venerdì 30 aprile 2010

Chi si ricorda di Stefano Rosso?

Carissimi lettori, oggi torno da voi per quella voglia irrefrenabile di parlare e ricordare che ogni tanto mi prende. Questa volta non parlerò di un artista a cui mi legano particolari ricordi personali, anzi parlerò di uno degli artisti che conosco di meno, anche se la mia stima per lui è profonda.
Mi riferisco ad un grande e dimenticato cantautore, morto il 17 settembre 2008, a cui nessun telegiornale ha pensato bene di dedicare un servizietto minimamente decente. Il cantautore in questione si chiamava Stefano Rosso, ed è ricordato dai più solo per "Una storia disonesta", di cui è rimasta nella memoria solo quella coppia di versi che dicono "che bello
una chitarra, due amici e uno spinello".
E' a dir poco grave questa riduzione e questa rimozione, di cui è stato vittima questo artista che, forse come nessuno, ha saputo ritrarre gli anni Settanta vedendo le cose dal punto di vista giocoso, ma con la stessa forza che Claudio Lolli ed altri mettevano nella cruda denuncia.
La voce di Stefano Rosso dà l'idea dello stornellatore romano, ma la sua tecnica chitarristica, per niente banale, rimanda all'America. E' padrone di uno dei diteggiamenti più buoni che mi sia stato mai dato di sentire, a me che di chitarra non ci capisco niente ma di musica forse qualcosetta sì.
I suoi accordi, basta ascoltare "Anche se fosse peggio", brano che chiude l'lp "Una storia disonesta" per accorgersene, non sono mai banali, ama la semplicità ma non la routine.
Con lui anche la chitarra acustica, strumento che soprattutto per il repertorio italiano non ha mai riscosso le mie simpatie, ha il suo fascino ed anche una certa raffinatezza.
I suoi testi, raccontando la situazione di allora con mordente forse unico, sono di un profetico che veramente fa paura. Trovo meraviglioso l'inizio del ritornello di "Colpo di Stato", quando il nostro afferma: "Colpo di Stato"!
Ma che colpo se lo Stato poi non c'è!".
Bellissimo anche il ritratto dell'Italia con cui cesella la canzone "L'italiano" portata al Sanremo 1980, ma quelli erano altri tempi!
Magari oggi esistesse uno Stefano Rosso. Forse come stile ne abbiamo tanti. Ma quanta sincerità hanno questi "impegnati da strapazzo"? E dove sta un buon cantautore che, dopo lasciati i fasti delle case discografiche, ha il coraggio di autoprodursi sette cd in sei anni?
Stefano Rosso era quello che secondo me dovrebbe sempre essere un cantautore: uno che suona e canta, dialogando molto con se stesso, anche per distinguersi da quello che succede nella sporca ed insopportabile musica leggera.
Non so quanti di voi se lo ricordano, ma era veramente un grande.
Non so dirvi come mi sia arrivato alle orecchie, ma mi ricordo benissimo di aver avuto (e credo ancora di averla anche se non la uso più!) una cassettina con i suoi primi due vinili, incisa da mio zio. Io ho sempre amato canzoni anche minori come "Basta un'ora sola", o "l'osteria del tempo perso".
Spero di avervi ridestato la curiosità per questo grande dimenticato, e facciamo noi privatamente ciò che nessuno vuol fare: ricordiamocelo da noi e tra noi, riascoltandoci i suoi bei e rari dischi.

giovedì 29 aprile 2010

Sui cantanti del Concerto del primo maggio a Roma

Carissimi lettori, non avevo mai parlato di un evento molto importante che si svolge da ormai una ventina d'anni a Piazza San Giovanni a Roma, ossia il Concerto del Primo maggio. Mi pare giunto il momento di farlo.
Ritengo ingiusto ridurre i giorni in ricordo dei nostri caduti o dei lavoratori a giornate di festa senza impegno, cosa che si fa assolutamente in quella piazza. Quest'anno, va detto, hanno in parte raddrizzato il tiro, ma sono lontani i tempi in cui al primo maggio ci andava gente come Roberto Murolo, Paolo Conte, Fossati e Guccini. In quel periodo, scusate la sincerità, la musica era di qualità, cosa che spesso quest'anno tornerà ad essere. Mi viene già più difficile ritenere sincera questa pleiade di artisti sull'impegno politico, cosa che oggi, come si è già avuto occasione di dire in questa sede, è diventata uno specchietto per le allodole.
Ma guardiamo insieme la lista dei cantanti italiani presenti al concerto, in quanto gli stranieri non sono di mio interesse, anche perché da noi straniero significa americano o di aria inglese (quindi il resto del mondo è un altro pianeta).
Il primo italiano di cui si può parlare è Simone Cristicchi, cantante che non mi ha mai convinto del tutto anche se non lo disprezzo. Non mi piace la sua pochezza timbrica, lo ritengo molto poco espressivo in sede compositiva, poi lo sapete che tutto questo amore che professa molto ambiente pop per la musica tradizionale a me puzza sempre d'opportunismo: siccome è di moda accontentiamo così diamo un contentino anche ai cantori, che si sentono amati e sono contenti (non capendo che li sfruttano provvisoriamente e, quando troveranno qualcos'altro che gli renderà di più li ributteranno nel secchio dell'immondizia!).
L'unica cantante seria uscita in questi anni da Sanremo, la grande Nina Zilli, è un'altra protagonista di questa kermesse. Non so quanto sarà apprezzata in quel contesto, ma le auguro una grandissima e buona fortuna. Le sue sonorità bacarackiane mi piacciono molto, lei ha un timbro veramente corposo. Mi piace anche il suo comporre come se stesse pensando ad atmosfere leggermente retro.
Beh... è difficilissimo parlare bene dell'artista che segue, il siciliano Roy Paci, buon trombettista ma esecutore di una delle musiche più insipide che sia mai nata sulla faccia della terra. Nel suo modo di comporre i testi, trovo ci sia spesso retorica, quella che non avevano i nostri grandi e veri cantautori: riscopriteli signori organizzatori, farete un favore a tutti!
E cosa dire di questa ennesima emanazione del mondo CCCP-CSI-PGR anche senza Giovanni Lindo Ferretti? Nu ne putimu cchiui!
Se lottare è far venire un magone così a chi vi ascolta, beh... c'è sempre qualche problema, l'ho sempre sostenuto.
Di Samuele Bersani ho sicuramente più rispetto, anche se ultimamente lo trovo un po' schiavo di certi modelli anglosassoni che mi stanno poco nelle corde. Mi fa impazzire una sua canzone, contenuta nel cd "Amen" di Lucio Dalla, intitolata "Il mostro". Sinceramente preferisco una canzone composta semplicemente all'italiana, magari di vecchio stampo, alla scimmiottatura, ritenuta da molti segno di personalità, indipendenza ed emancipazione, di modelli che non ci riguardano.
Finalmente trovo un nome di cui posso senza dubbio parlare bene. Ho avuto il grandissimo piacere di vedere Carmen Consoli diversi anni fa qui a Perugia. Ho iniziato a stimarla di più, però, quando ha rafforzato la sua matrice folk, con cd come "Eva contro Eva" o l'ultimo "Elettra".
Ritengo il suo impegno veramente sincero e davvero votato a risvegliare le coscienze della gente. Meravigliosi alcuni suoi brani come "Mandaci una cartolina" o "Mio zio", tutti ritratti mordaci di problemi della nostra società: il primo visto da un punto d'osservazione più intimo, il secondo apparentemente più violento e forte.
Stimo molto, a livello di compositori, i Baustelle, ma la voce di Bianconi... de gustibus ma a me non piace.
Mi piace molto il testo di una canzone intitolata "Baudelaire", dove viene citato, tra altri personaggi illustri, il grande cantautore livornese Piero Ciampi, che molti giovani prendono come modello ma forse quasi nessuno ha conosciuto e capito.
Cosa dire di Vinicio Capossela?
Fino a quando ha fatto semplicemente il cantautore, per i primi tre cd, ha veramente emozionato. Quando, stanco della solita musica, è andato dietro a tarante, stravaganze e fantasmi, ha veramente stancato. Non è più in grado di cantare con quella pienezza e quella potenza che gli era congeniale all'inizio, non mi riesce più ad entrare nell'anima. Non sempre essere innovatori porta sulla buona strada, anzi secondo me è infinitamente più difficile, quindi più gratificante, saper comporre in maniera nuova con mezzi e strumentazioni convenzionali, ancor meglio se su generi convenzionali. La musica, secondo me, è sempre di più un recipiente che troppa gente sta riempiendo di troppa acqua: tra poco allagherà il mondo intero. Svuotiamolo prima che accada l'irreparabile!

mercoledì 28 aprile 2010

Fabrizio de Andrè: "Live a Roccella Jonica"

Carissimi lettori, avrete capito che tra le mie passioni più grandi c'è quella per Fabrizio de Andrè. Sono riuscita a trovare un bootleg del cantautore genovese registrato a Roccella Jonica, e non resisto a parlarvene.
Si inizia con una meravigliosa "Dolcenera". Questa versione, almeno secondo me, è molto migliore di quella pubblicata in "Effedia", che era caratterizzata da un tappeto esageratamente pop che non permetteva all'anima sudamericana di questo brano, sicuramente importante, di esprimersi con tutta la sua forza.
E' meraviglioso l'assolo di arpa uruguaya, strumento che da noi non è conosciuto, caratterizzato da un'allegria stupenda.
La voce di Fabrizio de Andrè è profonda, calma, tellurica e dà il giusto rilievo alla parola. Il brano, come sempre, si chiude, cosiccome si era aperto, con l'intervento delle coriste, che cantano questo bellissimo e misterioso scioglilingua in genovese che è forse la parte musicalmente più caratteristica del brano.
Proseguendo si ascolta un altro brano da "Anime salve", quella "Khoracané" che, forse come nessuna canzone, è un ritratto rispettosissimo della cultura dei rom.
L'interpretazione è limpida e perfetta, piena di quella pietà sincera e veramente cristiana così cara a De Andrè.
Il brano, così come accadeva nel cd, si chiude con la bellissima parte in romanì scritta da Fabrizio de Andrè come tangibile segno di rispetto per un popolo a cui noi, forse con superiorità spocchiosa ed inutile, non dedichiamo neanche un respiro di curiosità.
Il pubblico è caldissimo, e lo dimostra l'attacco di questa spettacolare "Don Raffaè", che, rispetto alla versione live pubbllicata poco dopo eseguita a Genova, qui riscopre il calore della versione su cd, senza la sguaiataggine un po' stereotipa usata da De Andrè anche se senza scopi d'offesa.
In questa versione, veramente perfetta, si riscopre una gioia piedigrottesca veramente meravigliosa. La gente, come è giusto che sia, apprezza.
Andando avanti si arriva ad "Anime salve", una ballata impervia condita con quelle suggestioni jazz di cui Ivano Fossati avrebbe voluto riempire questo cd, mentre poi, per fortuna, cedette alla voglia di Fabrizio de Andrè di restare fedele alla musica della sua gente, quella che cantava e canterà sempre musiche semplici e tradizionali.
Nel brano si è già avuto un primo lunghissimo intervento di Cristiano de Andrè, che dal vivo cantava le parti che in disco erano affidate al collega di De Andrè in questa avventura, ossia ad Ivano Fossati. Forse il dialogo tra le due voci, data la loro forte somiglianza timbrica, è meno interessante di quanto non avvenga nel disco, ma la lunghea zza estesa di questa melodia fa sì che questo brano sia uno dei più belli sul piano musicale di tutto il repertorio di De Andrè.
Fabrizio de Andrè ha compiuto un excursus veramente notevole tra i vari tipi di solitudine, tema su cui aveva imperniato il bellissimo "Anime salve", dedicato a quelle anime incontaminate dalla nostra superficialità ed arroganza ("questo è quello che penso io,quindi si può benissimo non essere d'accordo"). Il brano con cui si torna a cantare è la bellissima milonga intitolata "Princesa". Il brano è una descrizione di un personaggio "transessuale" e della sua vita dura e difficile, fatta con una tenerezza che fadi De Andrè il miglior poeta che noi italiani abbiamo mai avuto soprattutto sulle tematiche d'emarginazione. Il finale in portoghese brasiliano, che fu il mio primissimo contatto con questa lingua che ora per me è così importante, è ben staccato dal resto ma, nel contempo, dimostra con esso una grandissima coerenza (imparate contaminatori da strapazzo!).
Andando avanti si inizia a rispolverare vecchio repertorio del cantautore genovese, cominciando da questa "Amico fragile". Il brano, pur mantenendo l'impianto fortemente "progressivo" datogli dalla P.F.M nel "Volume VIII", disco dove è presente la prima versione, acquista un'intimità ed una serenità superiore. Gli assoli di chitarra elettrica, pur nel loro vortice, hanno un'aura più classica, anche grazie al fatto che come accompagnamento vi sono prevalentemente strumenti acustici. Ci sono delle curiosissime percussioni latine, che addolciscono l'atmosfera di questo brano che altrimenti è molto allucinata.
La voce di Fabrizio de Andrè è profonda, calma e serena, senza più il bisogno di cantare "come un rockettaro", tendenza che si riscontra nella versione live con la P.F.M. Interessantissimo è il lunghissimo dialogo, che porta il brano verso la fine, tra il sassofono coltraniano di Giancarlo Parisi, la chitarra rock di Giorgio Cordini e il pianoforte delirante di Mark Harris.
Tornando ad "Anime salve", si canta questo canto moderno al pescare, nel mare della vita, composto come una filastrocca popolare. Il brano, intitolato "Le acciughe fanno il pallone", ha una semplicità meravigliosa che, però, nasconde difficoltà molto difficilmente superabili. Ho sempre amato molto questo brano, più dal punto di vista musicale che da quello testuale, soprattutto per i bellissimi assoli di flauto traverso, meraviglioso dialogo tra l'antichità del fiato tellurico e le leggiadre venature "progressive" sicuro apporto fossatiano alla struttura di questa ballata.
Continuando si arriva a "Disamistade", uno dei brani di Fabrizio de Andrè dedicato alla Sardegna, questa terra che ha saputo dargli, forse come nessuna, quel rifugio nella semplicità che forse è stato il suo unico grande anelito. La versione è veramente meravigliosa, senza smagliature. Le parole arrivano come un'eco dolce e perentoria al contempo. Questo brano, secondo me, è una delle più grandi dimostrazioni di come si possa fare canzoni veramente politiche (quindi dure) rimanendo dolci e poetici. E' curiosissimo, dal punto di vista musicale, l'uso del birimbau brasiliano, che suona in maniera tradizionale ma in tutt'altro contesto. La ballata è prevalentemente impostata su un "la minore" ripetuto ed arpeggiato. Quando si sblocca arrivano un "sol maggiore" ed un "fa" che ricordano il flamenco.
Dopo un altro lunghissimo discorso che dimostra come per De Andrè la musica non era uno spasso ma molto di più, il cantautore ci mostra un esempio di quel "concept album", per molti aspetti insuperato tutt'ora, intitolato "La buona novella".
Si ascolta una stupenda versione dell'"Infanzia di Maria", brano dove, con una forza che solo i "Vangeli Apocrifi" possono dare, si denuncia come si sia fatta, già allora, "lotteria" del corpo d'una donna. Il personaggio di Maria, in questa particolare situazione, ha sembianze del tutto simili a certi emarginati che De Andrè cantava in quegli stessi anni, ricorda specialmente "bocca di rosa". Meraviglioso è il finale barocco, seppure eseguito da un clavicembalo sintetico.
Si continua, facendo un salto di circa quindici anni, con una "Creuza de ma" bellissima. L'interpretazione è veramente cantautorale, l'etnico è rivissuto e respira sotto altra forma (ancora: imparate contaminatori da strapazzo!).
Questa lingua non riesce mai a decidersi fra la dolcezza silenziosa e la durezza scorbutica, questo genovese è pura magia sulla bocca di De Andrè.
Il brano, come sempre, si sta chiudendo con il suo inconfondibile finale a vocalizzi.
Continuando a cantare in genovese si arriva a questa "Megu megùn" tratta da "Le nuvole". Sinceramente è uno dei brani che amo di meno del repertorio dialettale di De Andrè e, forse, anche di tutta la sua produzione. Non riesco a sopportare il fatto che sia costruita suun accordo solo (tipo certe pizziche degli Officina Zoè per capirci, che altrettanto non ho mai amato!). E' interessantissimo invece l'uso del genovese quasi ridotto a suono, con tecniche riprese da civiltà extraeuropee.
Tornando a "Creuza de ma", si riprende uno dei gioielli assoluti della produzione deandreiana, quella "Sidùn" dedicata senza pudore ma con molta poesia, ad un genitore che perde il figlio sotto i carri armati israeliani in Libano. Qui il genovese è dolcissimo, ma la dolcezza è tradotta da un uso duro di certe consonanti (siamo ossimorici, la vita è un ossimoro!). Il finale, soprattutto la parte dove si utilizza il vocalizzo polifonico, forse è la parte più deludente perché non arrivano alle orecchie voci convincenti e, soprattutto, non si sente bene il basso profondo (che non si sa neanche se c'è!). Divagando vorrei ricordarvi la bellissima versione in salentino di Sidùn da parte di ninfa giannuzzi.
Direttamente da "Rimini" arriva questa meravigliosa "Avventura a Durango", che erano circa vent'anni che non se ne sentiva una versione dal vivo. Anche qui, questa maggiore coscienza in campo tradizionale acquisita da De Andrè attraverso la collaborazione con Pagani, fa sì che si arrivi ad una rielaborazione sicuramente meno dylaniana ma molto più personale ed italiana. E' interessante, nella tecnica di mandolino, la convivenza tra tremoli italiani ed accordi più ricollegabili al country americano, universo a cui questo brano fa invariabilmente riferimento. Rispetto a "Rimini" è assente l'interessantissima scaletta di violino con due note di "bordone", tutta eseguita sulla terza corda.
Subito dopo si arriva ad una bellissima versione di "Ho visto Nina volare", meravigliosa ballata contenuta in "Anime salve". L'atmosfera ampia ed estesa permette a De Andrè di alternare frasi quasi mangiate ad altre dove la voce acquista un respiro ampio e profondo, quasi di vento lontano.
Si continua con una meravigliosa versione di "Bocca di rosa" dove, finalmente, dico io, la chitarra ha la serenità per lasciarsi andare in una semplicissima ma insostituibile terzina napoletana, ossia con l'accordo spezzato in due tronconi simmetrici ed uguali. Si sente, come in tutto questo concerto, un Fabrizio de Andrè euforico, la cui allegria contagia sempre il pubblico.
Da "Fabrizio de Andrè", album spesso chiamato "L'indiano", arriva "Fiume Sand creek". E' un brano con un ritmo pieno di una primitività profonda, la stessa che si respira nel "finger piking" che accompagna il brano. Tutte le percussioni vietano di distrarsi dall'impetuosa e dolcissima denuncia che De Andrè fa dello sterminio degli indiani d'America e di tutte le minoranze.
Andando avanti, dopo la presentazione dei musicisti e di alcune persone che hanno collaborato dietro le quinte a questo meraviglioso concerto, quando si riprende a cantare si esegue "Geordie", una bellissima ballata che De Andrè ha tradotto dall'inglese. La versione che il cantautore presentava nei suoi ultimi concerti, ritmicamente molto più fedele ad uno spirito di ballata anglosassone rispetto a quella pubblicata negli anni Sessanta, è cantata insieme alla figlia Luvi.
Subito dopo, tornando ad "Anime salve", si esegue questo grido in difesa delle minoranze intitolato "Smisurata preghiera". Secondo affermazioni di Ivano Fossati, curatore della musica, questo brano è un esperimento tra la poesia rabbiosa e dolce di De Andrè e le sue sugestioni musicali che, soprattutto negli anni Novanta, andavano spesso verso il jazz contemporaneo. La versione presentata è veramente meravigliosa e, così come si era detto per "Fiume sand creek", sono le percussioni gli strumenti incaricati di non farci distrarre dal messaggio ossessionante che dà il testo, di cui ci dovremmo ricordare ad ogni nostro minimo respiro: rispetto, rispetto, rispetto!
Si riprende, siamo già ai bis, con "Jamin-a" che, con i fiati di Giancarlo Parisi, è veramente fantastica. Anche qui ritroviamo questo concetto-chiave della musicalità dell'ultimo De Andrè, ossia le percussioni come chiave del brano. La sensualità della protagonista, che si intuisce dall'uso quasi onomatopeico delle consonanti del genovese, viene tradotta da questa famiglia di strumenti che, con la loro presenza, sfidano la batteria a scomparire e farsi qualcosa di "altro" da sé (per fortuna!).
E dopo un fiume di richieste, finalmente De Andrè si decide a fare "Il pescatore". Si esegue, come sempre purtroppo, una versione molto simile a quella con la P.F.M., forse per la sua maggiore compatibilità con un contesto spettacolare e, perché no, di festa. Se volete sapere come la penso io, però, per quanto riguarda questo brano preferisco assolutamente la versione risalente agli inizi degli anni Settanta ed incisa su 45 giri con organico ridotto a sole chitarre.
Continuando si ascolta una scoppiettante Volta la carta" che viene accolta da un pubblico in delirio.
Il concerto si chiude con un'altra sorpresa, ripresa da "Rimini" arriva "Zirighiltaggia". E' una ballata country in sardo gallurese, litigio tra due pastori. Qui Cristiano De Andrè dà un saggio di violino veramente notevole: grande!
E' veramente un concerto unico, tra i migliori di quanti io abbia potuti sentire di De Andrè, peccato che non sia mai stato reso pubblico.
Spero di aver destato curiosità in qualcuno e, perché no, ravvivato ricordi in qualcun altro: viva De Andrè!

lunedì 26 aprile 2010

Un po' di radio strane

Carissimi lettori, oggi torno da voi per darvi un po' di consigli internauti.
Mi occuperò di alcune radio che trasmettono vari generi di musica di cui si parla spesso in questo blog.
Se volete trovare una bellissima radio di Fado portoghese, tra le varie esistenti a Lisbona, consiglio di provare ad ascoltare "Rádio Amália" che, nata per i dieci anni dalla morte della grande Amália Rodrigues, trasmette una amplissima selezione di Fado antico e moderno. E' particolarmente interessante anche per alcuni programmi dal vivo, specialmente il mercoledì tra le sette e le otto di sera ora italiana, ed il sabato notte tra la mezzanotte e l'una (naturalmente io non l'ho mai ascoltata a quell'ora, ma per i nottambuli c'è il privilegio di ascoltare il "Fado vadio", quello spontaneo, che spessissimo è il vero Fado!). Per ascoltare questo canale andare su www.amalia.fm e cliccare su "Rádio online" dalla homepage del sito.
Gli altri consigli, non abbiate paura, riguardano musica italiana.
Nel foltissimo universo di canali dedicati alla grande canzone napoletana, ve ne segnalo due, particolarmente interessanti per la varietà delle loro proposte. Il primo si chiama "Radio Napoli", ed è un canale che fa capo a "Radio Margherita", una superstation nazionale che trasmette da Palermo, che da trent'anni si dedica, tra le altre cose, alla divulgazione della grande canzone napoletana. Il sito della radio è www.radiomargherita.com, per essere immersi nella grande melodia napoletana basta cliccare sul link liver.mnapoli presente in homepage e, se non hanno problemi d'emissione, cosa che ogni tanto succede, partirete per un viaggio da cui sarà difficilissimo voler tornare.
L'altro canale monografico è "Radio Napoli doc" web radio che, come dice l'intervento parlato che ogni tanto si inframmezza alle canzoni, trasmette solo "la vera musica d'autore napoletana". Per ascoltare la radio basta andare su www.radionapolidoc.it. All'apertura del sito si dovrà cliccare su un ulteriore link che riproduce il nome del sito e, dopo averci cliccato ci si aprirà una videata che ci permetterà di scegliere la qualità di audio da noi preferita. Dopo aver fatto questa scelta ed essere andati sul numero 128, se non ci sono problemi di streaming, che qualche volta impediscono il compimento di questo viaggio, si è pronti per un'avventura veramente meravigliosa.
Voglio infine consigliarvi una radio appena scoperta, che in verità è stata quella che mi ha fatto venire voglia di scrivere questo post. E' una piccolissima radio locale che trasmette dal nord Italia (scusate se non sono specifica ma sul loro sito non dànno informazioni). La radio si dedica alla presentazione di canzoni prevalentemente italiane e provenienti da quel periodo d'oro della musica che sono gli anni Sessanta e Settanta. I brani non sono per niente scontati, anzi si incontrano perle rare come questa "E' vero", proveniente dal Sanremo '60, che stiamo ascoltando dalla voce di Mina. La radio si chiama "Radio ascolta" ed è ascoltabile sul suo sito all'indirizzo www.radioascolta.it. All'apertura del sito lo streaming parte automaticamente, ma, se si vuole, andando all'interno del sito, purtroppo con qualche difficoltà proprio in quella parte fondamentale, si ha un'ampia scelta di programmi con cui ascoltarla.
Oltre alle canzoni vi sono alcuni programmi parlati, dove si affrontano temi scottanti oppure, cosa molto più gradevole almeno per me, si intervistano alcuni cantanti anni Sessanta. Gli intermezzi parlati sono brevissimi, come in teatro si facevano nel Cinquecento. E' veramente una radio curiosa e bellissima.
Sperando di avervi fatto piacere, vi saluto e a presto.
Mi piacerebbe poter sapere di un canale che trasmetta musica popolare salentina, unico genere che non posso mettere se non con i miei cd.
Leccesi cari: ci putiti faciti cu sacciu quarche cosa. Ho ascoltato il programma "Bassa musica" trasmesso dalla radio brindisina "Teleradio San Vito di San Vito dei normanni ma, per motivi che non sto qui ad enumerare, non mi ha convinto. Perché non pensate a creare un canale che permetta a tutti i numerosissimi appassionati di questa musica sparsi in Italia e nel mondo di ascoltarla tramite Internet?
Io l'ho buttata là, pensateci!

domenica 25 aprile 2010

Commento alla puntata del 26/04/10 di Canzonenapoletana@rai.it"

Carissimi lettori, ecco che comincia un altro ciclo di "canzonenapoletana@rai.it". Ci si occuperà di Alfonso Mangione, poeta che ha scritto quel classico sfizioso ed amaro intitolato "'A cascia forte".
Si inizia con un brano che, purtroppo, si ascolta tronco poiché nell'archivio sonoro della canzone napoletana, non vi è una versione completa di questa simpaticissima "Primavera deliziosa", che abbiamo ascoltato da un giovanissimo Sergio Bruni.
E si comincia a soffrire, con un bellissimo brano intitolato "'O belvedere", che però viene ascoltato da un settantotto giri ridotto alla frutta. L'interprete è il grande Salvatore Papaccio. Il brano è caratterizzato da quell'allegrezza crepuscolare che è un po' la corda segreta di questa canzone storica napoletana. La musica, scritta abilmente da Umberto Colonnese, è un tipico brano in maggiore che, specialmente nel ritornello, si apre all'uso di accordi di settima e minori, la cui presenza porta con sé un rallentamento di ritmo, che permette al tenore di sfoderare la sua teatralità.
Ed eccoci a questo valzerino lento ed in minore, intitolato "'E bastimente". Nelle mani di Mangione, anche se la drammaticità è presente, anche l'emigrazione diventa leggera. Si può dire che, paradossalmente, la drammaticità è rappresentata da Staffelli, musicista di questi versi, con accordi maggiori. E' veramente un gioiello, una meraviglia, una vera rarità.
Ed andando avanti si trova un brano dedicato a quel rapporto tra barca ed amore, che è una delle tematiche più fertili della canzone napoletana. Il brano, ancora una volta, si divide in due parti, una in minore ed una in maggiore. Abbiamo il piacere di scoprire la voce di un perfetto ed aggraziato tenore chiamato Ciro Formisano, che riesce a dare a questo valzerino contemporaneamente complicato e semplice, una dolcezza veramente unica.
La voce del cantante, anche laddove sfodera le note lunghe e forti, non diventa mai tragica, permettendo di apprezzare e tradurre musicalmente in maniera unica l'atmosfera di questo testo.
Continuando con questo ritmo ternario e con questi brani divisi in una strofa in minore ed un ritornello in maggiore, si trova questa "Canzone 'e mezzanotte", bellissima serenata che abbiamo il piacere di ascoltare dalla voce di Giuseppe Milano. Se dovessi trovare un contraltare a Mangione tra i poeti "maggiori" della canzone napoletana, forse parlerei di Ernesto Murolo che, negli stessi anni, era caratterizzato dalla stessa sete di pittoresco e descrittivo. La particolarità di questo brano, forse, è che il ritorno in minore per ricominciare la strofa, non avviene di colpo dopo la fine del ritornello, ma avviene durante il ritornello stesso.
Andando avanti abbiamo la possibilità di ascoltare questa "Nun se trase", che ci viene cantata da Salvatore Papaccio. E' un brano assolutamente binario, nello stile più tipico del suo compositore, quell'Umberto Colonnese che avevamo già trovato in precedenza e ormai possiamo dire di iniziare a conoscere. Non mancano i rallentamenti, le pause e le raffinatezze, ma l'allegria qui ha tutto il diritto di entrarci nell'anima, anche se preferisco andare cauta poiché non capisco niente del testo, dato che il disco che stiamo ascoltando è ridotto alla frutta.
Ed ecco un altro ritratto di reti, pescatori ed amore, così tipici della canzone napoletana di quegli anni, che non perdeva tempo, nonostante le accuse a cui ha portato alcuni intellettuali chiusi e stereotipi, anzi ha raccontato con poeticità insuperabile le sue figure.
Il brano, intitolato "'A rezza", è stato musicato da Attilio Staffelli nel 1927, è un valzerino lento e romantico, che abbiamo sentito interpretare, con perfezione insuperabile, da Gennaro Pasquariello.
La puntata si chiude con un brano che purtroppo non si può ascoltare, ossia con una versione bellissima di "'A casciaforte", il brano che ha fatto restare Alfonso Mangione nella storia della canzone napoletana. Io vi consiglio di ascoltarvi la versione di Roberto Murolo nella sua "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea" che, forse come nessuna, riesce a far trasparire la profonda amarezza che l'autore mette in questa enumerazione di oggetti ormai antichi e caduti in disuso.
Spero di avervi fatto venire voglia di andare a buttarvi in mezzo a queste rarità, perché la canzone napoletana è una miniera dal potenziale infinito.

Commento alla puntata del 26/04/10 di "canzonenapoletana@rai.it"

venerdì 23 aprile 2010

Francesco Guccini: "Live at R.T.S.I."

Carissimi lettori, oggi ho il piacere di potervi parlare di un album di Francesco Guccini che, nonostante il suo essere stato pubblicato nel 2001, è arrivato alla mia conoscienza solamente adesso.
Mi riferisco ad un concerto registrato negli studi della Radio Televisione della Svizzera Italiana, pubblicato dalla Sony in collaborazione con la Emi, casa discografica che, fin dai suoi inizi, segue il cantautore pavanese.
Il cd è inciso con una chitarra acustica, una chitarra elettrica ed un basso.
Si inizia, come sempre, con una meravigliosa "Canzone per un'amica", interpretata con una rabbia che, contrariamente a quanto succede con altri cantautori come Paolo Conte, non inficia mai la chiarezza ed il corretto posizionamento delle parole. Il brano è veramente riportato alle sue matrici, quelle della ballata americana, che in Guccini riesce ad incontrarsi in maniera insuperabile con quelle della nostra antica canzone narrativa.
Andando avanti si riprende un brano tratto da quel "Metropolis", publicato vent'anni prima, che sarà come un fantasma segreto durante tutto il concerto. Il brano è il classico "Bologna", che veramente acquista una semplicità meravigliosa. E' strano, ma forse non troppo, che il pubblico svizzero non applauda a quel "capace di morte", che Guccini scaglia a ricordarci quella immane strage che, ormai, fa parte dei tanti e troppi misteri irrisolti di questo paese allo sfascio.
L'anima francese che questo brano aveva in "Metropolis", scompare per lasciare spazio ad un incidere più americano, dove con questa parola si vuole intendere una convivenza tra la ballata nordamericana alla bob Dylan e certe suggestioni argentine, altrettanto fondamentali per capire pienamente l'universo di Guccini.
Andando avanti si arriva a quello che, forse, insieme a "Canzone quasi d'amore", è il brano più difficile e virtuosistico della discografia gucciniana. Il brano, il classico "Il vecchio e il bambino", qui non lascia intravedere tutta la tenerezza che il cantautore mette in questo ritratto della convivenza di due generazioni. E' una canzone di una bucolicità non stucchevole o arcadica, ma concreta, tipica di chi la vive e la ritiene l'unica dimensione in cui può vivere e realizzarsi.
Continuando si arriva ad un altro brano che non può mai mancare in un concerto di Guccini, pur latitando completamente dalla discografia da studio del cantautore. Mi riferisco a quell'incrollabile testimonianza di fede in lotta che è "Dio è morto". Questo brano, anche se molto sfruttato da correnti forse troppo diverse, non va assolutamente ridotto all'antimilitarismo sterile che negli anni Sessanta infarciva tanti forse troppi artisti. E' uno dei pochi brani che affrontano sinceramente questa tematica, con rabbia vera e non ipocrisia.
Proseguendo si trova l'unica versione live che io ricordi di quella che per me è, da sempre, la mia canzone preferita di tutto il repertorio gucciniano, ossia "Canzone di notte n. 2". Ciò che ho sempre amato di questo brano è la sua difesa della libertà che, come ci dimostra il nostro premier, non è assolutamente un valore di moda. Non so perché ma è un fatto, il pensiero fa sempre paura, perfino in regimi democratici.
L'interpretazione di Guccini, forse aiutata dalla chitarra elettrica che suona distorta, si tinge di una rabbia che la potrebbe avvicinare all'intimità dell'ultimo repertorio di un grande cantautore e frequentatore di osterie, ossia il bolognese Claudio Lolli.
Continuando si arriva ad un classico del primissimo repertorio di Guccini, quella "Auschwitz che denuncia l'inutilità di tutti gli olocausti ed ecatombi che la storia possa e debba ricordare. Anche qui, come quasi sempre, Guccini riesce a dare all'argomento, che sennò potrebbe prestarsi a brani ubriachi di retorica, un'intimità umana che fa sì che questo brano sia rimasto per quarantacinque anni attuale e fresco.
Anche qui, forse non è troppo ricordarlo, si utilizza, come in quasi tutto il repertorio gucciniano, lo schema della ballata, assolutamente priva di ritornello. Il grido di rabbia ed orrore è esteso, dilatato, disperato, eterno.
E si ritorna a "Metropolis" con il brano di apertura, quella "Bisanzio" che, forse per la sua struttura esageratamente intellettualistica, non mi ha mai finito di convincere.
Questa canzone è una ballata storica sul declino di Bisanzio e sulla sua storia, vista dal punto di vista di Filemazio, grande medico ed astrologo bizzantino.
Si può dire, per descrivere un po' il brano a livello strutturale, che è un ritorno da parte di Guccini, dopo la fortunata interruzione di "Via Paolo Fabbri 43", "Amerigo" e l'"Album concerto" con i Nomadi, al rock progressivo o comunque ad un concetto di ballata popolare progressiva. Infatti, forse non tutti gli ammiratori del cantautore avranno notato, che tra il 1971 ed il 1981, il pavanese tentò di mettere l'estensione notevole dei brani progressivi al servizio dei suoi testi che, in maniera naturale guardavano ad un altro uso della stessa struttura.
Un esempio di questo particolare periodo è l'album "Radici", uno dei dischi a cui sono più legata, anche se non ho mai potuto sopportare gli arrangiamenti che, spesso e volentieri, appesantivano i brani di particolari inutili. Questo è uno degli lp che ascoltavo da piccola con mio zio, da un vecchio e abbastanza mal ridotto vinile, da cui Guccini in questa occasione, per la prima volta che io ricordi, riprende questa bellissima anche se incompresa da molti "Canzone dei dodici mesi". E' un brano dove su una struttura di filastrocca popolare, si innestano riflessioni filosofiche e letterarie che, per la loro semplicità e poesia, mettono la'scoltatore nella condizione di dover riflettere sulla sua vita.
L'interpretazione qui è leggermente rabbiosa e forse anche un pochino ripetitiva, cosiccome è un po' povero tutto lo strumentario di questo disco.
Direttamente da "L'isola non trovata", album del 1971 che io non ho mai amato, viene questa "Un altro giorno è andato". In questo caso, rispetto alla versione classica ed insuperabile di "Fra la Via Emilia e il West", si ritorna molto di più verso un'atmosfera di ballata americana, che lì era stemperata verso il swing, anche grazie al sassofono contralto rabbioso di Antonio Marangolo.
Il concerto, come tutte le esibizioni di Guccini ad eccezione dell'album "Quasi come Dumas" dedicato monograficamente al repertorio di Guccini annni Sessanta, , si chiude con "La locomotiva". Il brano, lanciato nel disco "Radici", è un omaggio al canzoniere anarchico dell'Ottocento, specialmente ad un bellissimo "Inno della rivolta". Il brano di Guccini, forse, è il più grande esempio moderno di concreta immedesimazione in un qualsiasi stile. Questa sua eccessiva retorica, che come abbiamo visto è fortemente estranea allo stile "normale" di Guccini, non è stata ben capita neanche da certa sinistra, che forse non ha la sufficiente cultura né apertura mentale. La versione chitarra e voce, forse, rende questa esibizione insuperabile, anche se è imperfetta a livello di testo.
E' un disco che consiglio a tutti i veri amatori di Guccini, anche se non direi che sia fondamentale quando si tratta di avere un primo approccio con il cantautore. Per quello, non è mai troppo ripeterlo, non c'è niente come "Fra la Via Emilia e il West".

Francesco Guccini: "Live at RTSI)

A característica comum de todos estes fados “clássicos”, independentementeda sua data de composição mais remota ou mais recente, é o facto deà mesma música se poderem adaptar novos textos baseados numa mesma métrica.Assim, até meados do século XX é frequente que cada fadista tenha o seupróprio repertório poético exclusivo, mesmo que adaptado a melodias de circulaçãocorrente.(NERY, 2010: 68-69)

mercoledì 21 aprile 2010

Attenzione: altri video!

Carissimi lettori, questa sera scrivo per dirvi che ho postato altri due video su youtube.
Il primo è un collage di foto d'epoca che si incastonano in un bellissimo, sconosciuto e sfizioso brano di Salvatore di Giacomo intitolato "Tiritì tiritommolà" interpretato da Roberto Murolo. Ho voluto fare un omaggio al sommo poeta napoletano nel centocinquantenario della sua nascita, avvenuta, come la nostra unificazione nazionale, nel 1860.
Il brano che ho scelto ha una storia un po' particolare. Quando otto anni fa andai a cantare a Siano, in provincia di Salerno, avevo appena letto l'edizione di "Tutte le poesie" di Salvatore di Giacomo. Io sono abituata a fare omaggi al pubblico, quando il concerto che devo fare, per un motivo o per un altro, mi dice qualcosa di più rispetto a qualsiasi altro. Il concerto che feci a Siano era particolarissimo, in quanto andavo a fare canzoni classiche napoletane, repertorio con cui avrete capito che ho una relazione del tutto particolare, in una zona comunque culturalmente vicina alla bella Partenope.
Volli musicare una poesia di Salvatore di Giacomo, e fui folgorata da questa "Tiritì tiritommolà". Mi ricordo anche di estenuanti ricerche negli archivi della S.I.A.E, che però non dettero alcun frutto, riguardanti la presenza di questa poesia tra quelle musicate.
Quando comprai il cd "Roberto Murolo canta i grandi della canzone napoletana", mi commossi moltissimo quando sentii questa melodia raffinata ma spassosissima che ascolterete anche voi se passerete sul mio canale. La mia era più popolaresca, non aveva i passaggi in minore, ma era una tarantelluccia composta sul modello di altri brani digiacomiani, avevo pensato soprattutto ad "Oilì, oilà", canzone che ha sempre riscosso grandissime preferenze da parte mia.
L'altro video che ho postato riguarda il Salento e la formazione storica del Canzoniere Grecanico Salentino. A questo gruppo, fondato dalla ricercatrice Rina Durante a cui ha anche partecipato Luigi Chiriatti per un breve periodo, va riconosciuto il merito di aver inciso il primo vinile di "riproposta" di musica popolare salentina. Tratta da questo disco, che io possiedo in una masterizzazione casareccia ma buona ottenuta da vinile, ho deciso di farvi ascoltare "Munti munti", brano che, almeno in questa versione, ho sentito solo a questo gruppo.
Sperando di avervi fatto piacere, come so di aver fatto con i precedenti due contributi, vi saluto augurandovi buona visione ma soprattutto buon ascolto.
Forse è meglio ricordare, perché è ancora nuovo, che il mio canale è visibile all'indirizzo www.youtube.com/valentinalocchi.

lunedì 19 aprile 2010

Una riflessione breve.

Carissimi lettori, c'è un atteggiamento che mi fa sempre arrabbiare, ed è quello che tende a dimenticare che noi, fino ad una trentina di anni fa, eravamo emigranti poveri. Ovviamente, come potrebbe essere altrimenti, i signori che spesso si vantano di pensarla così e addirittura lo cantano in canzoni a dir poco discutibili, sono rigorosamente contro i clandestini che, secondo loro, deturperebbero, solo per il fatto di venire a cercar fortuna da noi e fuggire da situazioni terribili, la nostra dorata e meravigliosa identità (che secondo me neanche esiste!).
Se si vuole mettere l'accento sulla vergognosa tratta di schiavi che portano avanti organizzazioni criminali efferatissime che fanno partire queste persone riempiendo loro la testa d'illusioni, ovviamente sono contro questo sfruttamento di persone. Non credo, però, che ci sia effettivamente voglia di aiutare i paesi poveri a svilupparsi, anzi c'è voglia di lasciarli come stanno per avere una giustificazione al nostro razzismo da gente che ce l'ha fatta (molto per le rimesse degli emigranti che per circa settant'anni hanno lasciato l'Italia e, in qualche caso, ancora la lasciano!).
Questa riflessione corta io l'ho voluta condensare in un video che oggi ho postato su youtube.
Se vi va, andando sul mio canale www.youtube.com/valentinalocchi, potete vedervi questo video forte e poetico, dove metto insieme, in perfetta proporzione le immagini storiche di noi che partivamo e spesso eravamo maltrattati, con ciò che noi stessi facciamo a chi ora viene. Il brano che c'è in sottofondo è un bellissimo e conosciuto brano tradizionale salentino che gli Officina Zoè interpretano come nessuno, ossia "L'America" da "Sangue vivo".
Sperando di avervi fatto cosa gradita, vi saluto.

domenica 18 aprile 2010

Commento alla puntata del 18/04/10 di "canzonenapoletana@rai.it

Carissimi lettori, eccoci al nostro ormai consolidato appuntamento domenicale con la canzone napoletana. Si parlerà dell'ultima puntata che Paquito del Bosco, direttore dell'Archivio storico della canzone napoletana e grande esperto della materia, dedica a Salvatore di Giacomo.
Il primo brano che si ascolta è binario e veloce e si intitola "Cara mammà". E' un brano dove un soldato di origini napoletane ricorda la sua città dove non è nato ma a cui è legato da sua madre. Musicalmente è pittoresco, anche il testo, nonostante quella tristezza tipica delle tematiche affrontate, non è per niente patetico. Il suono del dialetto napoletano fa semplicemente e immancabilmente volare.
Continuando si ascolta un'altra grande voce di quegli anni (la canzone precedente era cantata da Ria Rosa), ossia Ada Bruges che interpreta "Mierolo affortunato", versi di Di Giacomo musicati, con particolare fortuna, da E. A. Mario. Non c'è niente di teatrale nel canto di questo agilissimo soprano, ci sono solo belllissime fioriture che veramente fanno pensare ad un uccello che canta su un albero. L'unica cosa che si può dire, magari, è che la parola "s'annasconne" non è pronunciata con l'importanza che ha nel testo, ma è un'opinione personale. Se si vogliono sentire versioni moderne di questa canzone, non c'è che l'imbarazzo della scelta, secondo me le migliori sono quelle di Roberto Murolo nella "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea" e di Sergio Bruni.
Andando avanti si ascolta questa "Canzona 'mbriaca", con la musica di E. A. Mario. L'interpretazione che si ascolta è di Mario Pasqualillo. Il brano, che avevamo sentito la scorsa settimana con una melodia quasi sicuramente modale creata da Ildebrando Pizzetti, ora lo troviamo cme un semplicissimo valzer lento che si alterna tra parti minori ed altre in maggiore. La versione di Pasqualillo è veramente notevole, ma io vi consiglio di scoprire quella di Enzo Romagnoli, che secondo me è il miglior interprete che la canzone sceneggiata napoletana ha mai conosciuto.
Sempre sullo stesso ritmo troviamo questa "Dimane chi sa?", che ascoltiamo in un'incisione di Francesco Daddi, quasi sicuramente risalente all'inizio del Novecento, non a caso è quasi inascoltabile. Fortunatamente, questo valzerino lento e semplicemente filosofico, lo si può sentire in una bellissima versione di Roberto Murolo nel suo cofanetto "Roberto Murolo canta i grandi della canzone napoletana", di cui qui, a suo tempo, si è ampiamente parlato.
Dopo la morte di Di Giacomo, anche i suoi versi che non avevano avuto musica in vita del poeta, l'hanno avuta per mano di grandi musicisti. Ora, dalla voce di Alfredo Iandoli, stiamo ascoltando questa canzone di cui non ho capito il titolo. La melodia è abbastanza triste, anche se Di Giacomo nel testo ha indicato il ritmo di tarantella, per il quale aveva una predilezione del tutto personale.
L'interpretazione è veramente piacevole, ed è eseguita rispettando molti stilemi delle canzoni classiche del repertorio digiacomiano.
E torniamo ad E. A. Mario, che è stato il musicista che, forse, più di ogni altro ha tenuto a dare vita musicale ai versi di Di Giacomo nella sua ultima stagione e dopo la sua morte.
E' del 1946 questa sfiziosissima e perfetta "Mierolo appretatore", dove c'è un uomo rassegnato al fatto di essere stato lasciato dalla sua innamorata, che sfoga la sua allegria mista a tristezza con un merlo. L'interpretazione che ascoltiamo è di Ferdinando Rubino, notevole tenore degli anni Venti, Trenta e Quaranta.
la puntata si chiude con una canzone, musicata sempre da E. A. Mario e presentata sempre alla Piedigrotta del 1946, intitolata "Zingara 'nnammurata" interpretata da Eva nova.
E' caratterizzata da due parti abbastanza chiare, una più lenta, paragonabile a certo repertorio di Di Giacomo di ispirazione religiosa come "A San Francisco", ed un'altra più veloce e spassosa che però è molto breve, quindi non permette alla sensazione di entrarci nell'anima.
Il testo, purtroppo, lo capisco pochissimo, quindi non ne posso parlare.
Spero che vi sia piaciuto, purtroppo si continua ancora con autori storici, ma speriamo che i dischi saranno in condizioni migliori.

sabato 17 aprile 2010

La tradizionale pizzica di San Vito

Carissimi lettori, questa volta torno da voi per dirvi che nel mio canale di youtube all'indirizzo www.youtube.com/valentinalocchi, c'è un video da me caricato.
E' una Pizzica di San Vito dei Normanni in versione tradizionale, esattamente in quella incisa da Fernando Giannini nel suo "Tre violini inediti del tarantismo", nell'esecuzione di "Mestu" Vincenzino Vita al mandolino. Le immagini che si vedono sono prese da vari siti Internet e sono spesso di repertorio. Ritraggono varie figure dell'antico Salento. Il mio sogno era metterci delle immagini che riguardavano il tarantismo d'acqua, ma non ne ho trovate. Spero che vi piaccia, sarà solo il primo di una lunga serie di miei contributi, che permetteranno di poter ascoltare canzoni che amo corredate da immagini che spero riterrete belle. Intanto buona visione di questa "tradizionale pizzica di San Vito".
http://www.youtube.com/watch?v=v7Ah1WVhjJs

mercoledì 14 aprile 2010

Attenzione: sono anche su Youtube

Carissimi lettori, scusate se torno già da voi, ma voglio dirvi una cosa a cui tengo abbastanza.
Mi sono iscritta a Youtube, e anche lì potete trovare varie cose che amo.
Non ho fatto una playlist, ho messo alcune cose, per ora ho fatto il Salento, come preferite.
Troverete varie esibizioni degli Zoè, qualche scena tratta da quel capolavoro assoluto di Winspeare che è "Pizzicata", ed alcuni brani di musicisti a cui io sono legata, magari solo per essermeli visti in concerto o averli intervistati.
Mi auguro che vi piaccia, spero di poter iniziare a dare qualcosa anche lì, magari sarebbe bello pubblicare l'audio delle interviste che faccio direttamente senza starle più a sbobinare. Non è che non mi piaccia fare questo lavoro, ma credo che non c'è niente di meglio che sentire la gente che parla.
Se vi va di trovare ciò che ho ritenuto giusto mettere nel mio canale, potete andare su www.youtube.com/valentinalocchi.
Se vi andasse di farvi vivi, vi consiglio di mandarmi un'email, dato che ho messo nel profilo in modo visibile, infatti per me Youtube, come tutti i siti di video e immagini, è un campo minato.
Ho fatto questa scelta per poter condividere le mie passioni anche in un altro modo, oltreché per far vedere a qualcuno veri gioielli che ho trovato in quel sito.
Tutti i video da me scelti, tranne qualche eccezione che comunque si mantiene sempre su un livello accettabile, sono di buonissima qualità (parlo di audio, ovviamente!).
Spero che vi piaccia questo regalo che mi sono voluta e vi ho voluto fare, a presto!

Attenzione: sono anche su youtube!

Carissimi lettori, ultimamente, come sapete, la musica italiana è stata funestata da tantissimi lutti, ma purtroppo non è assolutamente finita.
L'altroieri notte, a Milano, si è spento il grande Carlo Alberto Rossi, autore di molti dei classici della canzone italiana, spessissimo catalogabili in quel limite inesplorato dove io amo muovermi.
Non mi va di raccontarvi la sua vita, che è stata molto lunga ed intensa, tengo molto di più, aiutata da una lista di sue canzoni, a parlarvi di qualche brano da lui scritto per farvi ricordare questo grande autore.
Si inizia con un brano risalente al 1946 intitolato "Conosci mia cugina", lanciato in quell'anno da Ernesto Bonino e Natalino Otto, due tra i più notevoli cantanti di jazz italiano (nel senso di jazz all'italiana, non di jazz fatto in Italia!).
E' veramente un gioco con queste parole americane che, dopo il giogo utarchico del fascismo, che comunque aveva bene o male posticipato l'imbarbarimento della nostra lingua che ora accoglie parole straniere anche quando non servono, arrivavano finalmente libere. Musicalmente è un swing meraviglioso, che è stato anche ripreso da Renzo Arbore nel suo "Tonite Renzo swing".
Carlo Alberto Rossi, come molti autori in quegli anni, non ha disdegnato neanche le collaborazioni in un altro ambito a noi molto caro, ossia la canzone napoletana. E' del 1951 "Eco tra gli alberi", con testo del grande Enzo Bonagura, che in quel periodo portava a Napoli alcuni dei suoi ultimi grandi capolavori ("Sciummo" ed altri brani del repertorio del Festival di Napoli).
Un altro classico napoletano, in lingua partenopea emolto più noto del precedente, è "'Na voce, 'na chitarra e 'o poco 'e luna", interpretato tra gli altri anche da Roberto Murolo, ma composto in collaborazione con un altro grande chitarrista partenopeo, Ugo Calise. In questo brano, forse più che in "Conosci mia cugina", è riscontrabile una vera volontà di far combaciare la bellissima e corposa melodicità del nostro canto con le raffinate sonorità del jazz americano. Da questo punto di vista, la versione di Murolo, cantante caratterizzato da questa doppia formazione, è veramente esemplare. La si reperisce nella sua bellissima, e qui ripetutamente citata, "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea", edita originariamente dalla Durim tra il 1959 ed il 1963, ma ora facilmente reperibile in cd, in varie edizioni di varia qualità e valore.
Dalla collaborazione con Ugo Calise, l'anno dopo scaturisce una delle più belle canzoni d'amore che la musica napoletana abbia mai conosciuto, intitolata "Me so' 'mbriacato 'e sole", altro esempio mirabile di swing con la melodicità napoletana più che rispettata. Va detto, infatti, che il dialetto napoletano (in verità è una lingua a cui manca un più che meritato riconoscimento statale, ma questa è un'altra storia!), con le sue sonorità dolci e segretamente scure, è veramente adatto a farsi trasportare verso queste atmosfere. Il brano, su cui forse vale la pena di fermarsi, in verità è composto da due parti, corrispondenti millimetricamente alla divisione tra strofa e ritornello. Le strofe, che potrebbero ricordare alcuni brani del repertorio di Salvatore Di Giacomo soprattutto per la presenza dell'intervallo di seconda aumentata che rende "mista" la struttura minore della frase melodica, non hanno spesso un ritmo definito, anche se, con molta approssimazione, potrebbero essere considerate degli accenni di "habanera". Il ritornello, che va invece verso uno schietto modo maggiore, è un bellissimo esempio di jazz ballad, cosiccome lo era "'Na voce, 'na chitarra e 'o poco 'e luna". Anche qui, non poteva essere altrimenti, si consiglia l'ascolto della versione di Roberto Murolo.
Del 1958, frutto della collaborazione con Alberto Testa, è una canzone, non molto conosciuta, lanciata da Fred Buscaglione (cantante di cui tra l'altro quest'anno ricorre il cinquantesimo anniversario della morte). Il brano, pur non essendo propriamente un brano melodico, come possiamo considerare "Love in Portofino" (un altro dei classici del grande torinese) non è nemmeno un swing come molte "Kriminal songs" ("Eri piccola", "Che notte", "Teresa non sparare" ecc). E' veramente curiosa e, soprattutto, è uno dei brani che porta più fortuna tra quelli che mi è dato di conoscere. (Il brano si intitola "Al chiar di luna, porto fortuna").
Dell'anno successivo è da segnalare un altro capolavoro in lingua napoletana, ancora una volta scritto con Ugo Calise. Il brano, intitolato "Nun è peccato", è una delle poche gemme che possiamo trovare nel repertorio di Peppino Di Capri. La versione più nota è quella terzinata, che poi è l'originale, ma è notevole anche quella di Fausto Cigliano, in un'epoca in cui ancora costui non aveva preso la decisione di essere solamente chitarrista. Il brano viene interpretato con un'orchestra da night e a tempo di "bolero cubano", ed è interpretata dal cantante con una sensibilità di "crooner" veramente sopraffina.
Gli anni Sessanta iniziano con uno scoppiettante twist lanciato da Joe Sentieri, cantante noto perché concludeva tutte le sue esibizioni con un "saltino", che rappresentava solo la sua gioia ogni volta che concludeva un'esibizione di musica leggera, repertorio con cui, in fondo, per sua stessa ammissione, non si è mai identificato. Il brano, lanciato al Festival di Sanremo 1960, in cui il cantante interpretava anche "E' mezzanotte" insieme a Sergio Bruni, è stato anche interpretato da Renzo Arbore nella trasmissione "Quelli della notte", ma ho sempre trovato la versione deludente e volgare. Ovviamente ci si riferisce a "Quando vien la sera".
L'anno dopo, sempre al Festival di Sanremo, Rossi presenta "Le mille bolle blu", brano che gioca, grazie anche al fantastico e geniale testo di Vito Pallavicini, con la bravura interpretativa di una Mina strepitosa. Particolarmente curioso, secondo me, è l'inciso che fa da introduzione e frase divisoria tra le varie parti del brano, dove si immaginano delle bolle di sapone che "volano nel cielo".
Nel 1964, con la collaborazione di Giorgio Calabrese, paroliere che già aveva scritto capolavori come "Il nostro concerto" su musica di Umberto Bindi che lo aveva lanciato nel 1959, compone "E se domani", una delle tante canzoni ingiustamente ignorate dal pubblico del Festival di Sanremo, che poi, nella versione di Mina, diventa un classico universale della canzone d'autore italiana. Va detto, a parziale giustificazione del verdetto della giuria sanremese, che gli arrangiamenti delle versioni che si sentirono all'Ariston, da parte di Gene Pitney e Fausto Cigliano, sono abbastanza deludenti. La versione di Mina, brillante esempio di swing all'italiana, con un'importante sezione di archi, è perfetta. La cantante, sempre portata a spogliare in maniera spesso esagerata i propri brani, soprattutto da una trentina d'anni a questa parte, ne ha dato una versione piano e voce che però non consiglio.
Del 1966 è questa "Se tu non fossi qui", un'altra canzone che, dopo essere stata ignorata al Festival di Sanremo, divenne un classico nella voce di Mina. La versione della cantante di Cremona è perfetta, le originali non me le ricordo. Non mi trattengo sulla rielaborazione di questo brano, perché le osservazioni fatte per "E se domani" le si possono applicare quasi alla lettera.
Spero che vi sia piaciuto questo excursus nella carriera del grande autore, se volete approfondire niente di meglio che la "E se domani collection", triplo cd curato dal figlio, che contiene settantotto canzoni scritte da Carlo Alberto Rossi ed interpretate dai più grandi cantanti italiani ed internazionali.

E ti ricordo ancora" ( Carlo Alberto Rssi)

Carissimi lettori, ultimamente, come sapete, la musica italiana è stata funestata da tantissimi lutti, ma purtroppo non è assolutamente finita.
L'altroieri notte, a Milano, si è spento il grande Carlo Alberto Rossi, autore di molti dei classici della canzone italiana, spessissimo catalogabili in quel limite inesplorato dove io amo muovermi.
Non mi va di raccontarvi la sua vita, che è stata molto lunga ed intensa, tengo molto di più, aiutata da una lista di sue canzoni, a parlarvi di qualche brano da lui scritto per farvi ricordare questo grande autore.
Si inizia con un brano risalente al 1946 intitolato "Conosci mia cugina", lanciato in quell'anno da Ernesto Bonino e Natalino Otto, due tra i più notevoli cantanti di jazz italiano (nel senso di jazz all'italiana, non di jazz fatto in Italia!).
E' veramente un gioco con queste parole americane che, dopo il giogo utarchico del fascismo, che comunque aveva bene o male posticipato l'imbarbarimento della nostra lingua che ora accoglie parole straniere anche quando non servono, arrivavano finalmente libere. Musicalmente è un swing meraviglioso, che è stato anche ripreso da Renzo Arbore nel suo "Tonite Renzo swing".
Carlo Alberto Rossi, come molti autori in quegli anni, non ha disdegnato neanche le collaborazioni in un altro ambito a noi molto caro, ossia la canzone napoletana. E' del 1951 "Eco tra gli alberi", con testo del grande Enzo Bonagura, che in quel periodo portava a Napoli alcuni dei suoi ultimi grandi capolavori ("Sciummo" ed altri brani del repertorio del Festival di Napoli).
Un altro classico napoletano, in lingua partenopea emolto più noto del precedente, è "'Na voce, 'na chitarra e 'o poco 'e luna", interpretato tra gli altri anche da Roberto Murolo, ma composto in collaborazione con un altro grande chitarrista partenopeo, Ugo Calise. In questo brano, forse più che in "Conosci mia cugina", è riscontrabile una vera volontà di far combaciare la bellissima e corposa melodicità del nostro canto con le raffinate sonorità del jazz americano. Da questo punto di vista, la versione di Murolo, cantante caratterizzato da questa doppia formazione, è veramente esemplare. La si reperisce nella sua bellissima, e qui ripetutamente citata, "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea", edita originariamente dalla Durim tra il 1959 ed il 1963, ma ora facilmente reperibile in cd, in varie edizioni di varia qualità e valore.
Dalla collaborazione con Ugo Calise, l'anno dopo scaturisce una delle più belle canzoni d'amore che la musica napoletana abbia mai conosciuto, intitolata "Me so' 'mbriacato 'e sole", altro esempio mirabile di swing con la melodicità napoletana più che rispettata. Va detto, infatti, che il dialetto napoletano (in verità è una lingua a cui manca un più che meritato riconoscimento statale, ma questa è un'altra storia!), con le sue sonorità dolci e segretamente scure, è veramente adatto a farsi trasportare verso queste atmosfere. Il brano, su cui forse vale la pena di fermarsi, in verità è composto da due parti, corrispondenti millimetricamente alla divisione tra strofa e ritornello. Le strofe, che potrebbero ricordare alcuni brani del repertorio di Salvatore Di Giacomo soprattutto per la presenza dell'intervallo di seconda aumentata che rende "mista" la struttura minore della frase melodica, non hanno spesso un ritmo definito, anche se, con molta approssimazione, potrebbero essere considerate degli accenni di "habanera". Il ritornello, che va invece verso uno schietto modo maggiore, è un bellissimo esempio di jazz ballad, cosiccome lo era "'Na voce, 'na chitarra e 'o poco 'e luna". Anche qui, non poteva essere altrimenti, si consiglia l'ascolto della versione di Roberto Murolo.
Del 1958, frutto della collaborazione con Alberto Testa, è una canzone, non molto conosciuta, lanciata da Fred Buscaglione (cantante di cui tra l'altro quest'anno ricorre il cinquantesimo anniversario della morte). Il brano, pur non essendo propriamente un brano melodico, come possiamo considerare "Love in Portofino" (un altro dei classici del grande torinese) non è nemmeno un swing come molte "Kriminal songs" ("Eri piccola", "Che notte", "Teresa non sparare" ecc). E' veramente curiosa e, soprattutto, è uno dei brani che porta più fortuna tra quelli che mi è dato di conoscere. (Il brano si intitola "Al chiar di luna, porto fortuna").
Dell'anno successivo è da segnalare un altro capolavoro in lingua napoletana, ancora una volta scritto con Ugo Calise. Il brano, intitolato "Nun è peccato", è una delle poche gemme che possiamo trovare nel repertorio di Peppino Di Capri. La versione più nota è quella terzinata, che poi è l'originale, ma è notevole anche quella di Fausto Cigliano, in un'epoca in cui ancora costui non aveva preso la decisione di essere solamente chitarrista. Il brano viene interpretato con un'orchestra da night e a tempo di "bolero cubano", ed è interpretata dal cantante con una sensibilità di "crooner" veramente sopraffina.
Gli anni Sessanta iniziano con uno scoppiettante twist lanciato da Joe Sentieri, cantante noto perché concludeva tutte le sue esibizioni con un "saltino", che rappresentava solo la sua gioia ogni volta che concludeva un'esibizione di musica leggera, repertorio con cui, in fondo, per sua stessa ammissione, non si è mai identificato. Il brano, lanciato al Festival di Sanremo 1960, in cui il cantante interpretava anche "E' mezzanotte" insieme a Sergio Bruni, è stato anche interpretato da Renzo Arbore nella trasmissione "Quelli della notte", ma ho sempre trovato la versione deludente e volgare. Ovviamente ci si riferisce a "Quando vien la sera".
L'anno dopo, sempre al Festival di Sanremo, Rossi presenta "Le mille bolle blu", brano che gioca, grazie anche al fantastico e geniale testo di Vito Pallavicini, con la bravura interpretativa di una Mina strepitosa. Particolarmente curioso, secondo me, è l'inciso che fa da introduzione e frase divisoria tra le varie parti del brano, dove si immaginano delle bolle di sapone che "volano nel cielo".
Nel 1964, con la collaborazione di Giorgio Calabrese, paroliere che già aveva scritto capolavori come "Il nostro concerto" su musica di Umberto Bindi che lo aveva lanciato nel 1959, compone "E se domani", una delle tante canzoni ingiustamente ignorate dal pubblico del Festival di Sanremo, che poi, nella versione di Mina, diventa un classico universale della canzone d'autore italiana. Va detto, a parziale giustificazione del verdetto della giuria sanremese, che gli arrangiamenti delle versioni che si sentirono all'Ariston, da parte di Gene Pitney e Fausto Cigliano, sono abbastanza deludenti. La versione di Mina, brillante esempio di swing all'italiana, con un'importante sezione di archi, è perfetta. La cantante, sempre portata a spogliare in maniera spesso esagerata i propri brani, soprattutto da una trentina d'anni a questa parte, ne ha dato una versione piano e voce che però non consiglio.
Del 1966 è questa "Se tu non fossi qui", un'altra canzone che, dopo essere stata ignorata al Festival di Sanremo, divenne un classico nella voce di Mina. La versione della cantante di Cremona è perfetta, le originali non me le ricordo. Non mi trattengo sulla rielaborazione di questo brano, perché le osservazioni fatte per "E se domani" le si possono applicare quasi alla lettera.
Spero che vi sia piaciuto questo excursus nella carriera del grande autore, se volete approfondire niente di meglio che la "E se domani collection", triplo cd curato dal figlio, che contiene settantotto canzoni scritte da Carlo Alberto Rossi ed interpretate dai più grandi cantanti italiani ed internazionali.

domenica 11 aprile 2010

Commento alla puntata del 11/04/10 di canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, eccoci al commento alla sesta puntata che "canzonenapoletana@rai.it" dedica a Salvatore di Giacomo. Si inizia con una romanza, composta da Ildebrando Pizzetti, su un testo intitolato "Canzona 'mbriaca". E' abbastanza contemporanea, e, almeno secondo me, non è molto rispettosa delle armonie insite nella versificazione di Di Giacomo. Se si vuole parlare del testo, che stiamo ascoltando dalla voce di Francesco Albanese, è una tipica canzone di gelosia, paragonabile a ciò che molto più spesso faceva Libero Bovio in brani come "Brinneso". La melodia è completamente modale, ma non con la naturalezza con cui lo è certa musica popolare del Sud Italia, ma con quella radicalità innovatrice che ad inizio secolo, a partire da musicisti dell'est Europa, questo uso musicale ha assunto.
Sullo stesso stile arriva questa "Assunta", sempre musicata da Pizzetti. E' una bellissima poesia, perché, e va detto, Di Giacomo è stato un grandissimo poeta fino alla fine dei suoi giorni.
E' un po' pesante questo repertorio, d'altronde io non ho mai amato la musica classica del Novecento. Per me, lo confesso dato che mi è data l'occasione, la musica classica finisce con l'Ottocento e con il romanticismo, apro delle eccezioni per alcune opere di compositori come Ravel, Bartok o Foret (spero si scriva così!).
Finalmente si comincia a sentire veramente "canzone classica napoletana", con una bellissima e sconosciuta "Torna a marechiaro", che ascoltiamo dalla voce potente e discreta di Gino Ruggero. E' un brano con la musica di E. A. Mario, un musicista che è stato forse l'ultimo grande compagno della carriera musicale di Di Giacomo. Il brano è un tipico esempio di brano con alternanza di strofe minori e ritornelli in maggiore.
Si va avanti con un altro sconosciuto gioiello della produzione di Di Giacomo, dal titolo "Aurora int'o specchio". La sua musica, a tempo di valzer dolce ed allegro, è di Gaetano Spagnolo. Gli accordi minori, questa volta, si insinuano giusto per dare un tocco di raffinatezza ad una melodia che,altrimenti, è semplicemente festosa, come il sincero amore del protagonista. Il testo, infatti, è una delle tante serenate napoletane scritte da Di Giacomo. La stiamo ascoltando da un disco d'epoca ma non frusciatissimo, dalla voce di Vittorio Parisi.
Dello stesso anno è questa "L''ora 'e ll'appuntamento", versi musicati da Ferdinando Albano, musicista che negli stessi anni formava con Bovio una delle più prolifiche coppie della canzone napoletana, specialmente dedicata alle "canzoni di giacca" o sceneggiate. Il brano è difficile da descrivere perché, contrariamente a ciò che avevamo ascoltato fino ad ora, il disco di Vittorio Parisi da cui si ascolta il brano, è assolutamente rovinato.
La puntata, costellata di rarità, si chiude con un altro brano sconosciuto intitolato "Zingara nera". La musica è di E' A. Mario, e già vi si riconoscono le pennellate armoniche che già si trovano in brani, coevi o leggermente precedenti, come "I', 'na chitarra 'e 'a luna" o "Funtana all'ombra". La dolcezza della melodia si sposa con il timbro perfetto ed alto di Raffaele Balsamo, per creare una delle più perfette alchimie tra musica e testo che io conosca.
Spero che vi sia piaciuto questo commento, con la prossima si chiude il ciclo di Di Giacomo, e mi voglio augurare che si tratti poi un poeta almeno dagli anni Trenta in avanti (di dischi frusciati non ne posso più!).

giovedì 8 aprile 2010

Notte

Carissimi lettori, oggi vi regalo uno "sfogo" in lingua salentina. Si intitola "Notte" ed è caratterizzato da un'interiorità raccontata in maniera un po' visionaria. E' un dialogo con la notte, il cui silenzio mi ha sempre attratto molto anche se mi ha sempre dato una grandissima sensazione di paura. Nonostante ciò, sono dell'opinione che questa sensazione di silenzio, sia esteriore che interiore, andrebbe riscoperta. Concludo queste note introduttive portando la vostra attenzione su due parole che, forse, non sono esattamente in salentino corretto. La prima è "frautu", prestito che io ho preso dal siciliano "di confine" di Otello Profazio, mentre la seconda è "Ammacariatu", termine che credo di aver creato io a partire da "Macaria", da tradurre come "incantesimo", parola scoperta tramite l'omonimo brano degli Zoè. Spero che vi piaccia, buona lettura a tutti.
Notte ca sinti china de segreti
tie m'hai cuntare ci lu tou silenziu è eternu o ha finire.
Tie hai turnare canti comu nu frautu
e hai dire puru quiddu ca ulimu scurdare.
Hai essere comu nu sciardinu ammacariatu
Ca ne riporta l'antichi e maledetti ricordi.
Nui osci te canuscimu appena
e nu sapimu cchiui l'infinitu ca te sta 'ntr'all'anima.
Nu canuscimu cchiui l'echi toi
sciamu comu 'mprigiunati 'ntra nu munnu doratu.
Ulia tantu cu tie li cuntavi
A ci nu vole cchiù se 'ncorda allu passatu,
Ca 'ntra lu munnu a ciclo patimenti
Se discitane comu ienti perfidi e cantori.
Ulia ca tie turnavi eri nu gridu
Ca ne facia rinascere li cori.

martedì 6 aprile 2010

Commento alla puntata del 05/04/10 di "Effetto notte in Italia

Carissimi lettori, eccoci qua ad un altro articolo, sarà un po' polemico già lo so, a commento di una puntata di "Effetto notte in Italia", programma di informazione musicale che va in onda di sera su Radio Inblù.
Intanto non mi piace il fatto che la musica oggi debba per forza fare compagnia, soprattutto non mi piace che si usi per questo scopo, sicuramente importante ma non nobile, la musica, spesso nobilissima, di molti cantautori italiani.
Andando concretamente allascaletta, sicuramente non c'è niente da eccepire sull'apertura, affidata ad uno dei classici indiscussi del repertorio di Antonello Venditti, quella stupenda "Notte prima degli esami", che resiste da ventisette anni tra i brani che il nostro non può non cantare ad un suo concerto. Stiamo avendo il piacere di ascoltarne la versione originale, quella contenuta nel cd "Cuore" del 1984, che portava alla luce anche altri classici di Antonello Venditti come "Ci vorrebbe un amico". E' una canzone meravigliosa, sempre bella ma complicatissima da cantare e suonare (altro che "canzone da scampagnata"!).
E come poter fare a meno di Lucio Battisti, il cantante che ha permesso a tutti di sentirsi musicisti solo perché sanno fare tre accordi sulla chitarra, suonati senza nessuna sfumatura?
Il brano che si ascolta è "La canzone del sole", che da ormai circa quarant'anni, mi pare sia del 1971, ci tormenta (io veramente non ne posso più!).
Oltretutto mi sarei un po' stancata di questa idolatria generale nei confronti di Mogol, buon paroliere, sicuro, ma non paragonabile a gente come Giorgio Calabrese (paroliere di Umberto Bindi) o Sergio Bardotti, ottimo traduttore di gioielli della musica brasiliana come "Funeral de um labrador" di Chico Buarque, diventata "Il funerale di un lavoratore" nella toccantissima interpretazione di Maria Carta ("Vi canto una storia assai vera, 1976).
La voce di Battisti, oltretutto, non è neanche intonata, anzi dal vivo era completamente stonato (idem dicasi per i Beatles, amati da quelle persone per le quali basta che un gruppo abbia importanza come rivoluzionatore di abitudini e costumi per valutarne la bravura!).
Forse il brano non è malvagio se arrangiato, ma non basta l'arrangiamento per fare bella una canzone, anzi i brani sono belli nudi, al limite l'arrangiamento può e deve essere un arricchimento ma non di più.
Andando avanti, per fortuna, torniamo a parlare di capolavori, con la bellissima "La donna a cannone" di De Gregori, pubblicata in un q disc che io possiedo in vinile ma credo di non aver mai sentito. Questo brano, ad esempio, anche fatto solo chitarra e voce, ovviamente con tutti i suoi accordi, è bellissimo, non c'è bisogno d'orchestrazione. Oltretutto, e anche questo non guasta per lo meno per me, ha un testo anche complicato, poetico, riflessivo, che obbliga a pensare e pesare le parole. Non ho mai amato le canzoni scritte come si scriverebbe uno sfogo privato o la lista della spesa.
Andando avanti, io avevo un anno appena, si arriva a questa "Fiore di maggio", che a me ricorda un mio professore di educazione fisica, il quale, quando io facevo la materna, mi regalò una cassettina originale, che da qualche parte forse ancora possiedo, di questo bellissimo album di Fabio Concato, che si intitolava come questa canzone. Piccola curiosità: il mio maestro (così noi montessoriani chiamavamo i nostri insegnanti) mi regalò il primo tamburello che io ebbi nella mia vita, quindi io scoprii questo strumento molto prima di scoprire la pizzica e molto prima che questa fosse effettivamente riscoperta, infatti io ebbi questo dono circa una ventina d'anni fa, anche prima!). Tornando all'album di Concato, quello che tutt'ora è il suo disco più conosciuto, conteneva anche canzoni come "Gigi", "Computerino", che era la mia preferita, e "Rosalina", ancora adesso assolutamente obbligatorie quando si parla di Fabio Concato.
Eccoci a questa musichetta troppo rilassante e rilassata che io non ho mai amato, quella che giustamente si può preferire come colonna sonora di scampagnate (non "La donna a cannone"!). Stiamo ascoltando una canzone di Marina Rei, la cui particolarità basilare è il suo aver studiato percussioni con tecnica cubana, cantante che sennò è completamente banale, perché da noi la banalità è scimmiottare gli americani, magari mancando di rispetto alla nostra lingua (la cosa faceva già arrabbiare Domenico Modugno ai tempi di "Volare"!). Il brano che stiamo ascoltando, intitolato "Primavera", è una cover di un brano dance anni '70 sicuramente festoso ma insipidissimo. Brani così, per lo meno a me, mi dànno solo voglia di spegnere qualsiasi radio io stia ascoltando.
Mamma mia, l'incubo continua! Il cantante che stiamo a scoltando è un ottimo cantante, anche se è il cantautore che io ho sempre amato di meno, il genovese Ivano Fossati. Il brano che stiamo ascoltando, però, è la nauseante, perfino lui la odia, "La mia banda suona il rock". Comunque voglio approfittare per mettere insieme un paio di ricordi legati a questo cantautore, che ebbi anche il piacere di vedere nel 1990, ancora in piena guerra del Golfo. Amo moltissimo un cd di Fossati, forse di qualche anno precedente a quel concerto, intitolato "La pianta del tè". I brani che ho sempre amato sono, e non poteva essere altrimenti, quelli dove il pop è sfidato a "sporcarsi" con suggestioni etniche, che sono quelle che ho sempre cercato in fondo nella musica, ancora prima di scoprire la musica tradizionale. Io vi consiglio di ascoltare tre brani di Fossati: "Terra dove andare", "la pianta del tè" e "Questi posti davanti al mare", interpretato insieme a Fabrizio de Andrè e Francesco De Gregori.
Andando avanti con la scaletta di "Effetto notte in Italia", stiamo ascoltando Paolo Conte che, in "Concerti", album di cui qui si è parlato ampiamente, interpreta "Azzurro". E' veramente meravigliosa, anzi per me è l'unica versione che esiste di questo brano, mi colpisce sempre la sua infinita eleganza. Trovo invece sguaiatissima la versione di Adriano Celentano, ma, fortunatamente, questa è un'altra storia.
E finalmente posso spendere qualche parola, senza un velo di polemica, su un grandissimo cantante, riscoperto molto ma non so con quanta sincerità. Mi riferisco a Rino Gaetano, colui che sarebbe stato, se non fosse morto a trentun anni, uno dei cantanti più trasgressivi della scena italiana, senza la supponenza di quelli che debbono esserlo per forza o per etichetta. Il brano che stiamo ascoltando è "Gianna", che il cantautore calabrese portò, arrivando terzo, al Festival di Sanremo 1978. Una curiosità, che Renato Zero ricorda spesso, è che il cilindro che Gaetano indossò nelle sue esibizioni all'Ariston era di proprietà del "fiacco" che, allora, di vestiti strani se ne intendeva. E' un brano bellissimo, anche se lo stesso non si può dire di quello che è partito adesso!
Stiamo a scoltando la "Anima mia" dei Cugini di campagna (non so se rendo!), di cui io ho un ricordo raccapricciante che credo di aver già condiviso con voi ma non posso far a meno di tornarci con la mente: mio padre che cantava questa canzone, insieme ad altre non meno allucinanti, ad una masnada di bambini che andavano a scuola. Venendo tecnicamente al brano è un brano tipicamente melodico, con una spruzzatina di effetti speciali, suoni di sintetizzatore, che avrebbero voluto renderlo compatibile con il clima "progressivo" che si respirava in quel periodo nel 1973.
Andando avanti troviamo un'altra di quelle canzoni che non amo, anche se non posso dire che abbia una melodia povera, soprattutto per i suoi numerosi "crescendo", come non posso dire che la sua interprete non sia brava (quanto la amava il mio caro nonnino!). Mi riferisco a "Maledetta primavera", interpretata da Loretta Goggi. E' carino il terzinato, ritmo che noi non abbiamo mai rinnegato, anche perché, per usare una metafora religiosa, è letteralmente "sangue del nostro sangue". Infatti l'applicazione di questostandard ritmico, e scusate l'accostamento eretico che farò, la si ritrova indifferentemente in alcuni brani di Bethoven, nelle pizziche, dove il tamburello ed in alcuni casi il canto terzinano, e in brani pop dagli anni Sessanta ad oggi.
Ed eccoci ad un caso di sputtanamento di capolavoro. Se ne era accennato già in occasione del commento al "Work in progress" di Dalla e De Gregori, di cui si riparlerà in occasione della tanto gridata uscita del cd che racchiuderà i momenti salienti della tournée. Mi riferisco naturalmente a "l'anno che verrà" che, come ogni buona canzone sputtanata è nota anche con un altro titolo: "Caro amico ti scrivo", che poi è solo il primo verso. La versione che stiamo ascoltando è 'originale, quella che Lucio Dalla incise, con gli Stadio in grandissima forma e in evidenza assoluta, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta (il cantautore, sempre caratterizzato da una fantasia grandiosa nella scelta dei titoli per i suoi dischi, dette lo stesso titolo, il suo cognome, a due dischi di fila, tutti e due capolavori supremi, quindi voi potete capire che faccio un po' di confusione!).
La puntata si chiude con "Centro di gravità permanente", una delle canzoni più insipide di uno dei cantanti più insipidi che l'Italia abbia mai avuto l'onore d'avere (forse dovrei rivedere le graduatorie con gli standard della nuova generazione, ma non assolvo Battiato!). Non sopporto chi fa il filosofo tramite le canzoni, tra fare il filosofo e scrivere le canzoni come la lista della spesa ce ne corre dico io. Oltretutto battiato mi ha sempre dato l'impressione di uno che se la tira, vuole far pesare la sua cultura (la sua o di Sgalambro? boh!). Infine, e va bene già che ci siamo diciamola tutta, non sopporto la vocina da castrato del siciliano.
In fondo mi ha fatto anche piacere questa puntata di viaggio nella storia della canzone italiana, anche se trovo che si sia fatta una bella accozzaglia di capolavori e pezzi così così, accomunati solo dal fatto di essere classici.
Spero che vi sia piaciuto questo articolo, io nello scrivere mi sono divertita moltissimo!

Commento alla puntata del 05/04/10 di "Effetto notte in Italia"

domenica 4 aprile 2010

Commento alla puntata del 4/04/10 di "canzonenapoletana@rai.it"

Carissimi lettori, dopo una settimana di digiuno, torniamo a commentare le bellissime puntate che "canzonenapoletana@rai.it" dedica a Salvatore di Giacomo.
Si inizia con un brano risalente al 1910 intitolato "'A riggina d'o mare", che ascoltiamo dalle voci maschili di Mario Massa e Aldo Gabrin.
Musicalmente è una tarantella, come si facevano all'epoca in ambito semicolto, ossia con quella raffinatezza che non permette di farsi prendere dal ritmo.
E' una dichiarazione d'amore ad una ragazza, che nel ritornello viene fatta direttamente alla madre. E' una tarantelluccia spassosa, che, secondo me, andrebbe riscoperta. Credo infatti che non ne esistano versioni moderne. Spero che il Carlo Missaglia di turno si ricordi di questo pezzo, perché è allegrissimo.
Si continua e si torna al repertorio classico, conosciuto e tutt'ora cantato, con una bellissima "Canzone a Chiarastella" che, spesso, è attribuita ad Aniello Califano per itesti. Il testo è uno di quelli divertenti, ma è talmente romantico che la musica deve essere, com'è, malinconica. La versione che si ascolta è di Elvira Donnarumma, che canta con semplicità ma forse un po' troppo potentemente questi versi intimi e dolci. Io vi consiglierei di ascoltare la versione di Roberto Murolo, contenuta nella sua "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea".
Torniamo alle rarità con questa "Marcetta d'o capotammurro", la cui musica è di Enrico Cannio, che abbiamo il piacere di ascoltare dalla voce tenorile e stentorea di Mario Massa.
Nonostante il suo essere una marcia, niente c'è di militaresco, c'è piuttosto una voglia di divertirsi con le note, cosiccome nei versi di Di Giacomo, da quel poco che si capisce dal disco frusciato, c'è più voglia d'amore che di eroismo.
Rimaniamo in ambito da collezionisti, con questa "Vintiquatt'ore", la cui musica è di Ernesto de Curtis. L'interpretazione, molto bella e precisa per questa melodia, purtroppo non permette di capire il testo.
Musicalmente ci troviamo davanti ad un ritmo lento ed in tonalità minore, con una scala caratterizzata da un'interessante seconda aumentata, che dà un tocco arabo alla melodia, ideale come poche altre cose per la liricità sicuramente insuperabile dello stile di Di Giacomo.
Siamo davanti ad una bellissima voce baritonale, di un certo Benigni, che ci sta interpretando una rarissima canzone, scritta da Di Giacomo e musicata da Emanuele Nutile, intitolata "Barcarola".
E' una delle tante dove si parla del mito del mare, che a Napoli viene visto come un qualcosa di naturale, e non viene usato per nobilitare un genere dalla storia recente come può essere per il Fado di Lisbona. A Napoli, diciamo, il mare è l'equivalente della rondinella salentina, ossia è il messaggero d'amore, con la differenza che spesso, e anche qui, è l'unico che può rassicurare l'innamorato sulla stabilità del proprio amore.
Dello stesso anno è questa "Dint'o suonno", che si ascolta da un disco frusciatissimo (insopportabile!) e dalla voce di Vittorio Parisi, maestro diretto del grande Sergio Bruni.
Anche questo brano è un tipico brano in minore, musicato un'altra volta da Ernesto de Curtis, con il solito, ma sempre interessante e raro, intervallo di seconda aumentata.
Non capisco il testo, ovviamente me ne dolgo.
Il brano, come abbiamo visto in moltissime occasioni durante questi commenti, è caratterizzato da parti in modo minore che si alternano con parti in maggiore.
L'ultima canzone, "L'e' fatto pure tu", viene interpretata da Roberto Ciaramella ed il disco, per fortuna, è molto meno frusciato. E' una canzoncina dove il figlio ricorda alla madre che anche lei ha fatto le stesse cose per le quali lo rimprovera. E' un tipico brano binario, quasi paragonabile ad un fado. E' inciso con una tipica orchestra di fiati, quasi unico accompagnamento concepibile, oltre al duo di chitarra e mandolino, per la canzone classica napoletana storica.
Spero di cuore che le ultime due puntate, che comunque ci permetteranno di avvicinarci a dischi un po' più recenti, permettano di fare commenti più precisi.

sabato 3 aprile 2010

Parlando di Serrat

Carissimi lettori, torno da voi per una di quelle voglie irreprimibili di raccontarmi che spesso stanno alla base di molti scritti, soprattutto di quelli redatti senza una ragione esterna che li causa.
Oggi mi va di parlarvi di una delle mie passioni più antiche, quella per Joan Manuel Serrat, grandissimo esponente della canzone in lingua catalana e castigliana, uno dei cantautori più famosi in ambito ispanico.
Conobbi Joan Manuel Serrat tramite i miei zii legati alla Spagna, i quali avevano due vinili, uno dei quali mi è stato anche regalato. L'lp si chiama "La paloma", ed è stato inciso a Milano, quando il cantautore era una "persona non grata" per il regime franchista, che dopo aver provato a sfruttarne l'improvvisa popolarità alla fine degli anni Sessanta, ne iniziò ad avere paura per il suo dedicarsi alla causa catalanista. Il regime franchista, è meglio specificarlo subito, ebbe sempre rapporti problematici con le lingue parlate da galiziani, catalani e baschi, che considerò sempre minori e sovversive.
Joan Manuel Serrat ha sempre avuto un grandissimo rapporto con l'Italia, che si è dimostrato duraturo, ed ha portato perfino ad alcuni scambi tra i due paesi, nel senso che, se da un lato il grande spagnolo ha usato alcuni nostri esimi orchestratori per alcune sue ballate, alcuni cantanti italiani hanno tradotto nella nostra lingua alcune canzoni del nostro.
Tra i brani arrangiati da musicisti italiani, si può ricordare la bellissima "Más que a nadie", il cui arrangiamento è di Celso Valli, presente nel notevole disco del 1998 "Sombras de la China".
La voce di Joan Manuel Serrat è sempre più calda e matura, sempre impietosamente potente, mai rauca. I suoi testi sono sia politici che intimi, e non disdegnano giochi linguistici complicati, anche se spesso si lasciano sedurre dalla semplicità di giri poetici più vicini al linguaggio quotidiano.
Non saprei dirvi chi in Italia può rappresentare un "alter ego" di Serrat, posso dirvi che il cantante che meglio ha saputo rendere il suo repertorio, al quale ha dedicato anche un lp intero intitolato "I semafori rossi non sono Dio", è Gino Paoli, con cui il catalano ha anche qualche tratto comune nel timbro, specialmente per quanto riguarda le voci che i due cantanti avevano negli anni Settanta. Gino Paoli, nel suo bellissimo cd "Appropriazione indebita", reinterpreta in maniera strabiliante "Penelope", il cui unico handicap forse è l'arrangiamento latino-americano che toglie al brano l'immediatezza della struttura pop che gli era stata data dai suoi autori originali. La traduzione è invece ineccepibile, come spessissimo sono quelle del repertorio serratiano, eccezion fatta per "Bugiardo e incosciente", sicuramente la melodia più conosciuta in Italia del cantautore catalano, di cui Paolo Limiti, con espressa autorizzazione del cantautore, ha fatto un uso libero, scrivendo un testo d'amore laddove Serrat raccontava di emarginazione d'anziani. La traduzione letterale di questo brano, in dialetto pavanese, è di Francesco Guccini ed è presente nel cd "Ritratti" (2004). E' veramente notevole, e tra catalano e pavanese c'è più di una somiglianza. Mi ricordo ancora che la sera in cui Guccini presentò il cd in questione ad un palasport gremito, come sempre, il cantautore fece dell'ironia su "Bugiardo incosciente", forse un po' esagerata ma basata su uno spirito filologico inappuntabile.
Mina, qualche anno dopo aver cantato "Bugiardo e incosciente", cantò una bellissima e fedele versione italiana di "Balada de otoño", una delle perle contenute nel già citato lp "la paloma" (1971). Nell'arrangiamento, questo forse è l'unico handicap della versione italiana, non viene rispettata l'onomatopeicità del pianoforte, che tra strofa e strofa esegue delle parti molto veloci, come a ricordare la pioggia battente "sui pioppi mezzi spogli".
So che Joan Manuel Serrat fu anche intervistato dalla Rai, ma non ho mai avuto il piacere di vedere il programma che ne è scaturito. Mi ricordo, invece, una sua bellissima apparizione, che non saprei collocare nel tempo, purtroppo, al bellissimo "Séptimo de caballería" condotto da Miguel Bosé alla TVE, la tv di stato spagnola.
Non posso citarvi le mie canzoni preferite di Serrat, perché faremmo notte, ma mi va di consigliarvi qualche disco, semmai questo post abbia svegliato in voi qualche curiosità di andare a scoprire dalla viva voce del cantautore spagnolo alcuni suoi capolavori.
Innanzitutto, naturalmente, vi consiglio il già citato "La paloma" del 1971; per chi fosse interessato ad un'antologia niente di meglio che ricorrere a "24 páginas inolvidables", raccolta che lo stesso cantautore si è incaricato di curare; per chi infine fosse interessato ad un live, niente di meglio che ricorrere all'insuperato "En directo" (1984). Merita una citazione a parte quel repertorio che Serrat ha tratto dalla poesia spagnola. L'album più conosciuto di questa produzione è quello su Machado, anche se non è forse il più riuscito. Troviamo poi "A Miguel Hernández", quasi coevo del precedente, e soprattutto il migliore e maturo "El sur también existe", che dimostra una voglia da parte del nostro di guardare anche all'America Latina, zona del mondo per la quale egli sente una grandissima attrazione, tanto da definirsi "Un latino-americano de Barcelona". L'album in questione è dedicato a Mario Benedetti, grande poeta uruguayano scomparso di recente.
Spero di avervi fatto venire voglia di ascoltare una grande voce in lingua spagnola, io sono sicura di aver provato molto piacere nello scrivere questi pensieri.

venerdì 2 aprile 2010

Viva la Puglia!

Carissimi lettori, era da ieri che volevo scrivere un articolo sul fatto che le pressioni della popolazione abbiano costretto a togliere da Porto Cesareo, località vicina a Nardò nel Salento leccese, la statua di Manuela Arcuri.
Sinceramente sono felice per svariate ragioni:1) intanto sono contenta che ci sia qualcuno che ancora pensa che il Salento è più turistico se lo si maltratta di meno;2) trovo ingiusto che si innalzino statue a personaggi dello spettacolo tutt'ora viventi o anche deceduti.
Le statue, con la loro forse esagerata e barocca imponenza, sono per i veri eroi nazionali, quelli che hanno fatto la Patria, i grandi traghettatori delle varie comunità nelle varie fasi della storia.
Questo è un segnale, un altro se ce n'era bisogno, del fatto che la Puglia, come dice Nichi Vendola, "si è voluta bene".
Non ho mai visto Porto Cesareo, ammetto la mia ignoranza, anche se sono stata molto vicino, ma mi dicono che sia molto bello. Non credo quindi che questo atto di civiltà e di giustizia, ritenuto oltraggioso anche dal Codacons di Lecce, toglierà turisti alla meravigliosa terra salentina.
Nel Servizio del tg 2 che ha permesso a tutta la comunità nazionale di rendersi edotta di tale notizia, si è sentita anche la voce dell'Arcuri, tra l'altro insipida ed insignificante, dire che quella statua era un omaggio alle donne. Io dico che per omaggiare le donne bisogna diminuirne lo sfruttamento come oggetti televisivi, permettendone una maggiore espressione pubblica a livello effettivo, dando loro importanza solo laddove siano competenti, senza pensare a "quote rosa" ed altre trovate spettacolari.
Scusate la breve divagazione, e gridiamo ancora una volta un "brava!" alla Puglia che si vuole bene.