sabato 27 febbraio 2010

Francesco Guccini a Perugia

Carissimi lettori, oggi sono particolarmente felice di aggiornare il mio blog, poiché, dopo sette mesi e una settimana di digiuno, ho visto un concerto.
Ieri sera, in un Palaevangelisti gremito, si è esibito Francesco Guccini. E' stato un concerto bellissimo, sia perché noi lo abbiamo accolto come sempre benissimo, sia perché lui stava in forma ed era dispostissimo ad interloquire con il pubblico.
All'inizio, come sempre, ha fatto un po' di "chiacchiere da osteria", anche se su argomenti per niente faceti. Non vorrei si interpretasse male l'espressione "chiacchiere da osteria", è l'unico modo che mi è venuto di definire questa maniera sorniona ma arrabbiata che ha Guccini di affrontare le tematiche d'attualità. Il pavanese, come lui stesso ammette nel libro "Un altro giorno è andato" (Giunti, 2001), ha sempre affrontato i concerti come delle serate da osteria, non a caso infatti si rifiuta di fare molti concerti. Dopo aver ironizzato sul recente Festival di Sanremo ed essersi soffermato sulla corruzione imperante, ha finalmente iniziato a cantare (non perché non mi piaccia la sua rabbia discreta, ma erano tre anni che non lo vedevo e fremevo da non poterne più!).
Come sempre, il concerto è iniziato con quella "Canzone per un'amica" (il cui primo titolo fu "In morte di S.F."), che il cantautore incise all'ultimo momento ed inserì nel suo primo lp quasi per caso. In questi ultimi anni, almeno dalla versione che apre "Anfiteatro live" (2005), il brano tende a perdere la sua anima di ballata per trovarne una un po' più tendente al rock. Sinceramente io resto legata alla versione di "Fra la Via Emilia e il West", che ho sempre trovato perfetta. A Perugia, sin da subito, si è avuto il piacere di ascoltare una voce ben intonata ed un gruppo di grandissimi musicisti, da Juan Carlos "Flaco" Biondini a Roberto Manuzzi, grandissimi suonatori rispettivamente di chitarra ed armonica. Altrettanto presto abbiamo avuto il piacere di sentire i controtempi particolarissimi, ottenuti annullando le pause presenti nella partitura, eseguiti dalla voce del pavanese, che ormai ama molto stendersi sulle parole, viste quasi come un tappeto senza frontiere.
La seconda canzone è stata una delle meno conosciute del repertorio del nostro, intitolata "Il tema" e pubblicata originariamente ne "L'isola non trovata" (1971), album che io non ho mai capito, forse per il suo troppo filosofare. Il brano, comunque, è stato eseguito come un jazz-vals, con leggere venature coltraniane. Hanno fatto capolino, durante tutto il concerto ma qui in particolare, alcune percussioni etniche che impreziosivano il semplice ritmo dato dalla perfetta batteria di Ellade Bandini. Si potevano riconoscere un tamburello basco, che spesso amava rullare, dei campanelli, un triangolo e varie percussioni sudamericane, quasi a rievocare le atmosfere di "world music" antelitteram di "Stanze di vita quotidiana". Purtroppo non vi posso parlare un granché dei testi, infatti il nostro palasport ha un audio a dir poco pessimo.
Si è continuato con un brano il cui ascolto mi ha causato un particolare piacere, la ballata, definita dallo stesso guccini "apocalittica", "Noi non ci saremo". L'arrangiamento, già presentato nel precedente tour del cantautore, è ispirato alla versione incisa dai Nomadi negli anni Sessanta. Le strofe, che noi tutti abbiamo cantato insieme a Guccini, erano però tutte quelle presenti in Folk Beat n. 1, primo disco che contenne la canzone. All'inizio di quasi tutte le strofe, il cantautore eseguiva interessantissimi controtempi da cantante di tango, che data la profondità a cui è arrivata la sua voce, gli si confanno molto.
Si è proseguito con un brano dove la rievocazione delle atmosfere di "Stanze di vita quotidiana", che come abbiamo detto ha caratterizzato tutto il concerto, si è fatta effettiva. Abbiamo infatti avuto il piacere di riascoltare "Canzone delle osterie di fuori porta", in una versione che da un lato presentava l'intimità del semplice accompagnamento da ballata folk di "Fra la via Emilia e il West", dall'altro la lentezza e la raffinatezza tipiche della versione del 1974. Se però da studio questo elemento dava fastidio perché non bilanciato da elementi moderni o cantautorali, qui fa piacere perché è solo un arricchimento, è solo una spezia che condisce e non opprime il sapore di base. Credo, e le considerazioni che Guccini fa durante tutto il libro "Un altro giorno è andato" me lo confermano, che l'ambiente ideale per il cantautore è quello della semplicità del gruppo pop, che si può arricchire o meno di altri elementi, secondo le singole esigenze del momento. La versione originale, così finisco la divagazione "stanzesca", accompagnata da delle tablas indiane che sostituiscono completamente la batteria, è un po' pesante ed innaturale.
Si è proseguito, ispirati sempre da questa nostalgia per il primissimo Guccini, con una versione di "Vedi cara" che ha acquistato venature di blues antico, pur mantenendo la sua inconfondibile struttura di ballata caratterizzata dal finger piking della chitarra classica, che spesso, in questo concerto, è stata sostituita dalle tastiere. Insuperabili, secondo me, sono le versioni contenute in "Due anni dopo" (in studio, 1970) e "Fra la Via Emilia e il West" (live, 1984).
Uno dei momenti più emozionanti della serata, anche se forse avrebbe suonato meglio in un teatro, è stato quello dedicato all'esecuzione di "Canzone quasi d'amore", uno dei brani che ha più cullato la mia infanzia, sia nella versione di Via Paolo Fabbri 43 (che possediamo in vinile), sia in quella live di "Fra la Via Emilia e il West", primo disco di Guccini da me posseduto. La versione di Perugia, ispirata a quella live appena citata, è stata impreziosita, oltreché dall'insostituibile assolo di "Flaco", anche dall'entrata in crescendo in ogni strofa, del basso, delle tastiere e del sassofono. Potrebbe ricordare, a chi avesse la fortuna di sentirla e conoscesse anche l'ultimo Claudio Lolli, l'ambientazione musicale di "Lovesongs", anche date le somiglianze che gli stili dei due cantautori stanno sempre di più trovando.
Sulla stessa atmosfera, anche se arricchita dal convenzionale gruppo ritmico, si è avuta una commovente "Incontro", riportata però alla velocità di "Radici", dalla cui versione, la prima mai incisa di questo brano, si riprende anche un interessantissimo passaggio sul "re quarta", eseguito da "Flaco" con sicurezza assoluta.
Un album del cantautore a cui io sono molto legata, risalente al 1993, è "Parnassius Guccinii". Il cantante, tratta da questo disco, ci ha offerto la dylaniana e bellissima "Farewell", brano con cui un uomo dice poeticamente "Addio" ad una donna. Il brano forse ha perso un po' della sua dolcezza, ma è sempre affascinantissimo. Peccato che Guccini si ostini a non fare "luna fortuna", chacarera argentina contenuta nello stesso cd, che insieme a "Canzone di notte n. 2", è la mia canzone preferita del suo repertorio.
Subito dopo, mi sono emozionata tantissimo, quando ho riascoltato, dopo anni di non frequentazione perché l'album che la contiene lo possiedo in cassetta, "Ti ricordi quei giorni". Il brano, che secondo quanto si dice in "Un altro giorno è andato" è stato scritto contemporaneamente alle primissime canzoni di Guccini degli anni Sessanta, è stato pubblicato solo in "Quasi come Dumas", disco live con il quale il cantautore ha voluto segnalare i vent'anni dalla pubblicazione di "Due anni dopo". La versione pubblicata non me la ricordo per niente, posso dire che a Perugia il brano è stato eseguito con una grandissima intimità, che ha permesso alla chitarra di "Flaco" di fare le sue inconfondibili evoluzioni classico-flamenche. Meraviglioso è stato anche il tappeto swing della batteria.
Subito dopo abbiamo avuto il piacere di sentire due inediti, il primo dei quali era dedicato alla Resistenza, fatto storico che ora è vittima di un grande revisionismo e di una grave relativizzazione. Il brano, la cui musica è di "Flaco", lo si può definire un terzinato con alcune sfumature tangheggianti. Il testo affronta, con grande poesia e realismo, la morte di un partigiano e la veglia fatta dai suoi compagni per ricordarlo "Su in collina". E' veramente emozionante.
Ancora più bello ed emozionante, se possibile, è "Il testamento del pagliaccio", brano che mischia suggestioni di tarantella con influenze swing, con una coda di brano circense. Il testo è una riflessione, secondo alcuni leggera ma comunque forte ed arrabbiata, su una serie di atteggiamenti ora molto in voga. Una piccola parte del pezzo di sassofono che divide le strofe mi ha ricordato la macchietta napoletana "Cupido questo ti fa" di Pisano-Cioffi. Purtroppo, e lo dico con vero dispiacere, questa coppia di canzoni nuove non prelude a niente di nuovo sul fronte discografico, anche se sarebbe ora perché aspettiamo da sei anni!
Subito dopo si è tornati al repertorio conosciuto, con una versione di "Don Chisciotte" che il nostro ha interpretato in duetto con "Flaco" nella parte di Sancho (il grande chitarrista è un ottimo cantante, per scoprirlo si può ascoltare "Poema al Che" da lui musicato e cantato in "Che guevara"). Ovviamente anche noi cantavamo, anche perché nei concerti di Guccini più si va avanti e più si fa effervescente l'atmosfera.
Subito dopo mi sono stupita di me stessa (scusate la parentesi personale!), perché sono riuscita a cantare "Eskimo" per intero. Il brano ha spesso trovato ritmiche oscillanti tra il jazz ed il rock, perdendo conseguentemente un po' della propria struttura di ballata, ma è sempre bellissimo. Anche qui, è abbastanza scontato se mi si conosce ma lo dico, la versione migliore è quella di "Fra la via Emilia e il West".
Direttamente da "D'amore, di morte e di altre sciocchezze", è poi arrivata "Cyrano", che ha fatto impazzire tutto il palasport ma soprattutto i miei amici, che non hanno resistito e se la sono cantata tutta asquarciagola. Effettivamente devo dire che è un brano liberatorio, io ho sempre amato il recitativo iniziale, quel messaggio fortissimo che, però, dato da una voce così profonda e calda come quella di Guccini, acquista un romanticismo strano che ti obbliga a ragionare su cosa ti si dice e non sul come. La versione, purtroppo accompagnata dalla chitarra elettrica che sostituisce la classica, forse perde un po', ma è stata sempre così quindi mi ci sono a malincuore abituata.
Uno dei momenti più commoventi, andando avanti nella scaletta, è senza dubbio la dilatatissima e ricchissima versione de "Il vecchio e il bambino". Qui, contrariamente a ciò che succede in "Fra la via Emilia e il West", Guccini non ha suonato, affidandosi all'accompagnamento della stupenda chitarra di "Flaco". In questa occasione, però, non sono solo le chitarre ad essere protagoniste, entra tutta l'orchestra, che contribuisce a togliere al brano quell'aura di valzer che gli avevano dato i Nomadi, che non permette di esprimersi alla teatralità che si deve mettere nel cantare Guccini. E' ormai sempre più difficile andargli dietro con il canto, il cantautore infatti è pervenuto ad una coscienza davvero invidiabile del fatto che le canzoni gli appartengano, che lo porta a viverle con moltissima libertà. Questo atteggiamento è da me salutato con favore, sino a quando non arriva a quegli eccessi che proibiscono in pieno il canto, quindi nel caso del pavanese è completamente approvato.
Si è avuta, poi, una canzone che Guccini considera forse "un po' banale sia dal punto di vista armonico che del testo", ma che le circostanze in cui viviamo ci obbligano sempre a cantare. Mi riferisco alla "Canzone del bambino nel vento", grazie all'Equipe 84 diventata famosa come "Auschwitz". L'arrangiamento, molto simile a quello di "Quasi come Dumas", se fa perdere al brano la semplicità della struttura terzinata, gli dona in cambio una grande solennità. Qui Guccini riprende la chitarra in mano, accompagnandosi come dovrebbe fare ogni vero cantautore (anche se Guccini non si riconosce in questa definizione).
Subito dopo è arrivata "Dio è morto", che un palasport completamente in delirio ha intonato insieme a Guccini. Il brano, cosiccome avevamo notato per "Eskimo" ed anticipandoci potremmo notare per "Un altro giorno è andato", sta acquistando una certa influenza rock che trovo esagerata. E' comunque sempre bello.
Ed eccoci appunto all'appena citata "Un altro giorno è andato", brano ripreso da quell'"Isola non trovata" che io non ho mai capito. Il brano mi piace, ma credo che l'unica versione buona che ne esiste è quella di "Fra la Via Emilia e il West".
Poteva mancare "La locomotiva"? Ovviamente no! Il concerto si è chiuso con questo brano, che Guccini scrisse in omaggio ai bellissimi canti anarchici di fine Ottocento, di cui effettivamente ricalca certi stilemi, per i quali fu anche accusato di essere un brano grondante di retorica. E' un peccato quando non si capiscono questi omaggi, quando essi sono fatti con arte e non con voglia di scopiazzare. Il brano a cui si ispira il classico gucciniano, sempre secondo quanto affermato dal cantautore pavanese nel già ampiamente citato "Un altro giorno è andato", è il bellissimo "Inno della rivolta" inciso negli anni Settanta dal Gruppo Zeta, per un lp dedicato dai Dischi del sole ai canti anarchici.
E' difficile raccontare i grandi concerti e le forti emozioni, quindi il mio consiglio è sempre quello di andarvi a vedere Guccini non appena passa dalle vostre parti!

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