mercoledì 31 marzo 2010

Ricordo "amorevole" (a Nicola Arigliano)

Carissimi lettori, purtroppo la musica italiana in questi ultimi giorni è stata funestata da molti lutti importanti, quindi purtroppo questo blog si deve aggiornare per forza. Oggi, malauguratamente, è morto il grande Nicola Arigliano, cantante di jazz italiano (nel senso di jazz all'italiana, non di jazz fatto in Italia!), a cui io ero e resto molto legata.
Conobbi Nicola Arigliano in occasione di una sua apparizione live ad una "Serata con" organizzata su Radio Italia solo musica italiana, quando ancora questo programma non era una buffonata ma veramente una "serata con" un artista che si esprimeva. In quell'occasione il cantante leccese godeva del meraviglioso accompagnamento di Michele Ascolese alla chitarra, Elio tatti al contrabbasso suonato con l'archetto e Giampaolo Ascolese alla batteria, trio con cui, qualche mese dopo, me lo ritrovai ad Umbria Jazz in una Piazza IV novembre gremita.
Il cd che presentava si chiamava "Go man", riecheggiando il modo di dire con cui il cantante incitava i propri musicisti all'improvvisazione solistica, e veniva dopo sette anni di silenzio da quel meraviglioso "I sing ancora", disco live che aveva rappresentato il ritorno di questo jazzista all'italiana ai dischi dopo moltissimo tempo.
Arigliano, inizialmente, negli anni Cinquanta e Sessanta, si fece accompagnare da quelle meravigliose orchestre "classico-leggere" che erano l'insostituibile ferramenta per quella musica confidenziale, semplice e notturna di cui oggi se ne è andato un altro grandissimo interprete.
Nicola Arigliano, forse, è ricordato da molti come la voce e la faccia del "carosello" di una nota marca di digestivi, ma in quegli stessi anni andò anche per la prima volta a Sanremo, con la carinissima "Venti chilometri al giorno", scritta da Pino Massara, che d'altronde fu uno degli autori preferiti del nostro per il suo innegabile talento jazzistico.
Mentre scrivo sto ascoltando alcuni brani di Nicola Arigliano, e siamo arrivati al bellissimo "Go man", che comprai subito dopo aver sentito quella fatidica serata di Piazza IV novembre di cui ho brevemente parlato, cd che è una delle migliori occasioni che si hanno di ascoltare Arigliano accompagnato dai principali jazzisti di ispirazione swing, da Franco Cerri, a Gianni Basso, passando per Bruno de Filippi, Enrico Rava e Renato Sellani.
Se devo parlare dei miei gusti personali per quanto riguarda Arigliano, dico però che lo preferisco da giovane, quando cantava musica melodica "condita" di jazz.
Possiamo trovare un contraltare straniero alla storia di Arigliano in Henri Salvador, anche se in fondo il nostro non ha assolutamente avuto la folgorante popolarità tardiva del francese, che solo negli ultimi dieci anni della sua vita, è riuscito ad avere successo pieno con ciò che amava.
Da noi, come sempre, si tende a dare l'illusione della notorietà, per la quale aveva contribuito anche la "militanza" del programma "Viva radio due" a favore della causa del ritorno di Arigliano in televisione, per poi, ottenuto l'obbbiettivo che ci si era prefissi, relegare il personaggio in questione ad un dimenticatoio da cui, forse, lo si riscatta quando muore.
Tornando alle storie personali con Arigliano, io, fino a quando ho potuto, l'ho seguito con vera precisione, e l'ho continuato ad ammirare nei vari concerti che faceva sempre all'interno di Umbria jazz. In un'occasione che non so precisare, in un posto dove c'era un pianoforte che di lì a poco sarebbe stato usato dal pianista Antonello Vannucchi, che nel frattempo aveva sostituito il molto impegnato Michele Ascolese nel trio di Arigliano, mi prodigai in un omaggio al cantante, durante il quale il "brutto che canta il jazz" (uno dei soprannomi di Arigliano n.d.r) mi chiamò "collega!), mentre io eseguivo una "I sing amore" che ancora mi risuona nel cuore.
Voglio concludere questo articolo con una curiosità che ho già avuto occasione di darvi, ma in questa occasione, mentre sto ascoltando un meraviglioso assolo di Enrico Rava su "Amorevole", cade a fagiolo.
Nicola Arigliano, sempre cultore della nostra canzone dialettale, ha contribuito ad uno dei fondi dell'"Archivio sonoro della Puglia", esattamente al "fondo Profazio", perché per questo ricercatore cantò alcuni canti popolari imparati nella natale Squinzano (Le) da bambino.
Scusate se questo ricordo, come sempre, è spesso andato sull'intimo, ma questo è anche il senso del titolo di questo blog, che si chiama "La musica secondo me" anche perché amo raccontare le cose per come le ho vissute, non solo per come le vivo da scoltatrice.
Se vi dovessi consigliare qualcosa di Arigliano, direi di iniziare con qualche disco pubblicato dalla filology, per poi passare agli ultimi tre cd, ossia quelli della fase più jazz: "I sing ancora", Go man" e "Colpevole" incisi tra il 1995 del primo ed il 2005 (dopo la partecipazione a Sanremo) del secondo. In mezzo, se si ha la curiosità di sentire l'interpretazione di alcuni standards americani da parte di Arigliano, c'è il cd "My name is Pasquale" che, però, non ha mai saputo catturare il mio interesse.
Il mio consiglio, insomma, è di riscoprire molti bellissimi classici del jazz italiano, interpretati da una delle più belle voci che noi abbiamo mai avuto in questo campo.
Buon ascolto e lasciatevi cullare e portare da questa bellissima musica!

martedì 30 marzo 2010

Officina Zoè: "Sangue vivo"

Carissimi lettori, questa sera mi va di riparlare di musica salentina, musica della quale ho una grandissima nostalgia, perché qui non si muove niente che la riguarda né sul territorio né nei posti dedicati all'informazione.
Per sfogare la passione repressa, proverò a parlarvi di "Sangue vivo", che è l'unico cd degli Zoè al quale non avevo ancora dedicato una monografia. Le ragioni di questa assenza sono presto spiegate: è un album che non amo, che riesco ad ascoltare pochissimo (ad esempio se sono stanca od arrabbiata mi fa peggio!), e comunque non mi piace né come è cantato né come è suonato (io inizio ad amare Zoè dal terzo cd in avanti).
Venendo tecnicamente al cd, esso si apre con quella che da molti è considerata una delle più belle pizziche del gruppo, quella "Don pizzica" la cui buona esecuzione fa spaccare la testa a più di uno. Voglio ammettere che la parte di organetto ha il suo fascino, ma non mi vanno giù né la parte di violino né le parti cantate (qui non mi piace neanche la voce di Cinzia, è tutto dire!). Non sono mai stata un'ammiratrice, in ambito di "riproposta" o di composizioni originali, come questa è, del riuso delle tecniche degli anziani, che qui si pratica in maniera molto forte. Sono molto legata comunque a questo brano perché l'ho suonato con una persona che mi è carissima, l'unico allievo di Donatello Pisanello in tutta Italia, l'organettista di Acquarica del Capo Antonio Corsano (www.myspace.com/antonio corsano, www.myspace.com/maracinesente, www.myspace.com/fadodafne). Il testo, scritto da Cinzia Marzo, è molto interessante perché, nella sua disarmante semplicità, ci invita a riscoprire le cose e ssenziali della vita, cosa che lei ama fare spesso (pensate anche a "Ijentu", ma soprattuttto a "Menevò" e "Pizzicannella", tratte rispettivamente da "Il miracolo" e "Maledetti guai".
La seconda traccia del cd, di cui Winspeare ha fatto un uso completamente inappropriato nel film di cui questo disco è colonna sonora, è "Ijentu", una delle pizziche più liberatorie e belle mai scritte. E' meraviglioso l'accompagnamento dell'armonica di Umberto Panico, che, secondo me e non solo, è tra i migliori armonicisti salentini (per me è il migliore, basta eufemismi!).
Il brano, composto come se si trattasse di un'antica pizzica adatta per tirare di scherma, ha un testo a strofe sciolte, quindi completamente tradizionale, con vette di poeticità completamente insuperabili. Il modo di cantare di Cinzia Marzo e Raffaella Aprile, ancora è impreciso ma Cinzia, aiutata dall'armonica di Umberto Panico che parole testuali sue "è l'unico che mi fa tarantare a me", riesce davvero a tarantarsi, scoprendo una semplicità che, forse, il gruppo ha perso con gli anni, anche se in contropartita ha acquistato un'interiorità ed un'essenza quasi alata che lo rende magico. Forse questa ragione spiega, ma non giustifica, l'allontanamento della gente dagli "Officina" ultima maniera, che forse, stanno premendo troppo l'acceleratore su un'arte che, ormai, è satura di se stessa (ogni tanto per andare avanti bisogna anche tornare indietro!).
Andando avanti nell'ascolto del cd, si arriva ad una "Nifta maiu", bellissimo canto griko che mi ricorda un inimitabile concerto degli Officina Zoè nel Salento, che ne contemplò un'interpretazione meravigliosa che mi si è assolutamente scolpita nel cuore. Il brano, testo tradizionale musicato con sapienza dal trio Pisanello-marzo-De Nicola, è interpretato con sentimento ma non perfettamente da Raffaella Aprile, con la cui voce dialoga un flauto dolce suonato da Cinzia. Il brano, ancora una volta caratterizzato da una grande semplicità, è un ritmo binario, che in alcuni momenti diventa un qualcosa di paragonabile ad una beguine.
Bellissimo è l'accompagnamento della tammorra muta, strumento meraviglioso che, purtroppo nel Salento è sottovalutato in nome dell'idolatria imperante del tamburello, che si usa anche in ritmi dove non può dare niente.
Continuando si arriva al brano che, giustamente e furbescamente, Edoardo Winspeare ha usato per i titoli di coda del film di cui questo cd è colonna sonora: la bellissima "Filia". Divagando, mi verrebbe da dire che poteva usare la stessa furbizia con "Menevò", facendola sentire nel "miracolo" non solo durante la ripresa dell'inseguimento del motorino da parte dei poliziotti, ma anche in corrispondenza della scena in cui il personaggio di Cinzia fa tutto quel putiferio prima di essere salvata dal bambino miracolato, ma questa è un'altra storia appunto. Parlando di"Filia" è una pizzica meravigliosa, che soprattutto ai concerti di Zoè crea un'atmosfera che è raro trovare. E' un brano in minore con interessanti alternanze tra passaggi di coppie di accordi minori e maggiori, che veramente permettono di dire che Pisanello abbia creato una forma di pizzica nuova senza aver poi stravolto la tradizione (questo forse il gruppo lo sta facendo un po' troppo ultiamamente, anche se ottenendo frutti più che buoni come "Cu li suspiri").
Subito dopo si arriva ad una canzone che è tutt'ora una delle più amate da moltissimi fan degli Zoè, la pizzica "Sale". Sinceramente non so se dire che è una pizzica di Ugento rielaborata con armonizzazioni fuori dal comune, oppure se è una melodia creata come una variante d'autore di questa stessa pizzica. Comunque, ciò che non mi è mai andato giù di questo brano, lo dico senza peli sulla lingua come sempre, è questo unico accordo che accompagna tutta la struttura della pizzica, che già di per sé ha un ritmo ossessivo, quindi così diventa insopportabile. Oltretutto non amo mai quando si mettono a contatto strofe tradizionali con giri d'accordi non tipici della tradizione. Da questo punto di vista, e non solo da questo, amo molto di più una "Cu li suspiri", che inizia ad innovare fortemente solo dopo che il canto si tace.
Ho sempre amato moltissimo la parte finale di questo testo, fortemente filosofica e, ancora una volta, incentrata sull'importanza del saper vivere la vita a contatto con ciò che è veramente essenziale. Nella discografia dell'"Officina", questo messaggio lo si può ritrovare benissimo in brani da me molto amati come "Menevò" ("Il miracolo") e "Pizzicannella" ("Maledetti guai").
Continuando con "Sangue vivo" arrivano ora due tradizionali, lasciati, per fortuna, allo stato puro quantomeno per quanto riguarda le melodie. Nel primo, purtroppo, c'è un'invadentissimo accordo unico di chitarra, che va a disturbare l'ascolto della tellurica vocalità salentina di Cinzia Marzo e Raffaella Aprile, che si può recuperare, anche se per pochissimo tempo, durante la visione di "Sangue vivo", dove questo brano, che è l'esempio che il gruppo offre all'impresario barese che deve rappresentare il suo futuro, è eseguito a cappella, facendo di "Mamma la luna" una delle vette della riproposta salentina. Il consiglio che vi do tra le righe, ovviamente, è di guardarvi il film con un occhio di riguardo a questo gioiellino.
Il brano è un lamento tristissimo, pieno di quella tristezza che oggi dà fastidio, perché ricorda che questa musica non è stupidamente allegra come noi la vogliamo vivere, ma ha un respiro malinconico che la rende magica.
A proposito di tragedie che il popolo italiano tende a dimenticare, ecco un canto di emigrazione, direttamente dalle profondità del folklore salentino, intitolato "L'America". Risale probabilmente all'inizio del Novecento, e l'"Officina" ce ne dà una versione veramente sofferta ed emozionante. L'unico problema è il ricamo barocco della chitarra, che non permette a Cinzia, unica voce del canto, di esprimere tutto il dolore della donna che vede sfumare la pace della sua famiglia per la partenza del marito.
Subito dopo, in nome di quella sinergia tra tradizione e modernità che forse è la virtù più grande di questo disco, che non riesce ad essere offuscata neanche dai suoi numerosissimi difetti, arriva una delle pizziche meglio riuscite dell'"Officina", se non fosse che... il canto di Cinzia qui mi risulta inascoltabile, aiuto! Mi riferisco alla bellissima "Macaria", spudorato grido di rivolta contro una società completamente venduta al denaro ed al potere. Il mio amore per questo brano, devo chiarire questo dato ancora prima di parlare della sua parte strumentale, è nato da quel concerto del 2005 di cui si è già parlato in questo stesso post, dove Cinzia ne dette una versione forte ma serena, che tutt'ora mi risuona nel cuore. Qui, per la prima volta, Cinzia usa i flauti doppi calabresi, che faranno poi capolino altre due volte nella discografia del gruppo, in altri due brani composti da Cinzia, esattamente in "Menevò" ("Il miracolo") e "Pizzicannella" (Maledetti guai". Non sopporto, non solo qui ma durante tutto il disco, gli assoli di tres cubano, strumento che mi piace solamente suonato nel contesto proprio. Nella pizzica, sinceramente, ci vedo meglio il violino ed il mandolino, oppure, se proprio vogliamo fare gli esterofili, un oud mediorientale (Cinzia mi ha detto che Ruggero Inchingolo lasciò le sessioni di registrazione di Sangue Vivo mentre esse erano già in corso, sicuramente con lui questo cd sarebbe stato un capolavoro!).
Meraviglioso è, ancora una volta, l'uso moderno di tecniche ed intervalli tradizionali, soprattutto le interessantissime quarte aumentate dell'organetto di Pisanello.
La penultima traccia del cd è un bellissimo tema strumentale, dove le voci sono strumenti coadiuvati solo da dei bassi meravigliosi di organetto, che già annuncia alcune delle migliori soluzioni del periodo successivo dell'"Officina", a partire da alcune parti della prima traccia de "Il miracolo". la melodia, che si snoda semplicemente per terze, è veramente un esempio dorato di come si sarebbe dovuta evolvere la musica popolare salentina, invece di andare verso questo generale stravolgimento della tradizione. Quando faccio queste osservazioni non mi riferisco mai agli Zoè, il cui lavoro è andato di paripasso con la maturazione della coscienza vocale di Cinzia Marzo, che con gli anni, per fortuna, ha perso la sua ritrosia nel far sentire la magica dolcezza della sua voce. Mi ricordo benissimo che quando la conobbi meglio, in una bellissima serata romana, mi colpì molto questa dolcezza meravigliosa che io non le avevo mai sentito, infatti si può dire che lei abbia iniziato quasi ad esserne orgogliosa solo a partire dal "Live in Japan", disco che è quasi tutto basato su questi nuovi colori, che poi sono quelli naturali nella voce dell'"usignolo salentino".
Il cd si chiude con un altro di quei brani che io ho sempre amato, anche se preferisco sentirlo ricantato piuttosto che in disco. Il brano, intitolato "Ttuppi ttuppi", è un inno alla coerenza, questo sentimento che è ormai completamente bandito da troppi cuori. Il testo, completamente in lingua italiana se non fosse per qualche smagliatura qua e là, tipica dell'italiano dei contadini e di quelli che non lo parlano abitualmente, è un tradizionale musicato egregiamente dagli Zoè, con una melodia che è completamente nel tronco della tradizione, senza pretese di fare cose straordinarie.
Tramite questo articolo, devo dire la verità, forse mi sono ufficialmente pacificata con questo cd, che, nonostante i suoi numerosi e generali difetti, forse è veramente la più grande sintesi tra tradizione e modernità, soprattutto ora, dieci anni dopo la sua pubblicazione, quando ormai nel Salento nessuno fa veramente musica tradizionale salentina, tutti portati verso progetti che la reinventano facendone morire arbitrariamente forme e stili.
Spero di avervi fatto piacere, a me provare a raccontarvelo me ne ha fatto tantissimo!

lunedì 29 marzo 2010

Prime riflessioni sugli Aramirè

Carissimi lettori, concludo questa serie di post "storici", ossia di scritti che sarebbero dovuti stare tra i primi articoli di questo blog, ma per un motivo o per un altro non ci sono mai potuti entrare. In questo si parla degli Aramirè, ma è molto meno meditato, molto più arrabbiato ed impietoso nei loro confronti. Ovviamente c'è la comprensione per le motivazioni del loro leader, ma ci si ritrova una persona che è profondamente arrabbiata per una scelta che non condivide da parte di un gruppo per il quale ha una stima incrollabile. Credo di aver scritto questo articolo quasi subito dopo aver letto il post con cui Raheli spiegava le sue ragioni con la sua giusta ma distruttiva rabbia.
Buona lettura a tutti.
Devo dire che mi dispiace, vedere questo gruppo alfiere della tradizione, ridotto ad un cadavere. Non avevo più loro informazioni, ma neanche la coscienza del fatto che si fossero sciolti. Capisco le motivazioni di Raheli: è demoralizzante perfino per me che mi ci dedico a tempo perso e addirittura sono due anni che non faccio più un concerto serio di pizzica, vedere che questa musica, dalla ricchezza infinita ed inesplorata o maltrattata, sia rimpicciolita fino a diventare un marchio della peggiore società consumistica. Bisogna però altrettanto dire che è troppo facile fare le cose in un certo modo quando non le fa nessuno (seppur si viene magari sbeffeggiati) e poi gettare la spugna, cioè non dare un’alternativa, quando queste stesse basi vengono usate in maniere non condivise da noi. Se io potessi (se fossi salentina o vivessi nel Salento), cercherei tutti i modi possibili per interpretare la pizzica con metodi opposti ad esempio a quello del concertone della Notte della Taranta, che a me non piace per niente. Devo purtroppo ammettere da “aramiriana” (forse da ex “aramiriana”), che i miei storici beniamini erano un po’ “nostra signora ipocrisia” (se Raheli leggesse questo sarebbero cavoli). Quando li ho visti in Puglia (12 agosto 2005, Cannole, sagra della municeddra), loro che rimproverano a tutti il fatto di non saper utilizzare le voci e la scelta ostinata di fare solo brani ritmati, hanno giustamente eseguito solo quel repertorio, tra l’altro con controcanti quasi indecenti. L’unico brano lento della serata è stata una versione orribile (contenuta purtroppo anche in “Mazzate pesanti”) della “Ieri sira”, che tutti dicono di aver imparato dalla Simpatichina (quidda sì ca facia musica popolare). Posso anche dire che prima del concerto ho avuto la possibilità di conoscere Raheli che, siccome non lo riconoscevo dato che nel parlare ha una voce completamente inespressiva, si è messo ad accennare “Sta strata”, pezzo che io stessa abitualmente facevo, rigorosamente “a botta”. In quel caso il signor “integralista” è partito “a stisa” ed a me è venuto completamente naturale il controcanto per terze salentine. Non si può raccontare la mia rabbia quando lui, che come ho detto prima grida all’eresia non appena si smette di dare il monopolio della musica salentina alle voci, non è nemmeno stato in grado di seguirmi: dopo tre note del mio controvoce, lasciava la melodia principale per mettersi nella mia zona. Purtroppo non ho mai cantato con altri ripropositori, ma voglio sperare che qualcuno più bravo di lui ci sia (io adoro Cinzia Marzo ma non ho mai avuto il piacere di unire la mia esile voce a quel vento pieno di contrasti).L’ultima parola che voglio dedicare agli aramirè è: non date la colpa alla Notte della Taranta e ai suoi miliardi se vi siete sciolti, guardate per una volta dentro di voi e non fuori. So che è molto più facile accusare chi viene dopo di noi dei nostri problemi, ma la radice di tutto sta sempre in noi. Se tu, carissimo Raheli, avessi imparato a suonare bene il violino o il flauto, già avresti potuto competere con la qualità del tuo suonare e cantare, anche con la N.d.t. e poi: si può sapere come pretendi di vincere un ensemble di pagliacci reciclati tirando fuori da quella miniera di musica che è il Salento i peggiori musicisti?In Puglia, forse in parte la colpa è da dare al fonico, mi sono accorta benissimo (pur non suonando nessuno degli strumenti citati), che i due tamburelli erano scordinati tra loro e il fisarmonicista suonava con una sola mano (sempre!). e poi davanti a me, che sono una sua grande ammiratrice quando non si vende alla Notte della Taranta, hai avuto il coraggio di dire che Castrignanò non ti mancava perché ti piacevano gli stupidi e banali virtuosismi da bambino di cinque anni del vostro attuale (allora) tamburellista. Ultimissima: quando eseguivate “Lu rusciu te lu mare” avevate la faccia tosta di dire che la seconda parte (quella pseudo mediterraneata terribile), aveva degli echi flamenchi. Se ti potessi mandare questo scritto qui sì che ti giocheresti la reputazione di integralista! Carissimo signor Raheli, ancora non ho mai visto il flamenco, nemmeno nelle sue espressioni meno pure e tristi, suonato con una chitarra con corde d’acciaio (se lo sentissi rischierei di cambiare opinione). Il flamenco per di più si canta completamente di gola (non sicuramente come canti tu), con una vocalità molto magrebina (ascolta qualche cosa di algerino per capire quello che dico), mentre il sustrato arabo salentino, naturalmente, essendo di origine bizzantina, proviene da matrici turche. Ho infatti riscontrato somiglianze tra una certa vocalità salentina moderna (pensa ad alcune cose dell’ultima Cinzia Marzo) e la musica popolare persiana. In Iraq infatti hanno il gusto, soprattutto le donne, di impostare la voce in modo fortemente lirico (pensa all’opera italiana), lasciando quindi perdere l’irruenza che un qualsiasi cantante di flamenco, anche perché alcune cose le cantavano i minatori perfino sotto terra, metterebbe nel suo canto.E dopo questo studio commpletamente basato sulle mie rielaborazioni delle tante fonti musicali che ascolto, ti saluto con la maledetta coscienza d’aver sprecato il mio tempo perché non te lo potrò mai mandare.Da una parte è meglio!La perugina pizzicata.

Se mi fossi sparagnata Sparagna

Carissimi lettori, riesco a postare, finalmente nel posto giusto, delle mie riflessioni, scritte come sfogo del tutto personale e soggettivo, sul concerto di Ambrogio Sparagna e la sua "Orchestra pizzicata", che andai a vedere il 31 d'agosto 2008. L'ho voluto recuperare perché questo scritto è venuto fuori tra i primi da me mai elaborati, quindi optrebbe essere curioso. Va anche detto, poi, che dopo tutta questa immersione nel mondo della canzone d'autore, sia essa intesa in senso cantautorale o classico napoletano, un buon articolo in difesa della mia tanto amata musica popolare ci voleva proprio. Buona lettura a tutti!
Se dovessi parlare della serata conclusiva della tre giorni salentina, svoltasi il 31 agosto in Piazza IV novembre, direi: "se mi fossi sparagnata Sparagna".
Il signor Ambrogio Sparagna, etnomusicologo tra i più rinomati, io lo metterei tra i furfanti e i disonesti più rinomati. Innanzitutto Utilizza una parte minima degli strumenti della tradizione del centro-sud Italia: mancano all'appello violino, mandolino, chitarra battente, zampogne calabresi, scaccia pensieri (quello che se lo suoni e ti fai male alla lingua te li dà i pensieri!), ed altri che ora non mi sovvengono.
Veniamo tecnicamente al concerto: un inganno dall'inizio alla fine. Lui, che quando si è presentato ha detto che avrebbe eseguito "canti della tradizione", ha fatto tutte composizioni sue (qualcuna è carina non lo nego), l'unica cosa tradizionale che ha saputo fare è stata la solita (ma sempre bellissima) pizzica a botta, cantata da una vera salentina, a cui lui ha aggiunto il solito (bruttissimo, volgare e sguaiato) ritornello: "Ah preolì, preolì preolà (questa parte ripetuta fino all'esasperazione) beddu l'amore e ci lu sape fà".
Voglio suggerire al signor Sparagna una maniera per non ingannare la gente: perché non dire che si compongono brani a partire dai ritmi della tradizione?Purtroppo non posso citare brani in particolare (eccezion fatta per il brano d'apertura, ossia "La storia di Ruccano"), ma la cosa più vergognosa è che Sparagna forma queste orchestre, non per fare emergere talenti, ma solo per nascondere una caratteristica molto odiata da molta gente (anche se poi molti la possiedono): il suo proverbiale egocentrismo. Sin dalla selezione degli elementi egli molto raramente sceglie d'avere al fianco i migliori (l'unica eccezione è Erasmo Treglia, suonatore di chitarra e ciaramella). Il gruppo era composto da tre tamburelli (ne bastano e avanzano due!), tre organetti (che suonavano insieme invece di alternarsi, cacofonia pura!) il grande Treglia su citato, un basso elettrico (per dare quel tocchino di "contemporaneo", come se questo bastasse o fosse importante per rendere la pizzica contemporanea!) e ovviamente l'immancabile, insostituibile, insuperabile, batteria (dato che i tamburellisti dovevano fare solo coreografia e i tamburellini sono bellini!). Se devo classificare le canzoni diciamo che sembrava di stare ad un concerto di De Gregori non ancora americanizzato (d'altronde lui è riuscito a far fare a Sparagna una delle sue poche cose belle: il brano "La fine di un killer", contenuto nel cd del cantautore "Prendere e lasciare"; anche se poi De Gregori ha ricambiato con una terribile versione di alcuni versi della Divina Commedia a pizzica: andate su Youtube se non lo avete mai sentito e sentirete che roba, tanto più che dopo quelle strofe piene di filosofia arriva la batteria e Alessia Tondo canta.... Pizzicarella!). Ad un certo punto del concerto di Sparagna-De Gregori, si è avuta una versione della "Rondinella ci varchi lu mare", con attaccato il ritornello "Mamma la rondinella, mamma la rondinà, mamma la rondinella gira vola e se ne va". Beh, che dire, per dirla alla calabra ".... mancu li cani". Tra le due parti, apparte la rondinella, topos onnipresente in tutto il sud, non c'è niente in comune. Mentre i versi di strofa presentano una fortissima passionalità, il ritornello è qualcosa di inclassificabile (d'altronde si può mettere da tutte le parti, Sparagna docet). Oltretutto il pezzo era, nella parte del ritornello, una specie di reggae (d'altronde anche i Sud Sound System sono salentini ed il reggae è uno stile che fa parte ormai del folk salentino!). Il culmine dello scempio si è avuto con gli assoli di tamburello (lasciamo perdere che il flautista era leccese e, con un orribile flautino da pastori che faceva rimpiangere quello costruito da Roberto Raheli con una canna da pesca, non sapeva neanche terzinare una pizzica!), i quali si sono riassunti in assoli di batteria con qualche coreografia dei tamburellini bellini (addirittura durante uno di questi mi è venuta voglia di cantare "Questo è l'ombelico del mondo" di Jovanotti, noto interprete di pizzica salentina!). Non sono ovviamente riuscita a trattenere la mia rabbia, perché sono come Guccini che se si arrabbia diventa (o diventava) logorroico, con la differenza che lui faceva dei capolavori e io rompo solo l'anima a tutti quelli che mi stanno intorno. Adesso sono a posto con la mia coscienza e posso veramente dire con convinzione: lu Sparagna me l'aggiu sparagnare le prossime fiate ca vene.
L'articolo risale ad almeno due anni fa, quindi l'Ambrogino nazionale di scempi ne ha fatti ancora, dunque spendiamo qualche parolina. Quest'anno, come saprete se seguite questo blog, il signor etnomusicologo "allievo prediletto di Carpitella" è stato ospite al Festival di Sanremo, come accompagnatore strumentale invitato della canzone meridionalista di Nino D'Angelo. Trovo assolutamente allucinante l'accoppiata tra due dei peggiori musicisti mai apparsi sulla scena della musica popolare e della leggera, ma ancora più vergognoso è stato il continuo citare Ambrogio Sparagna da parte di Nino D'Angelo nell'esecuzione del brano.
Voglio concludere questo scritto, questo aggiornamento di mie vecchie ma sempre attuali riflessioni, dicendovi una cosa: cominciate ad apprezzare organettisti veri come Massimiliano Morabito, Mario Salvi o Alessandro Pipino (anche se non fa propriamente musica popolare) e scordatevi di Sparagna!

giovedì 25 marzo 2010

Sui lavori in corso" tra bologna e Roma (dedicato al concerto di Dalla e De Gregori)

Carissimi lettori, ho il piacere di recensire, con due giorni di ritardo sulla messa in onda da parte della Rai, lo spettacolo "Due", con cui Lucio Dalla e Francesco de Gregori tornano insieme dopo trent'anni da quel bellissimo "Banana republic", album fondamentale della mia infanzia.
Si è iniziato con una "Over the raimbow", con la quale Lucio Dalla ci ha dimostrato di saper ancora suonare divinamente il clarinetto, come succedeva in quella bellissima, ma da molti forse dimenticata, cover di "Have you got a Friend" di Carole King, contenuta in un meraviglioso q disc.
Le canzoni iniziano con una "Tutta la vita" che i due artisti interpretano divertendosi molto, specialmente De Gregori, nella cui voce questo brano diventa molto sporco ed acquista un'anima blues e dylaniana, nella quale Dalla, pur divertendosi a fare dello "scat", forse si trova un pochino male. Comunque è piacevolissima, infatti amo ogni occasione in cui Dalla riesce ancora a farmi capire che si diverte, e vi giuro che non lo sento sempre (anzi, spesso, soprattutto quando ha quelle sonorità elettroniche che gli piacciono tanto ma che a me stanno proprio sul gozzo, mi sembra che si suicidi!).
Francesco de Gregori ha presentato lo spirito di questo concerto, che va interpretato come una specie di sessione di prove pubblica delle cinque date che vedranno i due artisti insieme sia a Roma che a Milano.
Continuando con il repertorio di Lucio Dalla, si ascolta questa bellissima "Anna e Marco", che anche in questo caso è stata iniziata da Francesco de Gregori, che però ama anche defilarsi. Nel brano, infatti, è predominante la limpidezza della voce di Dalla insieme ai virtuosismi della sua inseparabile corista Iscra Menarini.
La prima incursione nel repertorio di De Gregori la si fa con una bellissima versione di "Titanic", che nei suoi primi trenta secondi ci ha fatto veramente assaporare le atmosfere della nave d'inizio secolo.
Ogni strofa è interpretata da una delle due voci, le quali si alternano con numerose improvvisazioni che sono frutto di un divertimento sincero. Simpaticissimo e lo "scat" di Lucio Dalla durante le pause strumentali, bellissimi gli accompagnamenti della batteria che, con molta umiltà, lascia spazio alle percussioni e alla chitarra elettrica che miracolosamente diventa awayana. Un po' più deludenti sono i controcanti tra le due voci, perché nella musica leggera non si ha molto l'abitudine della comunità del canto. Va anche detto che, forse, le due voci non sono perfettamente intonate (forse de Gregori lo cerca a forza di scimmiottare Dylan e i suoi controtempi).
Continuando con il repertorio del romano, si ascolta un'emozionante versione de "la leva calcistica del '68", che Dalla arricchisce con leggerissime ma azzeccate venature di sassofono. Mi sta piacendo molto, perché i due artisti stanno smussando tutti quegli angoli delle loro personalità che me li fanno amare meno in condizioni normali. De Gregori sta un po' lasciando da parte la sua anima da "bluesman de noantri", mentre Dalla ha lasciato a casa un po' delle sue e sperienze elettronicheggianti, per tornare all'insostituibile sonorità acustica dei fiati e degli strumenti "veri".
Andando avanti e tornando al repertorio di Dalla, si ascolta una bellissima versione di uno degli ultimi gioielli che il bolognese è stato in grado di regalarci, quella "Canzone" che ha giustamente trainato al successo quell'ottimo disco che è "Canzoni" (1996).
Le atmosfere etniche forse in questa occasione si rarefanno un po', ma il nuovo vestito pop non le sopraffà mai fino a farle sparire. Curioso è lo "scat" di Lucio Dalla che imita il mandolino, rafforzamento delle atmosfere già presenti nella versione originale. Anche qui De Gregori ha fatto un brevissimo intervento vocale, che è stato seguito dall'unico momento poco piacevole di questo brano, un'interpretazione del ritornello con impostazione semilirica da parte di Lucio Dalla, che dimostra forse che il cantautore è veramente preso da quella "demenza senile" di cui lo accusano, anche se la sua testa, ve lo giuro, ancora funziona.
Si continua con uno dei brani che già fanno parte del periodo in cui iniziavo a distanziarmi da Lucio Dalla, forse per una freddezza musicale che iniziavo a riconoscere, od anche per un che di troppo impersonale nei testi. Il brano, che dette il titolo ad un album che Dalla pubblicò nel 1994, si chiama "Henna". Il brano, forse, a me non piace perché il messaggio antimilitarista, è riportato su un frangente troppo patetico, troppo sentimentale, che io in fondo non ho mai amato.
Tornando al repertorio di De Gregori si ascolta una bellissima canzone che ha turbato Dalla l'anno della sua uscita, la veramente notevole "Santa Lucia", che era presente in "Banana republic", anche se non la si condivideva, inquanto era solo De Gregori ad interpretarla. Lucio Dalla, forse, qui ne ha dato una versione esageratamente sporca, che non permette la scoperta completa della notevolissima melodia, comunque è stato un altro momento bellissimo di uno spettacolo per ora stupendo.
Ecco il primo brano di quelli di De Gregori che, nonostante la grande forza del testo, non mi ha mai colpito perché, in fondo, la via privilegiata per scoprire una canzone è sempre la musica. Il brano è "L'agnello di Dio", che era stata una canzone che aveva permesso al pubblico del cantautore di sapere dell'uscita di "Prendere e lasciare" (1996). Mi piacciono molto gli interventi del sassofono "ruvido" di Lucio Dalla.
Tornando al canzoniere di Lucio Dalla, finalmente si risente il repertorio per cui questo artista si è già aggiudicato un posto nella storia. Il brano è "Piazza grande", che è sempre stupendo, anche se, forse, sul finale si è un po' perso per un accordo di "sol maggiore" che va ad accompagnare, innaturalmente, un "la" eseguito dalla voce di Dalla.
Il concerto continua con una particolarissima e piacevolissima versione di "Just a Gigolo", uno dei brani che è stato composto da qualche anonimo immigrato italiano ed è stato "rubato" dallo "star system" americano. La versione di Lucio Dalla e Francesco de Gregori è un misto fra un swing, che è comunque la matrice dominante, portato da Dalla, e certe venature più blues e folk americano, portate da Francesco de Gregori.
Tornando alle atmosfere che avevano caratterizzato la rielaborazione di "Piazza grande", che portava con sé anche un mandolino, ascoltiamo un inedito intitolato "Granturismo", dedicato alla vita del girovago. La canzone afferma che "Un uomo se è uomo davvero radici non ha". Io rispondo che, anche questo gran viaggiare, se non si hanno radici nell'anima, le quali possono anche essere aiutate da quelle geografiche, non porta a niente, anzi porta a creare quei mostri che popolano la nostra attuale società, quella giustamente odiata da Guccini, quella del "villaggio globale".
Il brano, comunque, è bello, leggero, ben cantato e suonato.
Si continua, tornando al repertorio più che conosciuto e dedicandoci al canzoniere di De Gregori, con una delle mie canzoni preferite del romano, quella "Viva l'Italia" il cui disco originale mi fu regalato quando io ero molto piccola, quindi è pieno di ricordi. E' una versione leggermente più rurale, infatti il ritmo di blues è stato stemperato in un ben più italiano valzerino. Non amo il coretto che ha enfatizzato, come un tic-tac di sveglia ogni istante del brano, ma comunque mi ha fatto sempre piacere, le canzoni belle sono quasi sempre belle, per abbrutirle ci vogliono ben altre operazioni.
Questa volta, in questa pesca di capolavori, si fruga nel canzoniere di Dalla, andando a riprendere quella bellissima "Com'è profondo il mare", che ha segnato la grandezza di Dalla anche come poeta. L'accompagnamento è leggermente new age, non è forse particolarmente piacevole, ma è sempre un pezzo talmente notevole che si passa sopra tutto.
Interessantissimi sono i controtempi che ogni artista esegue nelle rispettive strofe, innescando fortissimi meccanismi creativi che, se da un lato non permettono di cantare il brano, ci dànno un assaggio di ciò che il canto dovrebbe essere sempre, una confessione a cuore aperto.
Continuando, sempre "rubata" dal repertorio di Lucio Dalla, arriva quella che, purtroppo, è diventata la colonna sonora di ogni veglione di capodanno che voglia avere le pretese di essere chic. Il brano, ovviamente, è "L'anno che verrà". E' una versione molto buona, anche se, forse, ha avuto esagerate venature blues in corrispondenza del "Vedi caro amico...", ma niente da eccepire.
Continuando, in questa "caccia al capolavoro", si arriva a "Rimmel", un altro di quei brani che fanno sfilare un fiume di ricordi dela mia infanzia. Va detto, infatti, che la cassettina originale del disco di De Gregori, che ancora possiedo anche se non ascolto più, mi fu regalata da una persona a me molto cara, oltretutto il vinile, invece, era uno dei più ascoltati della grandissima collezione di mio zio. La versione che si ascolta, interpretata da un Francesco de Gregori in grandissima forma, risente, forse, di qualche eco della notevole versione di Morandi nel già recensito "Canzoni da non perdere". Questa sera, bisogna dire la verità, la ruvidezza che De Gregori ha iniziato ad imprimere al suo canto da quindici anni a questa parte, non sta inficiando la coerenza melodica di queste bellissime canzoni.
Ed a proposito di gemme del repertorio di De Gregori, ci troviamo con una "La donna a cannone", interpretata dal romano solo voce e pianoforte, quindi con un prisma molto intimistico, che, comunque, questa canzone non ha mai perso. Divagando, a parte la versione contenuta nel q disc originale del 1983, notevolissima è quella contenuta in uno dei tre live che De Gregori fece uscire nel 1990 (ancora non esistevano i cd tripli, sennò questo poteva essere benissimo uno stupendo cofanettone!). Mi riferisco al disco che ha il titolo in inglese, scusate ma non lo posso andare a cercare, chiedo venia.
Andando avanti e tornando al repertorio di Dalla, si sente una "Caruso", uno dei brani più famosi e da me meno amati del bolognese. Quello che non mi piace, sinceramente, è l'esagerato patetismo un po' melodrammatico che quasi mai fa per me. L'unica versione di cui mi ricordo con emozione, forse per la presenza del grandissimo chitarrista che accompagnava Dalla, è quella che costui cantò accompagnato dal trio di Marco Poeta a Sirmione, in uno spettacolo televisivo presentato da Carlo Conti (recuperatevi l'esibizione di Lucio Dalla e "Marco Poeta e il suo trio di fadisti", che è una cosa geniale! Anzi ne approfitto per lanciare un appello: chi di voi l'avesse conservata e fosse nelle possibilità di postarla su Youtube lo faccia, per favore con riprese dirette dalla televisione, basta con le indecenze da telefonino!). La versione che abbiamo ascoltato, comunque, anche se forse era priva di quella classicità che si confà a questo brano come nessun altro ambiente, è stata penetrante.
Mi mancava un po' di vera polemica, ma eccola qui: come ca... spita si fa a fare una "Buonanotte fiorellino" a blues, con un inizio che farebbe pensare ad una bellissima "Quattro cani"? Va bene che De Gregori si sarà stancato di questo brano, ma se devo pensare ad una versione stravolta (comunque con molto più rispetto di quanto lui stesso non stia facendo con una sua creazione!) mi prendo un "Treinta años en vivo, Viva Itália" degli Inti-Illimani e mi godo la settima traccia, un valzerino con "temperinho" sudamericano che è appunto una "Buonanotte fiorellino".
Fortunatamente il concerto si riprende subito con un bellissimo inedito, intitolato "Non basta saper cantare", che riprende un po' le atmosfere di "Santa Lucia", citando leggermente, forse, anche quelle di "Napule è" di Pino Daniele.
E' davvero bella e mi auguro che Lucio Dalla mantenga le promesse che fa in questa presentazione, ossia mi auguro che questo brano sia presente nell'album che uscirà da questa tournée, dove, non è di troppo ripeterlo, si ascoltano due artisti mentre si divertono e giocano con il loro mestiere (veramente difficile!).
Si continua, tornando al repertorio edito ed andando verso il canzoniere dalliano, con "4 marzo 1943" che, fortunatamente, non è interpretata alla "Banana republic" (infatti quella versione non la sopporto: come si fa a fare questa canzone a reggae!). E' bellissima la fusione dei due stili che, come già avevamo notato nelle prime canzoni, sta piacevolmente continuando a creare un unicum irripetibile. La versione di "4 marzo" ricorda molto quella di "Dallamericaruso" (1986), che approfittando dell'occasione vi consiglio di scoprire.
Il concerto, veramente bello, si chiude con una versione di "Ma come fanno i marinai" che, pur essendo esageratamente sudamericana e non mantenendo l'insuperabile pezzo di clarino che la iniziava nel vinile "banana republic", è carina. Il clarinetto entra nella seconda strofa, ed è accompagnato da un leggero vocalizzo da transatlantico di De Gregori.
E' un concerto davvero bello, se potete andate alla data che vi è più vicina, perché vedere due mostri sacri divertirsi dà un gusto troppo grande.
Spero di avervi fatto venire voglia e curiosità, ci vediamo al "post che verrà".
Il pubblico scalpita, tirando forse fuori anche delle trombette da stadio, ma non ottiene assolutamente niente, d'altronde i due artisti sono abbastanza scorbutici.

domenica 21 marzo 2010

Commento alla puntata del 21/03/10 di "canzonenapoletana@rai.it"

Carissimi lettori, eccoci alla quarta puntata del ciclo su Salvatore di Giacomo di "canzonenapoletana@rai.it". E' un ciclo che mi dà una felicità del tutto particolare, perché ritengo di Giacomo un poeta con un respiro del tutto speciale, che va al di là della sempre riconosciuta grande qualità letteraria. Ritengo il suo napoletano pregno di una dolcezza particolare, di un certo pittoresco malinconico, che mi è particolarmente congeniale.
Si inizia con una carinissima "'E tre terature", una delle più sconosciute canzoni di Di Giacomo. E' una canzoncina d'amore piccantino, genere nel quale il nostro era un maestro insuperabile. La versione che ascoltiamo, come sempre, è d'epoca ed è molto rovinata. E' interessante perché i protagonisti sono due tra i più importanti interpreti del teatro napoletano, Eduardo Scarpetta e Bianca Cappello. La versione è forse un po' troppo teatrale, anche un po' sguaiata, ma si può ricorrere, per scoprire questo gioiellino digiacomiano, all'antologia della canzone napoletana compilata ed interpretata da Carlo Missaglia, grande cantante e suonatore di cui qui si è già pubblicato un profilo.
Un genere che si addiceva molto alla poesia di Di Giacomo, anche per la sua grandissima passione per quell'epoca storica, era la musica di ispirazione barocca, specialmente le "barcarole". Ne stiamo ascoltando una, intitolata "Pusilleco", scritta sempre nel 1898, ancora una volta insieme a Vincenzo Valente. Non capisco il testo, purtroppo, posso solo dirvi che la melodia è profondamente bella.
Stiamo ora ascoltando una "Serenata triste", che ci viene interpretata da Beniamino Gigli, forse il tenore che ha interpretato meglio la canzone napoletana pur non essendo napoletano. E' una serenata dove un uomo si rassegna all'instabilità dell'amore della propria amata, ma con una galanteria veramente invidiabile. La musica è una "barcarola", con delle pause che la rendono più raffinata e meno barocca, ma forse anche meno bella della precedente.
Siamo con un posteggiatore, quel Giorgio Schotler che avevamo già trovato in una delle prime puntate del ciclo, che ci sta proponendo uno dei brani meno conosciuti dell'autore napoletano, intitolato "Ma chi sa". Purtroppo anche stavolta mi è impossibile riferirvi particolari del testo, perché il disco da noi ascoltato è molto rovinato. A livello musicale ritorna l'impronta di Pasquale Mario Costa, in una delle sue ultime collaborazioni col Di Giacomo.
La puntata continua con "Palomma 'e notte", uno dei classici assoluti della produzione digiacomiana, la cui musica è di Francesco Buongiovanni, infatti potrebbe ricordare altri capolavori del musicista, sempre caratterizzati da questo tempo ternario raffinatissimo, come "'A cartulina 'e Napule", scritta circa una ventina d'anni dopo. La versione che stiamo ascoltando è quella di Gennaro Pasquariello, ottima ma non perfetta, soprattutto per alcune pause che, con una sensibilità moderna, si tenderebbe a trovare discutibili. Notevolissima, secondo me, è la versione di Raffaella de Simone contenuta in "Concerto napoletano", bellissimo cofanetto dell'Acheri music, dove alcuni cantanti della Napoli di oggi si appropriano, rispettosamente e meravigliosamente, dei capolavori di quella di ieri.
Stiamo ora ascoltando, dalla voce di un tenore, una delle più rare canzoni di Di Giacomo "Tu nun me vuo' cchiù bene". La versione è troppo veloce, senza interpretazione effettiva, senza posto per le sfumature. Il grido d'amore del protagonista è espresso con troppa fretta dalla voce di Eugenio Cibelli. Molto migliore, almeno per me, è la versione contenuta nella "Napoletana" di Roberto Murolo.
La puntata si chiude con una tarantelluccia spassosa intitolata 'O campanellaro", risalente al 1908 ed interpretata da Francesco Marcarella. Non è una tarantella raffinata, vi si trova piuttosto una voglia di divertirsi con la musica e le note.
Chiedo scusa per la vaghezza di molti commenti a questa puntata, ma vi si sono sentite troppe canzoni molto rare e riprese perciò da dischi antichi, quindi meglio non si poteva fare.

lunedì 15 marzo 2010

Ricordo francese (a Jean Ferrat)

Carissimi lettori, in un articolo precedente vi avevo detto di non essermi ancora raccontata per intero, e questo post lo dimostrerà. Infatti, finalmente, riesco a parlare un po' del cantautorato francese, che è una passione che viene dall'esperienza francese della mia famiglia, che, avendo una gran parte emigrato dal 1958 al 1968, porta ancora intensamente stampato nell'anima il repertorio di artisti come Georges Brassens, Leo Ferré, Yves Montand ecc.
Purtroppo, però, anche questa volta, il pretesto per raccontarvi questa mia passione, è la necessità di ricordare un grande cantautore deceduto due giorni fa nell'Ardeche. Il cantautore in questione, che utilizzava lo pseudonimo di Jean Ferrat, è forse la più bella voce maschile che la Francia ha mai conosciuto.
Il cantautore è il più grande rappresentante della musica impegnata in Francia, infatti è spesso legato al Partito Comunista francese, con il quale però, altrettanto spesso ha dei dissidi. Questa sua condizione di cantante politico, amici, non deve far pensare ad un artista che si scorda d'essere artista.
Le sue canzoni, che forse possono avere delle sorelle in certo repertorio di Fabrizio de Andrè, sono dedicate, con grandissima e forse unica tenerezza, a personaggi emarginati come i nomadi, o comunque a categorie che rischiano la loro vita, come i guerriglieri.
Il suo timbro, dolcissimo ma altrettanto potente e baritonale, è una delle caratteristiche più emozionanti che io conosca. Mentre scrivo, come faccio sempre quando produco articoli in memoria di qualcuno, mi sto facendo portare dalle sue note.
La musica dei suoi brani non è il folk tedioso che negli stessi anni permetteva ad artisti come Paolo Pietrangeli o Ivan della Mea di farsi ascoltare da un'élite di persone che oggi ne sono quasi tutte profondamente pentite, ma era musica leggera che, però, diventava un'arma dal taglio mortale tramite il testo.
Oltre alla politica e la rivendicazione sociale o anche sentimentale riguardante il mondo che lotta, l'altra grande coordinata della carriera di Jean Ferrat è la poesia, soprattutto quella del poeta comunista Luis Aragon, che il cantautore ha magistralmente musicato in due lp usciti uno dopo l'altro rispettivamente nel 1980 e nel 1985. Il primo, in realtà, è una raccolta di alcune poesie incise da Ferrat per la Barclay durante i tredici anni della sua travagliata collaborazione con la nota casa discografica francese.
Qualche volta, poi, c'è anche spazio per l'ironia, come in questa carinissima e geniale "A Santiago" , dedicata alla città cubana.
Neanche Jean Ferrat, ovviamente, è scappato al mito del "valse musette", che però ha colorato con un ritratto di una ragazza che lavora in un'officina, quindi completamente lontana dalla Francia da rivista che in quegli anni si imponeva irrimediabilmente alla vista del mondo. Non mancano, altrettanto ovviamente, nel suo repertorio gli omaggi alla capitale di Francia, città che ha tirannicamente condizionato la musica e la storia del paese.
Avrete capito che mi è particolarmente difficile raccontare le grandi emozioni, quindi io non ho voluto fare un ritratto di Jean Ferrat, ma vi ho solo voluto avvertire del fatto che è esistito, affinché qualcuno si faccia portare da questa magica voce, che, oltre a cantare bellissimi testi, era in grado di concepire musicalità che possono assolutamente intrappolare anche chi non sa la lingua di Molière con la loro infinita ricchezza.
Per scoprire Ferrat, credo non ci sia di meglio che procurarsi il doppio dedicato agli anni Barclay, quelli che vanno dal 1963 al 1976. Buon ascolto!

domenica 14 marzo 2010

Commento ala puntata del 14/03/10 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco qui il commento alla terza puntata del ciclo su Di Giacomo di "canzonenapoletana@rai.it", nonostante le infinite sofferenze. Le sofferenze, e voglio spendere quattro parole questa volta, sono dovute al fatto che la Rai, che si vanta di essere il "servizio pubblico" italiano, ha reso il sito dedicato ai suoi programmi internazionali, quello che permette l'ascolto di questa trasmissione, molto difficilmente accessibile a noi non vedenti (chi esclude qualsiasi categoria non si può chiamare "servizio pubblico", magari si potrebbe chiamare "servizio di maggioranza!").
Ma veniamo alle cose a noi note e da noi amate, perché si inizia a ricordare i capolavori digiacomiani.
Si inizia con un brano intitolato "Ammore piccerillo", uno di quei duetti giocosi così romantici e pepati. Il brano, musicato da Enrico de Leva, è una tarantella molto addolcita, talmente che non riesce facile farsi prendere dal ritmo. L'interpretazione che ascoltiamo, di questa riflessione piccantina sull'amore, è di Amedeo Pariante e Pina Lamara, brano molto bello e sconosciuto.
Ed eccoci ad un disco molto frusciato, tramite il quale il grande posteggiatore Pietro Mazzone ci fa sentire questa "Matalè". Non riesco a capire un granché del testo, posso dirvi che è un tipico brano binario, quelli dove accordi minori e maggiori si alternano tra strofa e ritornello. L'interpretazione fa intuire la bellezza del brano, che dovrebbe essere ascoltato in una versione moderna per capirlo meglio. La musica è di Vincenzo Valente, bellissima melodia piena d'arte e di allegria.
Stiamo ascoltando ora una tarantella che, secondo me, non è di Di Giacomo ma questa è un'altra storia. Bisogna dire che lo stile ce l'ha, perché è uno di quei ritratti femminili pieni d'amore, tenerezza e spasso. La musica, di Salvatore Gambardella, è una tarantella che, poco prima del ritornello, rallenta brevemente. La versione che si ascolta è di Nina di Landa, una cantante del cafè-chantant. Per ascoltare una versione moderna di questo brano si può ricorrere all'"Antologia della canzone napoletana" di Bruno Venturini.
Ed eccoci a questa "Vocca addurosa", che Di Giacomo scrive insieme a Vincenzo Valente. Il brano, risalente al 1897, è interpretato da Francesco Daddi. E' un brano di corteggiamento spassoso, caratterizzato da una struttura fortemente binaria, quasi di marcetta, ma senza militarismo. L'interpretazione di Daddi, se magari smorza un po' la felicità presente nel testo con qualche tremolato di troppo, è comunque molto bella e anche il disco è buono (miracolo!).
Dello stesso anno è questa "'A sirena" che noi a scoltiamo nella versione di Gennaro Pasquariello, che Paquito del Bosco definisce "magistrale", ma io definirei piuttosto deludente per la sua eccessiva velocità. La versione è molto valzerata, condizione che non permette di evidenziare i bellissimi particolari della melodia, che si possono invece ascoltare benissimo nelle versioni di Antonello Rondi, Mario Abbate ed altri interpreti. E' una canzone sul potere che hanno le donne di cambiare il destino della vita d'un uomo, il quale, per quanto tenti di scappare, viene sempre irrimediabilmente attratto nella trappola.
La puntata si chiude con l'interpretazione di Francesco Daddi della "Serenata napulitana", scritta sempre nel 1897 da Di Giacomo e Pasquale Mario Costa. L'interpretazione è deludente, per gli stessi motivi della precedente, soprattutto per l'eccessiva velocità che caratterizza la prima parte di ogni strofa, quella che non viene arpeggiata. Questa serenata, fatta ad una donna che aspetta un altro uomo che nel frattempo l'ha lasciata, ha delle versioni bellissime da parte di Roberto Murolo, Consiglia Licciardi ed altri interpreti.
Spero che vi sia piaciuto questo commento, vi saluto augurandomi che questi stimoli facciano riscoprire la bellissima ed insuperabile canzone classica napoletana.

mercoledì 10 marzo 2010

Ricordo di un olandese napoletano".

Carissimi lettori, nell'articolo precedente avevo auspicato che si potesse tornare a parlare di musica al più presto. Effettivamente questa sera si torna a parlare di cose a noi più note, ma lo si fa per annunciare una morte. Proprio oggi 10 marzo 2010, ci ha lasciato il grande chitarrista Peter Van Wood, che, nonostante negli ultimi cinquant'anni della sua vita si sia dedicato e sia diventato più famoso come astrologo che come musicista, per me resta sempre legato ai bellissimi assoli di chitarra dei brani di Renato Carosone. Lo stile di Van Wood, per l'epoca, era assolutamente alla vanguardia, infatti, pur studiando al conservatorio, si era appassionato ben presto di jazz che eseguiva prima in Olanda, suo paese natale, poi nel resto del mondo toccando anche templi della musica come l'Olympia di Parigi o la Carnegie Hall di New York.
Trovo completamente geniale, all'interno del suo repertorio da solista, la giustamente ancora ricordata "Butta la chiave", dove la chitarra elettrica è in grado di piangere facendo ridere a crepapelle chiunque la sente. Il suo italiano, caratterizzato da un fortissimo ma simpaticissimo accento olandese, è una delle cose più gradevoli che ci siano. Nel suo periodo napoletano, che è quello più conosciuto della sua carriera musicale, fanno anche parte brani come "Tre numeri al lotto" (brano in italiano ma dedicato a questa mania del gioco tipicamente partenopea), "Spagnolos napulitanos", macchietta geniale tra napoletano e spagnolo.
Con la scomparsa di questo musicista, se ne va l'ultimo componente del trio di Carosone, l'ultimo legame che potevamo avere con una Napoli spassosa ma mai irrispettosa, una città che esprimeva i propri sentimenti con grande calma ed oculatezza.
Con questo breve articolo, dettato più da un'emozione istintiva che da effettiva cultura personale sulla materia, spero solo di far riscoprire il Van Wood musicista, eclissato per gli italiani dal Van Wood astrologo.
Buon ascolto e buonissime risate a crepapelle!

martedì 9 marzo 2010

Note scordate.

Carissimi lettori, questo blog è un diario dove si parla di musica, ma qualche volta si divaga. Questa sera, dopo averla covata per molto tempo, voglio esprimere la mia indignazione per quello che sta succedendo riguardo le liste elettorali del partito di governo.
La mia morale, e scusate il parolone che oggi è talmente usato a sproposito che non ci si fa neanche più caso, mi ha sempre insegnato che chi non fa le cose in regola poi la deve pagare, mentre mi pare che i signori che detengono il potere in questo paese non vogliano neanche riconoscere i loro errori spiccioli, stupidi e grossolani.
Mi sembra un atteggiamento da dittatori, da superbi e disonesti, ma ora la freccia non li può colpire. Trovo vergognoso, e sono felice che tutta l'opposizione sia contraria, che si voglia rimandare il voto perché nel Lazio i votanti non possono dare la preferenza al partito di governo, che tra l'altro non è l'unico che appoggia la candidata del centro-destra (se non si poteva votare per il candidato mi sarebbe stato bene qualsiasi intervento, questo è ovvio, perché io tengo alla democrazia). Poi, se ne vogliamo parlare, il mio concetto di democrazia sarebbe più radicale, ossia non mi piace questo regime in cui noi dobbiamo votare per dei partiti che a loro volta, secondo logiche completamente aliene alla nostra volontà, scelgono chi ci rappresenterà materialmente.
Per quanto riguarda il nostro capo dello Stato, persona per la quale ho un'incrollabile stima, credo che non avrebbe potuto comportarsi diversamente, ossia non gli sarebbe stato possibile negarsi a firmare il decreto di recente approvato, anche perché un comportamento simile avrebbe significato attirarsi le antipatie di alcuni esponenti del governo che, dietro il loro falso rispetto per le istituzioni, nascondono anime da lupi.
Anche nella sinistra vi sono moltissimi lupi, basta pensare a quel teatrino di cui si è reso protagonista il sindaco di Bari pur di liberarsi, cosa che non gli è riuscita come non è riuscita al Partito Democratico, di Nichi Vendola, che insieme ad Emma Bonino e Giorgio Napolitano, completa il trio degli unici politici che posso sentir parlare e di cui posso dire di avere stima.
Questa divagazione politica, infatti, mi è stata suggerita da un suo scritto presente nel blog del sito http://www.nichivendola.it/, dove il nostro palesa tutta la sua indignazione su questo argomento, sperando che la manifestazione di piazza di sabato prossimo, a cui andrà molta gente come mi auguro, oltre che adirarsi contro questa pagliacciata elettorale, ricordi al governo che vi sono anche i problemi del paese da risolvere.
Mi sembra che questo governo non sia il "governo del fare" così spesso citato dal suo capo, piuttosto quello dello "sfasciare", del "rovinare", dell'"attaccare", dell'"assediare", del "corrompere". Mi sembra che questa legislatura sia quella degli annunci televisivi, della propaganda per nascondere ciò che non si è fatto, si vedano le tonnellate di macerie che ancora infestano l'Aquila. Mi sembra poi che l'Italia centro-meridionale sia particolarmente negletta da questo governo, che è il governo del Nord, nonostante che numerosi incarichi importanti siano appannaggio di gente meridionale, che di meridionale ha solo il fatto di essere nata al Sud (vedasi il ministro agli Affari regionali Raffaele fitto, che ha avuto la sfrontatezza di impugnare una legge regionale Pugliese, solo perché Nichi Vendola ha avuto il coraggio di dire che nella sua regione, una delle più ecosostenibili d'Italia, non ci vuole le centrali nucleari, perché questa energia sarà pulita quanto volete ma ha delle scorie difficilissime da smaltire, quindi ciao pulizia!).
Con questa serie di "note scordate" voglio che mi si conosca anche da questo punto di vista, ossia si possa scoprire che per me la musica è solo un modo di vedere la vita, non una droga che me ne fa evadere.
Tornando a questo governo, con tutta la sincerità io non concepisco il fatto che, dopo aver patito come si era patito sino al 2006 con il precedente esecutivo guidato dal "cavaliere", si possa aver riaffidato il comando a questa gente.
Va detto che forse ora come ora l'unica comunicazione possibile è quella televisiva, e noi forse non ne siamo sufficientemente al dentro, ma io non voglio pensare che è solo questo che determina il successo elettorale di un dato programma.
Scusate la divagazione politica, spero di riparlare di musica al più presto, anche perché questo, non vi preoccupate, rimarrà sempre e comunque un diario su questo argomento. Spero solo che i nostri governanti, che hanno interesse agli argomenti solo se li riescono a portare a loro favore, ci riescano a far compiere il nostro dovere civico.
Sinceramente, oltre che per la musica popolare, ora come ora invidio i pugliesi anche perché possono votare per un grande uomo politico come Nichi Vendola!

lunedì 8 marzo 2010

Riflessioni d'anniversario

Carissimi lettori, questa sera voglio scrivere per festeggiare un anno di "Musica secondo me".
Per me aprire questo blog è stato un sogno avverato, è stata la possibilità di condividere con molta gente le mie passioni, e tante ancora ce ne saranno. E' stata una miccia che si è accesa, un racconto che non vede per ora la fine.
Mi piace pensare di aver messo in convivenza due universi separati spesso arbitrariamente, quello della musica tradizionale e quello della musica d'autore, ambedue colpevoli di quello che sono.
Non mi sono ancora raccontata per intero, ci sarebbero tematiche che vorrei approfondire, dopo magari averle citate in qualche articolo come "condimenti" ad altri piatti musicali, ma essendo io una persona molto timida, pudica e mancante di coraggio in molte cose riguardanti le relazioni esterne, non ho forza per farlo.
Come avete visto questo blog è prevalentemente a vocazione italiana, questo perché, oltre ad essere profondamente convinta dell'importanza di un blog dedicato all'"altra" musica italiana, ossia a quella che i media ufficiali ignorano o trattano con superficialità da promozione immediata, è più facile reperire materiale o anche solo le persone da poter intervistare.
Avrete notato, infatti, che a me non piace raccontarmi solo per quello che sono, amo anche che, tramite me, artisti che giudico grandi si raccontino.
Sono già riuscita a fare molto, ma spero di migliorare ancora nel prossimo futuro.
Spero di poter riparlare di musica tradizionale del Sud Italia, della quale, avrete notato, è diverso tempo che non ci occupiamo. Va da sé, chi mi conosce bene lo sa ma è meglio dirlo, che ciò dipende da fattori estranei alla mia volontà.
Voglio concludere con due desideri che mi porto dietro da una vita: spero di potervi regalare un'intervista con Marco Poeta, grandissimo suonatore di chitarra portoghese, nonché concludere, una volta per tutte, quella con gli Zoè.
Va detto, a completa giustificazione dei citati, che il più grande scoglio per la realizzazione di questi due miei progetti è la mia proverbiale timidezza (non esagero, nonostante che io abbia questo blog, sono una vera timida!).
Sinceramente, così concludo, l'idea di farmi un blog è nata dopo i numerosi incitamenti rivoltimi dalle persone a cui, non so perché, facevo leggere alcuni miei scritti che poi ci sono confluiti tra i primi post. Io, da diverso tempo, scrivevo così, giusto per fissare quello che vivevo. Non mi interessava farci niente, era uno sfogo.
Sono comunque felice di questa avventura, non vi preoccupate che si continua!

domenica 7 marzo 2010

Commento alla puntata del 07/03/10 di "Canzonenapoletana@rai.it.

Carissimi lettori, ecco qui il commento alla seconda puntata che "canzonenapoletana@rai.it" dedica a Salvatore Di Giacomo.
Si parte malissimo per quanto riguarda i dischi usati, ma fortunatamente conosco il brano che è trasmesso, per cui il problema è meno grave. Il brano con cui si parte è "'A retirata", brano di ispirazione romantico-militaresca, che si ascolta dalla voce di Francesco Daddi. Il cantante ha una buona voce di tenore, e quello che rende il brano più prezioso che mai, è la sua intimità quasi cameristica, data dal fatto che l'unico strumento che accompagna questo sentitissimo addio, sia solo un pianoforte.
Per scoprire "'A retirata", fortunatamente non c'è bisogno di ricorrere a registrazioni storiche, si può pensare semplicemente alla bellissima "Napoletana: antologia cronologica della canzone partenopea", incisa negli anni Cinquanta da Roberto Murolo e reperibilissima in cd.
Si è appena ascoltata la bellissima voce baritonale di Titta Ruffo, che ha interpretato "Munasterio", uno dei brani che a me sono più indifferenti tra quelli che conosco di Di Giacomo (forse è l'unica poesia musicata del napoletano che non amo!).
Subito dopo, e sto soffrendo perché la canzone la amo moltissimo ma la versione è quantomeno deludente, si ascolta "Pastorale", anche conosciuta come "'A nuvena". La versione che abbiamo ascoltato, cantata con un ritmo veloce esageratamente pronunciato, è cantata da Giuseppe de Luca, che dalla pronuncia non pare neanche napoletano.
Fortunatamente ci sono bellissime versioni moderne, soprattutto quelle di Sergio Bruni (in "Omaggio a Di Giacomo"), e di Egisto Sarnelli.
La puntata fortunatamente si riprende subito con una carinissima versione di 'E spingule frangese", brano che si ascolta eseguito da Giorgio Schotler, grande posteggiatore dell'epoca. Il brano è più veloce rispetto a come lo si sente abitualmente oggi, ma è molto bello, anzi forse proprio per questo è così bello e piacevole. Infatti, la velocità, che comunque non è mai esagerata e non annulla le importantissime pause così tipiche del genere "classico", gli dà una leggerezza veramente invidiabile. Se volete ascoltare unha versione moderna, potete benissimo sentire quella di Roberto Murolo sia in "napoletana" che in "Anema e core" (Carosello, 1995).
Ed eccoci ad uno spassosissimo duetto, a tempo di tarantella come spesso è questo repertorio, intitolato "Lariulà". La versione è molto bella, ma credo che sia difficilmente reperibile. Per trovare una versione moderna, non c'è che l'imbarazzo della scelta. Interessante è sia la versione a "duetto" di Gabriele Vanorio e Maria Paris, che quella solistica di Antonello Rondi.
La trasmissione continua con "Marzo", anche detta "Catarì", che si ascolta nella versione di Fernando De Lucia, grande tenore dell'epoca. Il testo è trattato in maniera leggermente diversa rispetto a come si tende a usarlo oggi. La versione è un po' deludente, soprattutto perché non c'è espressività e non si utilizzano o evidenziano suffecientemente gli arabeschi della melodia, che sono sicuramente resi meglio da un cantante d'impostazione popolare piuttosto che da un tenore.
La puntata si chiude con una delle mie canzoni preferite di Di Giacomo, la tarantelluccia spassosa "Carcioffolà", che si ascolta nella versione di Raffaele Balsamo, che gli dà una forte anima da "cafè-chantant". E' davvero spassosa, d'altronde non fare questo brano divertente è impossibile. E' veramente geniale la personalità di Di Giacomo, perché dall'alto della sua cultura erudita, è riuscito ad essere più popolare del popolo.
Se volete ascoltare una versione moderna di questo brano, anche qui avete l'imbarazzo della scelta, ma io vi consiglio quella di Maria Paris, magari non cantata perfettamente, ma di un pittoresco veramente insuperabile.
Sono felicissima che la Rai abbia avuto questa iniziativa di ricordare Di Giacomo, grandissimo poeta vernacolare, adesso scopritelo anche voi, così questo centocinquantenario si vivrà con meno silenzio.

giovedì 4 marzo 2010

"Ciao a te" Lucio Dalla

Carissimi lettori, voglio iniziare questo articolo ringraziando tutti coloro che da varie parti mi hanno fatto pervenire apprezzamenti su questo blog, che è solo un mio diletto e niente più.
Oggi, 4 marzo, uno dei più grandi cantautori italiani compie gli anni, quindi ne voglio approfittare per mettere insieme un distillato di sensazioni e ricordi legati alla sua musica. Naturalmente, come molti sapranno, il cantautore in questione è il bolognese Lucio Dalla.
Non so dirvi con esattezza quando ho scoperto la particolarissima voce di questo artista, credo che mi abbia sempre fatto compagnia.
Il primo ricordo di Dalla che riesco a farmi venire in mente è una raccolta, che possediamo sia in cassetta che in lp, dedicata al suo primo periodo. Mi ricordo che, quand'ero piccola, l'unica canzone di quel disco che non potevo sopportare era "Paff bum!", che tutt'ora trovo abbastanza insipida. Voglio anzi ammettere subito che il primo Dalla, quello che va da "1999" (1966) ad "Automobili" (1976) escluso, cosiccome l'ultimissimo, quello che va da "Ciao" (1999) ad "Angoli nel cielo" (2009), non mi riesce ad emozionare per motivi opposti e complementari. Se i primi dieci anni di carriera li trovo spesso avanguardistici ed esagerati (ovviamente non disconosco capolavori come "Piazza grande" o "La casa in riva al mare"!), gli ultimi dieci non mi arrivano perché li sento freddi e senza più voglia di fare (Riconosco la bellezza di brani come "Scusa", "Prima dammi un bacio" o la nuova "Puoi sentirmi").
Un disco di Dalla a cui sono molto legata, anche se non ne saprei esattamente dire l'anno, è il q disc che conteneva "Ciao a te", "Telefonami tra vent'anni", "madonna disperazione" e, soprattutto, la bellissima cover di "Have you got a friend" di Carole King, eseguita dal nostro con il clarinetto, strumento che ancora si diletta a suonare, anche se ora fa troppo il cantante e non suona più in pubblico. Noi questo disco lo abbiamo in vinile, quindi non me lo sento per intero da tempi veramente lontani (una ventina d'anni tutta!). Nonostante ciò mi ricordo benissimo quanto mi piacesse la naturalezza con cui il nostro cantava quei testi, che io sicuramente all'epoca capivo male, ma che comunque mi facevano divertire.
Legata alla mia infanzia, poi, possiamo trovare anche "Fumetto", bel rockettino fatto con una lista allucinante di personaggi di fumetti, che era contenuto in una raccolta intitolata "Cantautori anni d'oro", di cui, insieme a "Canzone scritta sul muro" di Claudio Lolli, ha sempre costituito per me la punta di diamante. La voce di Dalla qui è ancora "nera", ma c'è leggerezza in giusta dose, cosa che manca spesso nel Dalla del primissimo periodo, appunto quello 66-76, e forse predomina esageratamente nell'ultimo.
Altro grandissimo ricordo legato a Dalla è "Banana repubblic", album del 1979 frutto della tournée con Francesco De Gregori. Non mi ha mai convinto la qualità dell'audio del disco, neanche in versione digitale, ma alcuni brani, specialmente le versioni del repertorio di De Gregori, sono meravigliosi. Adoro, soprattutto "Quattro cani", che acquista un ambiente blues anche grazie al brevissimo ma folgorante assolo del sassofono di Dalla, che qui dà una delle sue migliori prove. Meravigliosa è, poi, "Ma come fanno i marinai", brano scherzoso e sfizioso sempre figlio di quelle atmosfere swinganti che si confanno moltissimo al nostro. Non ho mai amato, invece, la reinterpretazione di "Piazza grande" e meno ancora quella di "4 marzo 1943", brani che trovo insostituibili nelle loro versioni storiche da studio, anche se apro un'eccezione per la seconda, dando il privilegio dell'apprezzamento alla versione di "Dallamericaruso". Questo è, infatti, l'altro album fondamentale per quanto riguarda Lucio Dalla, assolutamente forte e perfetto, anche grazie all'insuperabile apporto degli "Stadio".
L'unico mio contatto personale con Lucio Dalla, se si vuole escludere un concerto dei tempi di "Cambio" dove io invece di ascoltare dovetti cantare tutto per sentire qualcosa perché le note arrivavano come un'eco dall'oltretomba, è stato in occasione dell'inaugurazione dell'Accademia del Fado diretta da Marco Poeta e con sede a Camerino. In quell'occasione, incredibile a dirsi, il musicista bolognese ha riacquistato la forza dei suoi tempi migliori, specialmente perché si sentiva che si divertiva nel cantare. L'accompagnamento, naturalmente se si parla di Marco Poeta, è stato acustico, completamente "afadistado", permettendo a Lucio Dalla di improvvisare in maniera completamente nuova su suoi vecchi brani come "Caruso", "Piazza grande", "4 marzo 1943", e non so se altri. Conobbi in quell'occasione Lucio Dalla che si è dimostrato simpatico, rispettoso e gentile, tanto per smentire quel mito dell'artista che, scontrosamente, non si concede al suo pubblico.
Voglio concludere questo articolo su Lucio Dalla con una curiosità legata ad un lp che ha cullato la mia infanzia grazie ad alcuni miei parenti molto legati alla Spagna. Esistono almeno tre versioni meravigliose in lingua spagnola del repertorio del bolognese. I tre brani, intitolati "María", "Oh que será, que será" e "Qué profundo es el mar", si possono trovare nel disco "Amor primero" del cantautore spagnolo Patxi Andión, che conteneva anche una carinissima "Canela pura".
Spero di avervi fatto piacere con questo distillato di istantanee su Dalla, grazie ancora a tutti e a presto!
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