicità delle pizziche antiche, quella spesso ripudiata da chi questa musica la vuole sfruttare solo per ciò che gli conviene e non valutarne i pregi obiettivi.

Quando si inizia a cantare si sente subito il valore vocale del gruppo che è davvero notevole. Intanto c'è la voce femminile di Maria Laura De Filippis, il cui timbro ha una forte personalità seppur vi si riconoscono chiarissime le influenze della scuola di Anna Cinzia Villani, in una certa potenza che a certe orecchie non abituate potrebbe sembrare calco (ma non lo è). Su certe vocali finali si riconosce (o si potrebbe riconoscere) uno stile che rimanda anche a certo canto contadino non solo salentino. Il primo canto è una versione estremamente personale (e bella!) de "Lu sule calau calau". Di personale vi sono i controcanti nonché piccole parti melodiche, ma soprattutto gli assoli di flauto e mantici, che forse sono le vere armi degli Ariafrisca. Difatti, secondo me, ciò che è migliorato tra "Sona ca nc'è l'aria" e questo cd, sicuramente più bello e maturo, è l'uso di questi elementi. Da notare, in questo brano, l'inizio ed il finale a cappella, eseguiti con uguale perizia anche live (la bellissima serata a Tricase Porto lo testimonierà presto anche per chi vorrà passare sul mio canale di Youtube quando essa sarà pubblicata in molti suoi momenti).

La traccia successiva è "Lu tommareddu meu", ma non vi fate illudere dal titolo, di cose particolari ve ne sono a iosa. Intanto il brano è un misto di almeno tre pizziche. La prima, quella eseguita sempre a gruppo completo (sempre impreziosito dal solito contrabbasso che dà un corpo notevole) è una serie di strofe di tematica varia, non solo sul tamburello. La seconda, leggera variante della prima, contiene strofe particolarmente piccanti, mentre la terza, omaggio ad Otello Profazio o quantomeno da me fortemente collegata al repertorio di questo grande calabrese, è eseguita, meno che l'ultima ripetizione, voci e tamhuri. Imparate gruppetti da strapazzo!

La traccia successiva è una toccante e tradizionalissima "Damme la manu". Si sente una notevole voce da basso, ruolo particolarmente negletto da questi innovatori da quattro soldi che pensano che il futuro della musica popolare sia per forza da trovare nelle contaminazioni spinte. Vanno notate le fioriture della voce principale, nonché il fatto che il controcanto va a terze (ritenuto rigidamente lo schema della tradizione ora che deve essere insegnata in pretese scuole) solo nelle parti finali di ogni distico, giusto a dimostrare che la linearità non era un attributo della vera tradizione.

La traccia successiva è una classica (solo apparentemente) versione della "Pizzica di San Vito" (BR). Intanto non viene eseguita la versione in la minore, bensì quella che lo stesso "mestu" Vincenzino Vita eseguiva in sol-mi. Il testo è tradotto in leccese, sinceramente non disturba. Le strofe sono quelle di Angelo Sabatelli per i "Tre violini inediti del tarantismo" di Fernando Giannini, libro edito per le edizioni Kurumuny di LuigiChiriatti. Per quanto riguarda la parte strumentale essa viene rispettata solo limitatamente alla parte in maggiore, quando si va in minore entra un flauto (forse tenore) e esegue un giro che porta l'armonizzazione anche verso il grado di "sottodominante", ma neanche questo disturba. Nella parte in sol ci sono due strumenti che nella tradizione sanvitese, che io sappia, sono rari. Mi riferisco all'armonica e all'organetto. Ragazzi, questa comunque è una delle migliori (se non la migliore!) versione della pizzica di San Vito all'infuori di quelle dei coniugi Sabatelli!

Ed andiamo avanti con un valzerino intitolato "Il cacciator del bosco". La versione degli Ariafrisca ha di strano il fatto che la parte narrativa è affidata alla voce femminile, mentre sinceramente credo che il canto sia spudoratamente maschile. Questo brano ha delle parti strumentali dove i tamburelli si rimpallano alternando uno una parte quasi brasiliana, l'altro un qualcosa di simile alla pizzica.

Sinceramente lo stacco non risulta molto gradevole alle mie orecchie, più che altro perché spezza l'atmosfera di un raro e gradevole valzer in lingua italiana. Lo stacco in sé non è male, si potrebbe obbiettare (e io obbietto!) che potrebbe essere base per un brano d'autore, non ha senso (ripeto sono opinioni personali e non vincolanti) metterlo in un brano spudoratamente e fortunatamente tradizionale. Alla fine, dall'ultima ripetizione dello stacco, si parte con una pizzica in minore (tonica-dominante) davvero spacca tutto!

Interessanti i dialoghi fra fl'auto e mantici, supportati dalla vigorosa sezione ritmica.

Nel finale la pizzica fa finta di stemperarsi e si ritorna brevemente al tema mediterraneo (o brasiliano) precedentemente toccato. Per fortuna è solo una finta.

Andando avanti si trova una tarantella in maggiore, con una scala amplissima, con un testo tradizionalee semitradizionale. È la storia dell'inizio e sviluppo di una storia d'amore nel mondo contadino. Anche questo è cantato prevalentemente in lingua italiana, in quell'italiano condito di dialetto che, nonostante io non lo ami, mi fa comunque tenerezza mentre (come ormai sapete) non sopporto l'italiano standard accompagnato dagli strumenti tradizionali. Curioso notare come le parti femminili siano in un dialetto più stretto, che viene ripreso, finalmente, anche dalle parti maschili. Ma alla fine si torna all'italiano, in nome di quella convivenza che si può toccare ancora con mano in certe zone del Salento e non solo negli anziani. Musicalmente il brano non porta al ballo, talmente è annacquata e addolcita.

Il brano successivo è sulla melodia nota come "Giulia di Fornovo", grazie alla maledetta fantasia e superficialità di Giovanna Marini. Il brano inizia con una strofa di quelle cantate dalla stessa cantante romana, ma ha una grande coerenza di trama, si sente che è un documento filologicamente rispettato ed eseguito a cappella.

E tornando alle tarantelle, stavolta belle forti, si canta su un monaco un po' poco ligio ai doveri eclesiastici, che preferisce l'amore alle funzioni di chiesa. Nel ritornello strumentale si assiste, ancora una volta, alle strabilianti entrate del flautista e dell'armonicista. Magari le terzine non sono senza respiro tipo Alla Bua ai tempi di Pierpaolo Sicuro, l'efficacia comunque è sempre tanta. Alla fine del brano il ritornello viene ripetuto svariate volte, l'ultima con un finalea cappella giusto per ricordarci di chi stiamo godendo l'arte.

Ed eccoci al brano che dà il titolo al cd, una pizzica in minore, con giro variabile dai tre ai quattro accordi, con musica d'autore ma testo liberamente creato mettendo insieme alcuni gioielli tradizionali poco cantati (questa è una delle caratteristiche degli Ariafrisca, che però non la coltivano in modo paranoico come tre quarti dei gruppi salentini).

Se dovessi raccontare la struttura della melodia dovrei citare gli Zoè e le pizziche in minore di Pisanello ("Don pizzica" e "Filia"), ma lo stile degli Ariafrisca dà tutta un'altra aria al tutto. Da ascoltare con rapimento. C'è questa solita leggerezza che dai tarantati alla Sparagna potrebbe essere mal interpretata, è solo segno di raffinatezza. Nella stessa direzione si muove il lungo crescendo di cui si rendono protagonisti la chitarra, il contrabbasso con l'archetto, l'organetto ed il sassofono soprano, che partono dopo che la stupenda voce di Maria laura De Filippis abbia smesso di cantare, con la sua particolare timbrica tra il rude ed il dolce, bellissime strofe di tematica romantica. Quando si torna a pizzica il sassofono ha il ruolo del canto, incalzato dai mantici. Bisogna dire che in contesto live questa parte perde un po' data la tendenza ad accentuare la botta del tamburello, mentre qui è tutto perfetto.

L'ultima traccia è un brano irlandese, difatti il mondo celtico aleggia per tutto il cd prima di materializzarsi in questa ballata. L'interpretazione è convincente dal punto di vista musicale, anche se il canto forse non rende, come non rendono i tamburelli.

Comunque è un cd bellissimo, che si chiude con una pizzica vorticosa in sol che si attacca all'ultima parte di questa ballata irlandese.

Per scoprire gli ariafrisca si può andare su www.ariafrisca.it o su www.youtube.com/ariafrisca.

Buona scoperta, resterete almeno colpiti.

martedì 16 agosto 2011

Agorà: "Io, pizzica... e tu..."

Carissimi lettori, sono appena tornata dal Salento, dove ho assistito a moltissimi concerti e comprato e ricevuto qualche disco degno di essere recensito.
Questa sera pago il pegno di gratitudine più grande, quello nei confronti del gruppo specchiese degli Agorà (visitate il loro sito all'indirizzo www.agoracantiantichi.net). Ho avuto la fortuna di vedere all'opera questo gruppo amatoriale ma non per questo peggiore di molti professionisti (nel Salento spesso dilettantismo significa attaccamento alla vera tradizione, quindi qualità). Il gruppo suonava in una ventosissima serata a Torre Pali. In quell'occasione ho avuto la possibilità di ricevere il cd (in regalo) uscito l'anno scorso dal titolo "Io, pizzica... e tu...".
Il percorso del gruppo, dal pregevole "Canti antichi" fino a questo perfetto ultimo disco, ha avuto una tappa intermedia nel già qui recensito "Canti de na fiata".

Il disco inizia con un inedito che racconta come sia cambiata la raccolta delle olive (giusto per dimostrare che, come diceva Raheli, una delle strade possibili per la sopravvivenza e il rinnovamento della musica popolare salentina è la composizione di "Nuova vecchia musica salentina". Il brano, intitolato "Lu trappitu", è stato scritto da Saverio Fonseca, affabile signore a cui tocca dirigere questa grande piccola nave della musica popolare salentina. La canzone ha il ritmo della tarantella, il giro tonica-dominante-sottodominante, quindi niente astrusità. Stupenda!

La seconda traccia è una perfetta "Pizzica di Cutrofiano" interpretata magistralmente da Maria Rimini e una voce maschile (forse quella di Giacomo casciaro) che in questo cd suona anche i flauti e il mandolino, forse lo strumento principe della grande elevazione stilistica del gruppo specchiese. Mai, infatti, nessuno strumento straniero potrà rimandarmi un centesimo della leggerezza magica del mandolino. Il brano non è veloce, anzi, è una delle pizziche più "stanche" e coinvolgenti che io abbia mai sentito. Il testo è quello degli Ucci, con qualche variante frutto di accurate e personali ricerche sul campo.

Sempre a tempo di pizzica arriva la bellissima "Quando te vitti", bella pizzica in minore sempre fatta sul giro tonica-dominante-sottodominante. Le strofe tradizionali sono interpretate da Maria Rimini, bella e ormai matura voce del gruppo, con l'aiuto di una voce maschile, che prende delle note che modernamente sono spesso eseguite dalle
donne.

Nel ritornello si omaggia Cosimino Surdo, il quale, invece di utilizzare il solito "Beddhra l'amore e ci la sape fa", intercalava le strofe della sua bellissima pizzica con un "Amame beddhra e nun me bbandunà".

Alla quarta traccia si arriva al primo valzerino del cd, con una bellissima "la fija de lu massaru", che ricorda in molti aspetti certe cantate del patriarca della musica popolare salentina Uccio Aloisi, morto qualche mese fa, e molto poco ricordato nel Salento anche da chi dice di volerlo ricordare.

In questo brano si dimostra ancora una volta che, proprio per i numerosi ostacoli che gli si frapponevano da parte di una società profondamente ingiusta, l'amore dei contadini poiché raro è forse più puro. Il brano scorre leggerissimo come tutto il cd, che prende in maniera assoluta chi ancora sa apprezzare questa musica per quello che è, un genere senza mediazioni.

Quando si torna alla pizzica si arriva ad un collage di strofe tradizionali, dove il giovane Giacomo Casciaro dimostra tutta la sua insuperabile abilità nei ricami su sol centrali sulla "a" della parola "fijata" del comune, ma non per questo stancante, ritornello "Na, na, na, comu balla fijata e ne pizzicau lu core mamma mia ce dulore".

Anche in questa pizzica, insieme a strofe comuni, si sentono assolute gemme di rarità poetica inusitata (agli autori di canzoni politiche a orologeria... meditate gente meditate!).

Solo nelle due ripetizioni della prima strofa si sente il "Beddhru l'amore e ci lu sape fa", ma non stanca.

La mandola che conclude il tutto da veramente la sensazione di essere noi la stella che compare a levante.

Sulla melodia del già di per sé raro canto "'Ntunucciu", riproposto veramente in contate occasioni quasi solo dai gruppi ricollegabili alla prima ondata della musica popolare salentina (Canzoniere e Aramirè in primis) si ascolta un testo in griko cantato dalla cantante femminile aiutata da questi particolari controcanti maschili che andrebbero a toccare note che, solo per spiccata tendenza al convenzionale, consideriamo caparbiamente femminili. Mentre la cantante interpreta con durezza, la voce maschile, pur restituendo il medesimo respiro, addolcisce molto il canto creando un interessantissimo contrasto.

Quando si torna a cantare in salentino lo si fa con l'unico momento un po' fiacco del cd, una versione lenta, simile a quella degli Zoè in "Terra" (pur nella profonda diversità della rielaborazione) di "Nia, nia, nia". Musicalmente sinceramente il brano è un po' troppo elaborato, soprattutto per quanto riguarda l'ultimissima parte del giro del canto, che poi, come nella più autentica tradizione salentina, corrisponde con la completa esplicitazione di ogni singolo distico. Il brano, comunque, è interessante per quanto riguarda il testo. Infatti, ancora una volta, oltre a qualche strofa del testo leccese spesso cantato a pizzica, si assiste ad assolute novità.

Così come per "Lu rusciu de lu mare" nel precedente "Canti de na fiata", anche qui abbiamo due versioni di questo testo. Contrariamente al precedente citato, però, qui le strofe non corrispondono per tutto il tempo. La melodia utilizzata, altro merito agli Agorà, è quella di Luigi Stifani che costui interpreta a filastrocca nel cd "Io al Santo ci credo" allegato all'omonimo libro delle Edizioni Aramirè di Lecce, utilizzata dagli stessi Aramirè in maniera molto buona per la loroversione, unica pubblicata ufficialmente, del classico "Opilllopillopì".

E si torna al valzer, cantando una melodia che gli Zimba (vedere il cd allegato al libro "Zimba voci, suoni e ritmi di Aradeo" delle Edizioni Kurumuny diLuigi Chiriatti) utilizzava per rivendicazioni o consigli sulle lotte alle tabacchine del paese. Il testo qui, invece, è bucolico, forse anche troppo, ma forse anche questo era la musica popolare, anzi forse lo era anche più di quanto fosse questo veicolo di lotta che secondo molti, in maniera estremistica, sarebbe così importante nel folklore salentino, anzi addirittura lo monopolizzerebbe.

Melodia leggera e bella, ispira libertà e gaiezza, anche grazie alla mandola, la cui profondità non dà fastidio, perché non utilizzata in maniera mediterranea (bella ma ormai comune nella musica salentina) ma tendente ad un'italianità spesso dimenticata, in nome di pretesi globalismi o glocalismi che ovviamente è la nostra radice più grande.

La traccia successiva, con la quale si torna alla pizzica, è una versione molto buona, anche se forse non molto convincente perché tradotta dal dialetto d'origine al leccese, della "Pizzica di Torchiarolo", con il testo riportato alla luce di recente da Enza Pagliara.

Ancora una volta ritroviamo questa pizzica, forse per gli standard di certa gente "stanca", ma per me, proprio perché tale, coinvolgente e anche interessante per la possibilità di essere portati dall'arte del gruppo fino a profondità dove la velocità non porta.

La voce del cantante è molto vicina ai portatori della tradizione, è dura e graffiante, niente a che vedere con gli atteggiamenti da "Sanremo dei proletari" che si vedranno tra una decina di giorni a Melpignano.

La mandola cesella leggermente variato il tema vocalizzato nel ritornello, così si va avanti lentamente ma irreparabilmente nella pizzica.

Avrete forse capito che ritengo una lezione grandiosa questo cd, a chi pensa che questa musica vada fatta facendo caciara.

E utilizzando un ritmo latino completamente entrato nella nostra tradizione si interpreta un carinissimo canto da osteria intitolato spesso "Na mujere vascia vascia. una coppia tenta di separarsi minacciando l'altro componente di non farne più parte perché costui (o costei) sarà data, ma poi tutto si risolve per il meglio. Curiose certe inflessioni napoletane nella pronuncia della frase "nui ci ulimu bene", presente nel ritornello. Questo è uno di quei canti che potrebbe continuare all'infinito, per la sua circolarità. Vediamo se anche questo repertorio, tramite qualche coraggioso tra cui gli Agorà, i Calanti e i Briganti di Terra d'Otranto, acquista la dignità che ha acquistato (o fatto finta di acquistare...) la pizzica. Anche qui la mandola cesella il brano con interessanti note ribattute in corrispondenza di ogni pausa.

La penultima traccia, insieme alla seconda, è da sempre (ossia dai cinque giorni in cui ho potuto assaporare il cd) la mia preferita. Il brano si sviluppa in una vorticosa (ma sempre "stanca" e leggerissima) pizzica di Aradeo, inpreziosita dai voli del flauto irlandese, che se fosse meno leggero, diventerebbe, come per miracolo, uno di quei flautini che si sentono in qualche traccia del cd "Le tradizioni musicali in Puglia vol. 3" di Giuseppe Michele Gala.

Anche qui, pur nella relativa stabilità e frequenza delle strofe, si assiste a qualche succulenta novità che non vi anticipo, costringendo chi avrà la curiosità sufficiente, a provare a prendere il cd magari ad uno dei bellissimi concerti del gruppo specchiese.

Va detto, per la cronaca, che anche per quanto riguarda le voci, il gruppo, pur non rinunciando alle sue caratteristiche veramente tradizionali, è migliorato infinitamente.

L'ultima traccia è una tarantelluccia che ricorda da una parte "lu scarparu" cantata dagli Alla Bua nel cd "Stella lucente" del 1999, dall'altra, ampliata credo, una poesia di Cesare Monte, il cui repertorio suonato con gli strumenti del Sud è anche carino. Bellissimi i controcanti di due mandole, una sulle note sottto l'ottava centrale del piano e l'altra sopra.

Avete voglia di fare un po' di festa e magari ubriacarvi anche di semplicità? Ascoltatevi l'ultimo prezioso cd degli Agorà.



mercoledì 8 giugno 2011

Inti-Illimani: Conciertos Italia '92"

Carissimi lettori, dopo essermi sfogata in difesa di uno dei più grandi e longevi gruppi salentini, torno, per la seconda volta, ad omaggiare uno dei gruppi più importanti nella mia formazione di appassionata di musica e musicista. Mi riferisco agli Inti-Illimani, che questa volta omaggerò recensendo un loro disco di reperibilità particolarmente difficile dal titolo "Conciertos Italia '92").

Il disco è un bootleg ufficiale, ossia uno di quelli dove il suono dal vivo è lasciato puro o quasi. Il percorso inizia con un brano estratto dall'altro pregevole disco dal vivo del gruppo, pubblicato due anni prima insieme a Paco Peña e John Williams, dal titolo "Leyenda". Il brano è uno di quegli strumentali imponenti così cari al gruppo, che ne ha fatto una delle sue bandiere, più riconosciuta anche della stessa bandiera politica, che invece soprattutto per il pubblico italiano è l'unica che il gruppo ostenta. Il brano si basa su una melodia solo in apparenza scarna e semplice, composta da due giri melodici completamente diversi che si incastonano l'uno dentro l'altro e sono interpretati da un crescendo di strumenti di diverse provenienze, dal charango al tiple, dalle claves al contrabbasso. Solo nella seconda ripresa della parte iniziale, di introduzione alla base della melodia, entra la zampoña, da noi conosciuta comunemente come flauto di pan. La gente accoglie in maniera abbastanza tiepida, anche se forse apprezza sinceramente. Ho già accennato all'eccessivo legame che il pubblico italiano ha con la parte andina del repertorio del gruppo, che non è mai stata la dominante nel suo immaginario, anzi è entrata successivamente rispetto all'inizio della sua carriera in quanto il suo primo disco è un omaggio alla rivoluzione messicana ("Canciones de la Revolución mexicana 1968).

Il gruppo, continuando, va a riprendere uno spumeggiante brano boliviano da lui reinterpretato nel disco "Palimpsesto" (1981), quello che aveva inaugurato la fase della "Finestra aperta" e chiuso quella della "Valigia pronta". Il brano è interpretato inizialmente solo voci a "canone" con un leggero accompagnamento di chitarra sui bassi, per poi esplodere in una festa di armonia tra voci e strumenti.

Il primo intervento parlato è di Jorge, all'epoca principale incaricato dei contatti con il pubblico di un gruppo che non aveva bisogno di aggettivi per presentarsi come "histórico" o "nuevo" e non era stato corrotto dal più grande corruttore dell'arte, il Dio Denaro.

Quando il gruppo torna a cantare presenta un brano, a ritmo di cueca, che all'epoca stava conoscendo le sue prime apparizioni pubbliche, mentre l'anno successivo sarebbe apparso nel cd "Andadas". È un brano sull'esilio e su come questa esperienza faccia poi sentire stranieri in qualsiasi posto. Il brano è veramente stupendo, innova con quella semplicità che ora, spesso, i gruppi popolari di tutto il mondo hanno perso in favore di una discutibile tendenza al barocco. È interessante sentire come il sax soprano di Renato Freyggang riesca ad avere la stessa capacità evocativa della tromba, anzi la superi.

Gli Inti-Illimani, proseguendo, riprendono uno di quei brani che "appartengono in buona misura" alla prima generazione dei loro ammiratori, la più settaria, chiusa ma forse anche sincera. Il brano è "Run run se fue pa'l norte", scritta da Violeta Parra con un ritmo molto più veloce e con un testo molto più lungo, interpretata dal gruppo con un arrangiamento concepito dal grande musicista classico cileno Luis Advis, quello della "Cantata a Santa María de Iquique" per i Quilapayún e del "Canto per un seme" per gli stessi Inti. Il brano fu inciso per la prima volta nel primo periodo cileno del gruppo nel vinile "Autores chilenos" (1971), quasi totalmente riprodotto dal vinile "la nueva canción chilena", inciso in Italia tre anni dopo (1974). La versione del gruppo, nonostante la sua innegabile bellezza, fas perdere molto del carattere narrativo datogli da Violeta Parra (disco "Sus últimas canciones" 1966),, che lo avvicina a certi canti di tradizione italiana con la struttura di ballata.

E il tuffo nei ricordi non si arresta, anzi continua con un "Tincu" estratto e reinterpretato a partire da quel "Canto de Pueblos andinos" inciso pochi mesi prima della tournée in Italia del 1973 che si trasformerà in un esilio durato per quindici anni, ripubblicato in versione originale in Italia nel 1975. La versione live è sempre stata molto più veloce, quindi permette ai musicisti di divertirsi. Bello, e particolare, il controcanto urlato di José Seves (grandissima voce del gruppo, ora negli Históricos,) alle frasi cantate da Horacio Salinas con festosità e misura.

Si torna al presente, o meglio al futuro degli Inti-Illimani, ossia ai brani di "Andadas", con una salsa scritta da Horacio Salinas su testo del grande Nicolás Guillén, lo stesso poeta musicato da Paco Ibáñez nella sua "Guitarra en duelo mayor" ("Soldadito boliviano"), presente nel cd tributo ad Ernesto Che Guevara. L'anima centroamericana del gruppo viene da lontano, si pensi ai pregevoli esperimenti cubani di "Sensemaya" (brano musicato sempre dagli Inti nel disco "Canción para matar una culebra" del 1979, su testo dello stesso Guillén) o alla divertente "Tío Caimán" interpretata nel disco del 1980 dal titolo "En directo" (caldamente consigliato da queste parti).

Meraviglioso l'intervento dell'ottavino e l'uso del tiple come tres, altrettanto efficace nella musica cubana, mentre lo strumento cubano nella pizzica, e lo sapete, non porta a nessun risultato di mio gradimento.

Ed Horacio Durán, con il suo inconfondibile accento romanesco, sta rievocando l'incontro con Roberto De Simone che ha portato il gruppo ha interpretare, in maniera pregevole, sia una composizione dello stesso De Simone dal titolo "Canna Austina", sia una notissima tarantella barocca del repertorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare dal titolo comune di "Tarantella del '600". Per chi volesse approfondire lo spettacolo del teatro Mercadante consiglio il canale di Youtube di Thedonnaregina, all'indirizzo www.youtube.com/thedonnaregina. Tornando all'interpretazione del gruppo di "Canna Austina" è una specie di tammurriata senza tamburi, ma l'insuperabile ritmicità degli strumenti etnici latino-americani non fa sentire la mancanza. La vocalità del gruppo fa il brano proprio ma non stravolge per niente l'atmosfera, forse l'unico problema è la pronuncia del napoletano con mancanze abbastanza evidenti. E senza soluzione di continuità entra il tamburello, basco, e con lui la "Tarantella del '600". Suona particolare sentire una bella tarantella suonata con strumenti tra cui spicca un'arpa peruviana, comunque è bella. Entra l'ottavino, in America Latina chiamato "piccolo", che tanto da vicino ricorda gli strumenti fatti con canne dai nostri pastori (meglio l'ottavino che i flauti dolci e traversi nella musica popolare italiana, grazie!). La struttura tripartita del brano viene completata da una particolare rielaborazione strumentale del tema della "Canna austina", che addirittura prevede la solita zampoña bassa, che qui dialoga e contrasta con uno squillante e festoso ottavino. Il contrasto cede spazio al sassofono soprano che dà veramente l'idea di una ciaramella napoletana. Per ascoltare questa versione, solo la parte strumentale, si può utilizzare il disco "Leyenda", caldamente consigliato anche se non so quanto presente sul mercato nostrano. Particolare è, proseguendo l'ascolto, l'entrata del Cajón peruano con terzine che si incastonano nel ritmo della tammurriata, e ancora più particolare è, ormai alla fine, sentirlo accompagnare, insieme al tamburello basco, l'ultimo vorticoso giro di tarantella. Forse manca la precisione della terzina data dal giro della mano, ma l'effetto è spesso superiore a molte tarantelle nostrane!

Quando si torna a cantare in spagnolo, lo si fa con una di quelle canzoni che, tra quelle a tema politico, hanno sempre riscosso una preferenza da parte mia del tutto specifica e particolare. Mi riferisco ad "America novia mía", pubblicata nel 1977, nel disco "Chile resistencia", il primo che annuncia la maturità musicale del gruppo, che esploderà in dischi come "Canción para matar una culebra" (1979) o "Palimpsesto" (1981). Il brano è musicalmente aperto e complicato, utilizza una serie di terze di due quenas (flauto di canna a canna singola) molto particolari. Il testo è sulla necessità, ancora oggi molto sentita nonostante tutto, di liberare il continente latino dal giogo del nord.

Continuando si torna ad uno dei brani che faranno parte poi del successivo lavoro degli Inti, il bellissimo "Andadas" (1993). Il brano è cantato in una lingua precolombiana, credo Quechua. Qui la musica andina nonesplode, anzi è addolcita da certe idee armoniche del gruppo che tendono ad interiorizzarla facendola quasisparire. Particolare è, ad esempio, il fatto che gli accordi di "re minore" (tonica" e "mi minore" siano sostituiti dalle proprie settime, creando così un leggero arricchimento jazzistico, che d'altronde, se inficia un po' la festa, non tradisce nemmeno la radice del canto eseguito.

Sia gli Inti-Illimani che i Quilapayún, entrambi esiliati in Europa per quindici anni durante la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1988), hanno voluto ringraziare i rispettivi paesi di accoglienza (Italia per i primi e Francia per i secondi) con composizioni a loro dedicate, scegliendo località a loro particolarmente familiari. È questo il caso di questa "Cinque terre", basata su un basso ostinato su varianti di "mi maggiore", al confine con il doddiesis minore. L'atmosfera creata dal brano dà una grandissima idea di fluidità, di acqua marina in dolce movimento. Infatti, in maniera simbolica, il brano finisce con un "Palo de agua", strumento da noi conosciuto come "Canna della pioggia".

Ed a proposito di brani dedicati all'Italia, si prosegue con "Danza di Cala Luna", basata su un ritmo popolare sardo. Il brano conserva la tipica alternanza tra parti in maggiore, affidate solo alle corde e leggeri tocchi di piatti, e parti in minore dove entra una zampoña contrastata da assoli di corde al contempo intime e scatenate. Nella parte in minore, poi, dal punto di vista armonico, è interessante la presenza del sol maggiore che sostituisce il ben più tradizionale do maggiore. Qui l'alternanza si fa più serrata ed avviene all'interno di uno stesso giro melodico, oppure si potrebbe dire che giri dalla struttura armonica diversa si susseguono in maniera più serrata rispetto al resto del brano. A seguire si torna alla calma del giro in minore. Il brano è presente in due dischi del gruppo intitolati "De Canto y baile" e "Fragmentos de un sueño", risalenti entrambi alla fine degli anni Ottanta.

Si prosegue con un ritmo negro peruviano, sul quale il gruppo canta un testo ispirato a José Seves dalla lettura del libro "L'autunno del patriarca" di Gabriel García Márquez. Anche questo brano è tratto da "De canto y baile", e ancora una volta è caratterizzato da una ricchezza di atmosfere e tecniche esecutive veramente invidiabile (probabilmente se i nostri gruppi di musica popolare ascoltassero più musica latino-americana e meno blues nascerebbero composizioni meno paranoiche e più belle!). Ed entra il flauto ottavino, già presente nel ritornello, per aiutare la festa data dalla sperata, e all'epoca dell'incisione di questo disco finalmente ottenuta, libertà dalle dittature. Il finale è l'esplosione di allegria prima solo accennata, qui sia il cajón che il cencerro la fanno da padrone, e anche gli strumenti a corde e a fiato acquistano una certa leggerezza tipica delle percussioni.

Chicca assoluta è questa "El guarapo y la melcocha", brano tradizionale cubano, giusto per continuare a tentare di sfatare questo mito per il quale gli Inti sarebbero un gruppo che si sarebbe dedicato solo alla musica andina, dal titolo ispirato ad un liquore (el guarapo) e a un dolce (la melcocha). L'interpretazione è festosa, anche se, purtroppo, il pubblico non si sente ad aiutare il gruppo con le mani. Belli gli assoli di tiple, che, come detto prima, anche in questi ritmi sa fare la propria figura (anzi è bello perfino nella musica popolare italiana, per accorgersene basta ascoltare i mirabili contrappunti eseguiti da Daniele Durante su questo strumento nel brano "Quantu è bruttu e miseru lu spettare" nel cd "Allora tu si de lu Sud" (Animamundi). Per ascoltare il brano basta venire sul mio canale di Youtube che, vi ricordo, si trova all'indirizzo www.youtube.com/valentinalocchi.

Il concerto sarebbe finito, infatti la gente stta reclamando il ritorno sul palco del gruppo, il quale accontenta e chiude con un brano boliviano molto amato da noi italiani, e credo non solo. Il brano in questione è "La fiesta de San Benito", pubblicata per la prima volta in Cile nel 1969 (disco "Inti-Illimani"), da noi conosciuta per il rifacimento nel disco "Viva Chile" del 1973, primo pubblicato in Italia dal gruppo.

In questa versione, cosa mantenuta anche nelle successive, c'è una modifica nel testo, infatti il verso "coge tu mante" (prendi il tuo mantello) viene sostituito da un "aunque tunante", ossia seppur girovago. In questa versione fanno capolino alcune influenze africane, ma siamo ben lontani dalle rielaborazioni jazzate, per me insopportabili, fatte spesso dall'attuale direttore degli Inti-Illimani "nuevos" Manuel Meriño. Il gruppo nel finale gioca con le armonie, magari questo smorza la festa che si fa, e voglia se si fa, quando si ascolta questo brano. Il consiglio, in chiusura di questo articolo, è diascoltare questo brano solo nella versione di "Viva Chile".

Sperando di avervi fatto piacere, ¡Viva Chile!

mercoledì 25 maggio 2011

Qualche inderogabile riflessione

Carissimi lettori, sembra strano dover fare un articolo per valorizzare una storia così lunga ed importante come quella del Canzoniere Grecanico Salentino. I miei punti d'attrito col nuovo corso del gruppo (o meglio con quello che poi si sarebbe concretizzato come il cd "Focu d'amore") restano assolutamente invariabili, ma quando si sentono certe cose in giro anche chi magari non è legato ad una qualsiasi storia finisce per difenderla se questa ha un valore importante a livello obiettivo, al di là di quelle che possono e debbono essere le legittime preferenze estetiche di ognuno.

Nel programma "Mezzogiorno in famiglia" c'è stato un servizio da Foggia (Orsara di Puglia per la precisione) in cui è stato invitato un gruppo di pizzica leccese, perché per molti, la Rai in primis, la Puglia è solo Lecce (e al di là di quelle che possano essere le preferenze di ognuno questo è obbiettivamente falso). Si potrebbe infatti ricordare alla Rai che la zona del Gargano ha un folklore completamente indipendente, degnissimamente e mondialmente rappresentato da gente come i Cantori diCarpino, miglior gruppo in assoluto (secondo me) tra quanti si dedicano al folklore della zona foggiana, diversissimo dalla pizzica leccese, brindisina o tarantina che sia (si pensi alla bellissima ma troppo massificata e rovinata "Tarantella del Gargano" che si trova, con il suo testo più conosciuto, nel primo cd, prodotto con mezzi moderni e diretto da Eugenio Bennato, del gruppo plurigenerazionale garganico).

Ma veniamo a quello che mi ha ferito di più. La presentatrice, e scusate l'ignoranza ma non posso dirne il nome, ha presentato il Canzoniere Grecanico Salentino (che come ripeto non c'entrava niente in questa storia foggiana) come un "Gruppo folkloristico". Che io sappia, e lo so anche per esperienza diretta per aver partecipato ad un concerto di un vero "gruppo folkloristico", questo tipo di associazione non si dedica solo all'aspetto musicale ma ad un'imitazione, secondo me in verità sterilissima, di tutti gli aspetti della vita tradizionale, allo scopo di farne spettacolo gradevole e divulgativo (qualcuno ci riesce ma sono pochi e, almeno per la mia esperienza, non sono italiani).

Basterebbe leggere anche solo qualche piccola testimonianza di Daniele Durante (membro precoce e direttore del gruppo per circa trentadue anni) per accorgersi del fatto che il Canzoniere, d'altronde in contatto con la più ampia esperienza delNuovoCanzoniere Italiano, rifuggiva da questa logica, pretendendo piuttosto la non musealizzazione di questa musica, spesso reinventata (nel caso del Canzoniere anche un po' esageratamente soprattutto nel periodo 1980-1998) o addirittura arricchita con brani nuovi scritti sui canoni tradizionali.

Non dimentichiamoci innanzitutto che il gruppo nasce sotto gli auspici di Rina Durante, grande e feconda intellettuale salentina che era stata portata verso la cultura popolare proprio dalla sua vitalità anche sopita in contesti insospettabili. Tra i membri del gruppo nella sua prima formazione, e questa sarà una caratteristica che conserveranno tutti i grandi gruppi di musica popolare salentina, aveva persone che, in qualche caso come luigi Chiriatti, oltre ad essere ricercatori, provenivano da famiglie dove la musica popolare era sempre stata viva (vedasi ad esempio il caso diPino "Zimba" che entrò negli Zoè da una famiglia dove la pizzica si suona almeno da quattro generazioni, dopo aver addirittura militato in quel gruppo fondamentale per capire tutto ciò che succede adesso nel Salento chiamato Gli Ucci).

Si nota subito che il Canzoniere ha come principale desiderio quello direndere fruibile ad un pubblico giovane ed impegnato questa musica, infatti le prime esperienze il gruppo se le fa alle Feste dell'Unità, quando queste erano qualcosa di serio e non ospitavano solo discutibili gruppetti di liscio (con tutto il rispetto per la musica romagnola che in qualche caso amo anche io). Il gruppo inquegli anni ha un repertorio fortemente politicizzato e, purtroppo, per tirare fuori la politica ancheladdove non c'è, cambia qualche parola ad alcune canzoni tradizionali. Storico è il caso de "Le carceri te Lecce", conosciuta anche come "La Cesarina", che vede cambiato il suo verso "Ci ole Diu cu cangia stu mumentu" in "Ci ole Diu cu cangia stu guvernu". Questa tendenza si radicalizza, insieme ad un'altra ancora più discutibile a sostituire o far convivere in maniera stupida strumenti di estrazione troppo diversa, negli anni successivi. Molto carina, come esempio di canto politico d'autore ma di sana e robusta radice popolare, è "La pacenzia", canto scritto da Daniele Durante a partire da una filastrocca che si raccontava ai bambini. Per ascoltarla basta venire sul mio canale di youtube all'indirizzo www.youtube.com/valentinalocchi. Direi che simili preoccupazioni, per quanto abbiano portato ad un'estremizzazione esagerata l'arte del gruppo, lo allontanino da un qualcosa che possa essere chiamato "gruppo folkloristico". Va anche detto che queste preoccupazioni hanno portato a delle esagerazioni. Pur di rifunzionalizzare i brani salentini, in vari dischi li si suona con batteria, chitarra elettrica e tastiera (veramente la peggiore Notte Della Taranta non si è inventata niente...).

Tornando al programma Rai il Canzoniere Grecanico Salentino non si è assolutamente sentito, forse l'hannofatto vedere mentre ballava, ma ragazzi questo non basta.

Non credo che così si faccia un favore alla pizzica, se gliene volete fare uno ascoltatevi "Canti e pizzichi d'amore" del gruppo citato, disco risalente al 2000, così, oltre a fare un favore alla musica popolare scoprendola in maniera saggia e senza raggiri, ne avrete fatto uno grandissimo anche a voi stessi, scoprendo una delle opere più belle mai dedicate ad una reinterpretazione rispettosa (era già esplosa la lezione Zoè ed avevano già inciso il primo disco igrandi Aramirè) ma comunque volta al futuro.

venerdì 29 aprile 2011

Sui limiti della contaminazione tra musica americana ed italiana

Carissimi lettori, non avrei mai voluto scrivere l’articolo che sto per redigere, più che altro perché la persona che sto per difendere (Lucio Dalla) ha 45 anni di carriera sulle spalle che la difendono molto meglio di me.
Il cantautore bolognese, in occasione di un suo discorso tenuto in un’Università, ha affermato che il rap, come forma d’arte, non ha niente a che vedere con la maniera profonda di vivere la musica che noi italiani, volendo o non volendo, ci portiamo nel DNA. Sinceramente, conoscendo approfonditamente l’opera di Dalla, non credo che il discorso, commentato a iosa dai giornali ma da essi non riportato sufficientemente, quantomeno per quello che mi è stato possibile vedere, che il cantautore faccia una serie di affermazioni nazionalistiche. Non avendo io chiare le opinioni di Dalla, in questa sede vorrei solo esprimere le mie, discutibili, personali, relative.
Credo che il rap vada bene (a me comunque non piace) solo cantato nello slang americano che lo ha visto nascere come musica di denuncia. Da noi, e in tutto il resto del mondo, è una di quelle musiche che, ben digerita dal sistema che inizialmente denunciava, è stata da esso dittatorialmente imposta. In Italia, almeno per me, non c’è un solo rapper decente,meno ancora Fabri Fibra, il cui caso veniva citato da un giornalista per considerare Dalla un “incapace”, in quanto non ne avrebbe capito il talento. Sinceramente, e io la metto su un punto di vista linguistico e filologico, tutti quei progetti che prendono il via da premesse che forzano la cultura con i quali essi vengono irrimediabilmente a contatto, non li approvo. Ogni lingua, sia essa maggioritaria o minoritaria, è, ancora prima che una serie di regole, un mondo sonoro che la musica deve saper sfruttare e valorizzare, obbligandosi a non farle fare ciò che non le è naturale. Se si ascolta gran parte del rap italiano, oltre ai testi insulsi della maggioranza dei brani, si sente un insopportabile (almeno alle mie orecchie) maltrattamento della lingua italiana.Sinceramente, poi, non capisco il gusto di scimmiottare pedissequamente una musica importata, oltretutto in maniera innaturale, come accennato poco sopra, rinunciando a prenderne stimoli per poi farne qualcosa veramente di proprio. Sinceramente io preferisco delle esperienze di uso più particolare del parlato, ad esempio brani di Piero Ciampi (1935-1980) come “Te lo faccio vedere chi sono io”, dove la musica non dà lo schema ritmico alla parola, solo il sottofondo affinché il cantante si possa divertire con la parola, non imprigionata negli schemi, concepiti per lo slang americano, del rap. Credo infatti che il parlato sia un grandissimo arricchimento del cantato, come anche altri colori tra cui i finali “calanti”, ma non deve essere una schiavizzazione né un obbligo. Amo infatti il Paolo Conte che mischia cantato e parlato, oppure certi “tangueros” che utilizzano il parlato per andare in controtempo, cosa che si può fare con le lingue neolatine, difattidifficilmente piegabili a schemi ritmici estranei. Sinceramente io lascio ovviamente ad ognuno i propri gusti, ma dico che, come i cantanti americani non cantano all’italiana ma hanno creato orgogliosamente un modo di canto solo per l’inglese, così abbiamo l’obbligo di riscoprire la nostra italianità, la stessa che il mondo ci invidia. Dalla, che non è estraneo alla cultura americana, ne utilizza in maniera molto propria le caratteristiche, avendo creato ad esempio un misto tra rap e scat in brani come “Borsa valori”. Nel brano, infatti, la voce viene usata in gran parte della sua estensione, dalle note alte a quelle medie, non limitandosi allo schematismo, completamente basato su note medie, del rap puro.
Un’altra tendenza che mi dà fastidio, presa anche dalla musica popolare salentina, oltre ai fastidiosissimi brani in italiano, è quella delle contaminazioni, o peggio ancora dell’esecuzione e creazione, di blues italiano. Secondo Paolo Conte,infatti, noi abbiamo la cultura per il swing e la ballad lenta, mentre il blues non è nostro. Difatti,se ci si pensa bene, il swing e la ballad prevedono il canto o un qualcosa di simile al “bel canto”, il blues ha un lamento che si può fare solo in inglese e con le sue sonorità. A dimostrazione di ciò stanno i brani, meravigliosi e indimenticati, scritti da compositori come Giovanni d’Anzi o Gorni Kramer, che negli anni Trenta traghettarono il jazz in Italia, nonostante l’ipocrita e falsa opposizione ufficiale del fascismo.
Come avete visto da una difesa di Dalla si è passato ad enumerare quelli che per me sono i limiti di buon gusto nelle contaminazioni tra la musica statunitense ed il nostro modo di concepire quest’arte, come già notato da noi stupidamente rinnegato (e notare che quando non lo rinnegavamo ma lo esportavamo davvero, noi contavamo musicalmente nel mondo, ora siamo poco più di niente).