domenica 29 novembre 2009

Commento alla puntata del 29 novembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco qui il commento alla prima puntata del nuovo ciclo di "Canzonenapoletana@rai.it", quello dedicato a Rocco Galdieri. Questo poeta è uno dei tanti scrittori che lavorarono tra Otto e Novecento.
Si inizia con un brano scritto nel 1905, intitolato "'O vommero", che ascoltiamo dalla voce del potente ma aggraziato tenore Dino Giacca. E' uno dei tanti inni che Napoli fa alla sua geografia, perché, cosiccome Lisbona con il suo bellissimo Fado, anche questa nostra è una città che ama cantarsi e raccontarsi, in maniera forse pittoresca e disimpegnata ma leggerissima e innegabilmente poetica.
Di due anni successiva è questa bellissima e sfiziosa "'O core 'e Caterina", che si ascolta dalla voce di Diego Giannini, altro tenore potente ma aggraziato. E' una canzone con cuui un innamorato, apparentemente premuroso con la propria amata, in verità decide di farle tutti vestiti con caratteristiche che le ricordino i danni che costei ha fatto alla sua anima.
Ed ecco "Villanova", un'altra canzone dedicata ad una località, questa volta della zona di Posillipo. E' cantata da Gennaro Pasquariello, di cui si è già parlato in occasione dell'ascolto di "Margarita de Parete" nella prima puntata del precedente ciclo del programma della Rai. La canzone è sfiziosissima, anche qui si parla, oltre che della località, d'amore, e si dice, come sempre, che questo sia particolarmente speciale per avere esperienze in questo campo.
Ed ecco qui Gennaro Pasquariello, ancora una volta, con un brano scritto nel 1908, intitolato "Tarantella 'e strata nova". E' una tipica tarantella alla "classica" napoletana, un po' cantata ed un po' recitata, e con alternanze di accordi minori e maggiori tra strofe e ritornelli.
Ed ecco una voce a me particolarmente cara,quella del tenore Salvatore Sebastiano, in arte Franco Ricci, che canta "Scanusciuta", brano risalente al 1909. Purtroppo, nonostante che il brano risalga a "soli cinquant'anni fa", (sono parole di Paquito del Bosco), si sente malissimo quindi non posso dirvi niente se non che è un valzer lento ed aperto, come sempre accordi maggiori e minori, con interessante uso cameristico dell'orchestra che, come sappiamo, all'epoca si usava ancora per incidere anche musica leggera, e ancora oggi, noto con piacere, si usa nella canzone "classica" napoletana.
Ha un secolo esatto la canzone che segue, la "Tarantella desperata", interpretata, in un frusciantissimo disco d'epoca, da Diego Giannini. E' una tarantella che, nonostante la solita apertura canora, data dal recitato, e quella armonica, data dall'alternanza di accordi maggiori e minori, è sempre forte e battente.
Del 1910 è l'ultimo brano di questa puntata, questo "Ammore traditore" interpretato da Alfredo Capaldo. Non riesco a codificare il ritmo, riesco purtroppo solo a dirvi che è molto fuori dal comune. Il testo, anche questo è un mistero, ma dai pezzi così antichi che volete?
Comunque è un gran piacere scoprire questo "Leopardi napoletano", definizione di Rocco Galdieri data da un contemporaneo, poeta timido, limpido e segreto.
Spero che vi piaccia quanto a me, non vi preoccupate che si continuerà a commentare!

sabato 28 novembre 2009

Fiorella Mannoia "Ho imparato a sognare" (r

Carissimi lettori, oggi riesco finalmente a recensire l'ultimo cd di Fiorella Mannoia, intitolato "Ho imparato a sognare", dove la cantante romana ha ripreso alcune canzoni che lei ha amato molto ma non sono state scritte pensando a lei.
Il brano che apre il cd è una canzone di Cesare Cremonini, dalla melodia straordinariamente larga, intitolata "Le tue parole fanno male". La versione di Fiorella Mannoia sicuramente dignifica un brano tra i migliori del cantautore bolognese.
Ed ecco il brano che dà il titolo al cd, quella "Ho imparato a sognare" dei Negrita. Contrariamente al brano precedente, questa è una canzone che non è passata mai o quasi mai in radio nella versione del gruppo che l'ha creata, quindi non posso fare paragoni. Se il brano precedente aveva acquistato una aureola quasi jazzistica, qui Fiorella Mannoia pare immedesimarsi molto nello stile del gruppo rock interprete originale del brano.
Subito dopo arriva "Cercami" di Renato Zero che, da sorcina quale sono, mi sta emozionando molto. La canzone ha perso un po' l'imponenza tipica di Zero, per acquistare un'intimità segreta ma meravigliosa.
L'interpretazione guizza tra tocchi jazzistici e latini, perché il ritmo si altera tramite delle battute diverse di batteria.
Subito dopo si arriva a "La paura non esiste", canzone di Tiziano Ferro che qui acquista un'intimità profonda, quella che Fiorella Mannoia ha ormai innegabilmente acquisito, in un percorso che, ininterrotto, va da "Canzoni per parlare" (1988) a quest'ultimo disco. Interessantissimi sono i piccoli tratti recitati, che caratterizzano anche, in forma più sporca, la versione del classico che segue, "E penso a te" di Mogol e Battisti.
Credo che è la prima volta che Fiorella Mannoia paga il debito che qualsiasi artista italiano che faccia musica leggera ha con i due autori sopracitati. Il brano, però, perde un po' della sua spontaneità, più un mito che altro, per acquistare visibilmente un'imponenza che nella versione originale è solo nascosta. La scelta della cantante di circondarsi solo di strumenti acustici, poi, dà un calore del tutto particolare a questa canzone, che torna, dopo numerosissime versioni semplicemente pop, ad un'orchestrazione più consona a lei.
Subito dopo si arriva a "Mimosa", una canzone di Nicolò Fabi, cantautore romano con cui Fiorella Mannoia aveva collaborato nella canzone "Offeso", artista caratterizzato da una certa tristezza antica, che nella voce della cantante dai "capelli rossi" arriva ad esplodere dolcemente.
Ed ecco che Fiorella Mannoia si appropria di una delle canzoni degli anni Sessanta, che avevano rappresentato il soffio rivoluzionario di quella specie di generazione ispirata dalla ben più seria ed autentica "beat generation" americana. Il brano è "E' la pioggia che va", lanciato dai Rokes. Il brano, come tutto questo cd, è portato verso sonorità intime, e diventa quasi cantautorale, profondamente diverso dall'originale, ma stupendo.
Fiorella Mannoia, poi, fa un omaggio ad Ivano Fossati, reinterpretando una delle sue canzoni meno conosciute, intitolata "C'è tempo". E' una ballata di quelle intime e filosofiche di un Fossati già maturo, che già vuole che i sentimenti siano razionalizzati. L'interpretazione della Mannoia è bellissima, dolce ma sempre con la minaccia di incrinarsi, perché la voce della cantante non ha più quella purezza che le si associa.
Ed ecco come si ritorna a Mogol e Battisti, con questa fresca versione, per niente "uggiosa", di "Una giornata uggiosa". Qui, finalmente, dico io, esplodono queste atmosfere brasiliane che stanno accompagnando invariabilmente le ultime produzioni della cantante. Addirittura, giusto per non smentirci, troviamo un assolo di flauto ottavino, chiamato "piccolo" nella tradizione latino-americana.
Il cd si chiude con due brani estranei al percorso tra la musica altrui che caratterizza l'album. Il primo è un rifacimento di "Caffè nero bollente", primo grande successo della Mannoia, che lo aveva lanciato ad un Festival di Sanremo. Il rifacimento, forse, non suona molto convincente, perché la forza del testo, che in fondo parla di emancipazione da un amore, è tradotta meglio dall'energia magari un po' standard della prima Mannoia, e da arrangiamenti più semplicemente pop.
Il cd si chiude con il duetto che Fiorella Mannoia ha inciso insieme a Noemi, partecipante della penultima edizione di X factor". Il brano è da brivido come tutto il disco.
Avrete capito conoscendomi che, purtroppo, quando le cose mi colpiscono particolarmente, non le riesco tanto a raccontare, ma questo è un cd da ascoltare e non da raccontare, quindi buon ascolto.

mercoledì 25 novembre 2009

Luigi Tenco: "Gli inediti

Carissimi lettori, ecco qui uno degli articoli più emozionanti che io possa pensare di scrivere, perché parlerò di un cd, pubblicato dall'"Ala bianca" nella collana "I dischi del Club Tenco". E' un doppio cofanetto con brani inediti di Tenco e con versioni altrui, altrettanto inedite, di canzoni del grande piemontese (genovese adottivo).
Il primo cd, quello dedicato più che altro alle interpretazioni dello stesso cantautore, si apre con "Padroni della terra", traduzione molto particolare de "Le deserteur" di Boris Vian. L'arrangiamento, scarno in verità, è molto più country piuttosto che jazz, forse poco compatibile con lo spirito di Vian, ma vicino a brani di Tenco come "E se ci diranno".
La voce di Tenco, qui, è bellissima anche se la registrazione, di qualità scarsa, non ne permette un godimento pieno.
Subito dopo si ha una nuova perla del repertorio di Tenco, uno dei brani mai pubblicati dal cantautore, la romanticissima "Se tieni una stella", interpretata da Massimo Ranieri. Il brano, eseguito live al Teatro Regio di Parma in occasione di una serata per il quarantennale della morte di Tenco, viene cantato magari con voce un po' incrinata, quindi viene inevitabilmente addolcito, ma tenco vi respira innegabilmente dentro.
Un altro brano mai pubblicato da Tenco, che in verità non ha fatto in tempo neanche a dargli un testo, è questa "No, no no.", che qui viene eseguita magistralmente da Stefano bollani, uno dei più grandi interpreti della scena jazzistica italiana.
Il brano è in tonalità minore e, quantomeno nell'arrangiamento di Bollani, assume uno stranissimo ritmo sudamericano.
Subito dopo troviamo Morgan che, sempre in questa serata al Teatro Regio di Parma, interpreta una versione in inglese di "Vola colomba", intitolata "Darling remember". L'interpretazione è jazzistica, ma, come sempre in Tenco, rispetta la matrice melodica italiana.
Ed eccoci ad un'interessantissima versione di "Quando", brano che nella versione ufficiale è caratterizzato da arrangiamenti classici un po' pesanti. Qui, la brevissima versione presente, è con un bellissimo gruppo jazz, a ricordarci la mai sopita passione di Tenco per questo genere di musica, che d'altronde aveva impregnato di sé tutta quella generazione che poi sarebbe stata chiamata "Scuola genovese".
Un'altra canzone in cui jazz e classico si fondono in maniera mirabilissima è "Il tempo veloce passò", incisa qui già con un'orchestra piena, e non si sa perché mai pubblicata.
Ed ecco "Come mi vedono gli altri", un interessante swing, con la solita apertura melodica quasi specifica di Tenco. Ed ecco che il cantante ci delizia con un breve assolo di sax contralto, dove si può sentire la "sensualità assoluta" caratteristica del suo stile sassofonistico.
Purtroppo, per ora, io non posso fare confronti tra questa ed altre eventuali versioni.
Ed eccoci a "Se stasera sono qui", qui riscoperta voce e piano, ossia nella sua essenza, perché, non va dimenticato, la Ricordi, quando decise di pubblicare l'lp antologico che porta lo stesso titolo di questo brano, all'epoca inedito ma poi assurto alla categoria di classico dell'opera di Tenco, ci mise un'opprimente, anche se bella, orchestrazione. Questa versione, solo voce e pianoforte, permette di fare (o rifare) la scoperta della tecnica semplice e perfetta di Tenco sullo strumento.
Subito dopo c'è un brevissimo provino "a cappella", di cui, purtroppo, non so come parlarvi.
Subito dopo, arrivano due tracce riguardanti "Ragazzo mio". La prima è una conversazione tra Tenco ed un tecnico di sala, e la seconda è una versione alternativa della canzone, incisa in una tonalità più bassa ed accompagnata con strumenti diversi. Da notare è la presenza di due strofe che, come se ce ne fosse bisogno, rendono ancora più forte questa ballata, forse tra le più profetiche del cantautore.
E, direttamente dagli archivi Rai, arriva questa "Non sono io", eseguita da Tenco accompagnandosi al pianoforte, ma senza usare il pedale per allungare le note. Questa caratteristica, che io noto particolarmente nella mia qualità di pianista, non permette all'accompagnamento di dialogare con l'apertura melodica, veramente rara, della frase del canto.
Subito dopo, siamo davanti ad un altro brano tronco, intitolato "Ah l'amore l'amore". caratterizzato da un uso particolarissimo di strumenti e tecniche esecutive tipiche di certa musica centroamericana, in quegli anni usate in tutta la musica leggera.
Subito dopo, tornando ai brani voce e pianoforte, abbiamo una meravigliosa versione di "Vedrai vedrai", la cui interpretazione, se possibile, ha una passionalità ancora più forte di quella comunemente nota, già fortissima.
Nel ritornello, l'assenza della chitarra jazz, permette (o obbliga) il pianoforte ad eseguire un rigorosissimo terzinato, che porta il brano ad avere un'anima tra il sudamericano (bolero cubano), il jazz (il canto di Tenco) e la melodicità italiana (la stessa struttura melodica del brano).
Subito dopo arriva una versione francese di "Un giorno dopo l'altro", che d'altronde era stata composta per la colonna sonora di Maigret. Il testo francese è fortemente "francesizzato", vi si citano Parigi, Momartre e la "bohème".
Subito dopo, come un confronto istantaneo, arriva la versione inglese dello stesso brano, intitolata "One day is like another", che mantiene un maggior legame con l'originale, anche se è un po' più sdolcinata e meno interiore. La versione inglese è integrale.
Subito dopo arriva un brano in lingua spagnola, la traduzione di "Ognuno è libero", ben fatta e ben pronunciata. Qui non ci sono forzature, anzi gran parte del testo è veramente tradotto alla lettera.
Subito dopo arriva "Io sono uno", con testo diverso e in una versione beat, caratterizzata da un uso interessante del la minore settima, inserito in un comunissimo giro di "tonica", "dominante" e "sottodominante".
Ed eccoci a "Guarda se io", altro brano eseguito voce e pianoforte e, almeno qui, caratterizzato da una gran quantità d'accordi, che dànno un'apertura grandissima alla melodia che, come sempre, è apertissima.
Ed eccoci al Luigi Tenco jazzista, che sentiamo prodursi in una ballad lenta, a cui lui, con la già ricordata sensualità del tocco sassofonistico, riesce a dare quella che per me è l'anima irrinunciabile di qualsiasi brano jazz non veloce.
La melodia è dominata ed arricchita con un bellissimo assolo, che dimostra quanto Tenco fosse entrato nella filosofia di questa musica, senza compromessi né mediazioni.
Al sassofono di Tenco attualmente sta rispondendo la tromba, con un assolo meno ricco, forse, più "cantabile", almeno per me meno interessante.
Ed ecco che torna Tenco con le sue stravaganze melodiche, che però sono, come già osservato, completamente compatibili con lo spirito di questa musica.
Ed ecco "The continental", un noto swing che, però, forse, nell'interpretazione del Settetto moderno genovese, viene un po' intiepidito, ma, d'altronde, tutto il jazz italiano, quando veramente cerca di far vedere la propria identità, diminuisce di intensità certe caratteristiche e ne allarga altre nella musica statunitense.
Anche qui, come nel brano precedente, i musicisti si aprono in assoli melodicamente aperti.
Il cd, poi, continua con un'intervista concessa da Tenco a Sandro Ciotti, che ancora non aveva la voce rauca che spesso gli si associava nei suoi ultimi periodi, quando era già una gloria del giornalismo sportivo. La voce del giornalista, ancora, era una limpida voce da basso profondo, che interroga Tenco i nmaniera rispettosa ma ironica, e fa sentire una stima del tutto particolare. Tenco risponde in maniera un po' ombrosa, insomma in maniera completamente compatibile con il suo carattere.
Così si conclude il primo cd di questa antologia, che continua con una serie di reinterpretazioni, altrettanto inedite di brani di Tenco.
Il cd comincia con una versione di "Lontano lontano", brano con cui ritualmente si apre ogni rassegna del Club tenco che si rispetti, interpretata da Vinicio Capossela, che, ormai, non sa che cantare come un tarantolato del ventunesimo secolo, figura di cui, sinceramente, anche da appassionata di pizzica, voglio dire di poter far a meno. Il brano è interpretato con stonature da jazzista, con rabbia inutile, insomma bocciato.
Subito dopo, fortunatamente, arriva una buona, non perfetta, interpretazione di "Ho capito che ti amo", da parte di Roberto Vecchioni. Ciò che non rende giustizia alla bellissima voce di Vecchioni, secondo me, è il bruttissimo accompagnamento elettronico, che fa diventare questo brano una traccia quasi tecno. Abbastanza discutibili sono poi le défaillances da parte di Vecchioni sul testo, un po' di professionalità in più non farebbe male anche in queste occasioni. Il finale è addirittura affidato a Tenco, adeguatamente filtrato e peggiorato nella più deteriore moderna tradizione.
Arriviamo poi, finalmente, ad una buona interpretazione da parte di uno dei più interessanti cantautori moderni, ossia "La vita sociale" cantata da Simone Cristicchi. Innanzitutto va riconosciuto a questo cantante il coraggio di interpretare il brano in acustico, accompagnandosi solo con un pianoforte ed un violino, tra l'altro non stonando mai, poi va detto che lo spirito cantautorale è assolutamente rispettato.
Ecco un gruppo romano, gli Ardecore, che interpretano "Quasi sera". Il brano, anche in questo caso, è rispettato nello spirito e ben cantato. Non viene meno, anche se non conosco l'originale di Tenco, né la tipica ricchezza melodica del cantautore, né il tipico terzinato anni Sessanta. Il sassofono ha delle venature forse troppo free jazz, ma non sono sgradevoli. Il canto è spesso dolce, giusto con qualche venatura arrabbiata verso la fine.
Ed ecco uno dei tanti cantanti stranieri che scelse l'Italia come sua patria sin dagli anni Sessanta, il leader dei Rokes Shel Shapiro. Il cantante e chitarrista inglese, interpreta, con spirito da grande folk singer americano, la ballata "Cara maestra". Molto gradevole, personale ma rispettosissima, oltretutto interpretata semplicemente voce e chitarra.
Arriva poi Alice che interpreta "Se sapessi come fai". Credo, chi mi conosce lo sa, che ogni epoca vada rispettata e, quando ti vengono affidate creazioni altrui, oltre a farle personali, la nostra personalità si deve un po' "nascondere" dietro quella dell'interprete originale, ma qui, in tutto questo disco, mi pare che si sia voluto fare delle canzoni di Tenco, qualcosa di "altro" da loro stesse, impigliati in quello stereotipo che, dato che i testi sono attuali, possono essere riportate semplicemente e stupidamente verso la nostra epoca. Il brano è troppo tecno, elettronico e, all'inizio addirittura dark.
Ecco una buona interpretazione, per lo meno per quello che intendo io. Troviamo, infatti, Alessandro Aber, grande attore che si diletta spesso a cantare, che canta, con la sua voce "sporca" e cavernosa, "Mi sono innamorato di te". Magari c'è un po' troppo teatro, che si accorda poco, per lo meno secondo me, con Tenco, però è buona e ve la consiglio.
Ecco gli Skiantos, gruppo punk bolognese, che interpretano "Un giorno di questi ti sposerò". Il brano di Tenco lo conosco vagamente, quindi, purtroppo, un paragone non è possibile. Dico, però, che non mi piace per le ragioni dette per altri brani di questo secondo disco, di un'antologia che trovo interessante giusto per le rarità del cantautore che ci porta a conoscenza.
Ecco una versione di "Angela", da parte dei Têtes de bois. Anche questa non mi piace, anche perché questa canzone è insostituibile per caratteristiche armoniche che sono state tutte annullate. Intanto è un valzer, ritmo che su di me esercita un fascino speciale, che permette di teatralizzare la sofferenza d'amore del protagonista, che in questo tappeto di pop sofisticato, paradossalmente si banalizza tantissimo.
Interessantissima è, invece, pur nella sua stranezza, la versione swing, un po' alla Django Reinard, de "La mia valle" cantata da Giorgio Conte.
Anche qui non posso fare il paragone con il brano di Tenco perché, mea culpa, non lo conosco. Comunque, potrebbe ben essere un brano scritto dai fratelli Conte, avventuroso e jazzistico, finalmente qualcosa di bello e rispettoso con una delle componenti fondamentali della personalità tenchiana.
Eccoci ad una delle voci più emozionanti e belle della musica popolare italiana, la sarda Elena Ledda, che si produce in una toccantissima interpretazione, acustica ed in lingua sarda, de "La ballata del marinaio" che diventa "Sa canzone de su marineri". Io, purtroppo non so quanto l'interpretazione sia fedele, ma sicuramente rende molto, è molto dolce e tellurica contemporaneamente.
Ed ecco Giovanni Bloc, che fa una versione jazzistica, molto convincente devo dire, della "Ballata della moda", satira sulla pregnanza, spesso negata, di questo fenomeno deplorevole.
Ed ecco Gerardo Balestrieri, che interpreta "Se potessi amore mio", una delle tante, troppe, canzoni di Tenco che mancano alla mia conoscienza. Questa versione è caratterizzata da un caldo ritmo latino, portato da delle avvolgentissime spazzole, coadiuvate da una chitarra classica ben suonata, ma anche da un fastidioso strumento, la cui accordatura non è temperata.
Ed ecco Ricky Gianco, uno dei pochi interpreti genuini del rock and roll all'italiana, che interpreta un brano di Tenco, che lui aveva già interpretato, intitolato "Vorrei sapere perché". L'interpretazione, breve ma integrale, è piena di quell'ingenuità, così tipica della prima generazione di rockers italiani, dal primissimo Adriano Celentano, a Giorgio Gaber, passando per lo stesso Ricky gianco o Ghigo.
Successivamente arriva Ada Montellanico, una delle più rinomate jazziste italiane, che interpreta "Averti fra le braccia". Purtroppo, questa versione, invece di approfittare della matrice jazz ballad innegabile in questo brano, porta la canzone verso il jazz moderno, non facendo sentire per niente l'apertura e ricchezza melodica di Tenco, che consisteva in aver fatto dialogare questi due generi che, non solo non devono lottare, ma possono stare insieme benissimo.
Il canto è troppo sofisticato, ci sono troppi "scat", vocalizzi all'americana.
Arriva poi "Giornali femminili", interpretata da Paolo Simoni con venature bossa nova, che la rendono interessante. E' un brano che, già quarant'anni fa, satireggiava i cosiddetti "giornali femminili" e il ritratto che fanno della donna e delle sue attitudini ed interessi. Secondo me, comunque, in nome dei sicuramente giusti ideali di non discriminazione, noi stiamo perdendo la nostra identità, e questo, quando è esagerato, è un male.
Il cd, comunque, si chiude con una toccantissima versione di "Lontano lontano", questa volta filologicamente corretta, interpretata da Eugenio Finardi, semplicemente chitarra e voce.
Questo cd, comunque, ve lo consiglio caldamente, per riscoprire Tenco, ma solo se ne siete cultori: dubito che chi non lo conosce lo potrebbe capire.

domenica 22 novembre 2009

Commento alla puntata del 22 novembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco a voi il commento all'ultima puntata del ciclo su Pasquale Cinquegrana di "Canzonenapoletana@rai.it".
Si inizia l'ultimo periodo della produzione di Cinquegrana, con questa tarantelluccia sfiziosa, musicata da Vincenzo di Chiara, fabbro e mandolinista autodidatta, intitolata "Rosa rusella".
La rosa in questione, ovviamente, è una donna, a cui, con queste parole sicuramente rispettose e galanti, l'uomo dichiara il proprio amore. Il cantante è Ferdinando Rubino, tenore "leggero" di notevole grazia. Non so da chi altri sia stato inciso, infatti è un pezzo che mancava alle mie conoscienze.
Arriviamo al 1911, anno a cui risale questa "'A voce 'e maggio", altrimenti conosciuta come "'A testa aruta".
La musica è di Rodolfo Falvo, noto per aver composto brani come "Guapparia". Anche questo brano, interpretato qui da un duetto, è una tarantella "intiepidita" da numerose pause e cambi di tempo. La musica è più solenne e meno leggera rispetto a quella della precedente canzone.
Il testo, purtroppo, non è codificabile da questa versione che, al contrario del brano di Ferdinando Rubino, si sente molto male.
Si continua poi con "Vicariello apecondruso", risalente al 1912. E' un brano in tempo binario, la cui musica è di Oscar Cattedra. Vi si trova una caratteristica comune anche a molta musica popolare contadina antica, l'alternanza tra accordi maggiori e minori. L'interpretazione è di Diego Giannini, e anche qui si sente male il testo.
Ma eccoci tornati verso Eduardo di Capua, autore della musica di questa "Duorme Marì", brano a tempo di Habanera, sempre risalente al 1912. E' un brano dove, da quello che mi pare di capire nonostante l'audio terribile, nel ritornello si chiede all'innamorata di non svegliarsi, ma nella seconda strofa si dice esattamente il contrario.
E' del 1913 "Rusinella 'e Margellina", sempre in tempo binario. Il cantante, un tenore, ha una voce abbastanza meno impostata rispetto alle abituali timbriche dei cantanti dell'epoca.
Del testo si capisce pochissimo, perché, come sempre, sono incisioni d'epoca, messe, tra l'altro, con dischi d'epoca.
Ed eccoci ad una "barcarola" composta nel 1914, che, secondo Pietro Gargano e la sua "Enciclopedia illustrata della canzone napoletana", è l'ultimo successo scritto da Cinquegrana. Si chiama "Voca e canta" ed è cantata da Giuseppe Godono, tenore di potenza veramente notevole. Il brano, in verità, si divide in due parti, ma non riesco a descrivervelo bene.
Adesso si sta ascoltando la cosa più inascoltabile mai sentita da me: "'E femmene belle", brano scritto nel 1917 da Cinquegrana e musicato da Eduardo Migliaccio, "Farfariello", pioniere della canzone italo-americana. La melodia si intuisce bellissima, e si capisce anche che si alternano accordi maggiori e minori, ma, vi giuro, non si può dire di più.
Spero che vi siano piaciuti questi commenti a Cinquegrana, non vi preoccupate che, cambiando autore, si continuerà ancora!

domenica 15 novembre 2009

Commento alla puntata del 15 novembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco qui il commento alla terza puntata del ciclo su Pasquale Cinquegrana di "Canzonenapoletana@rai.it".
La puntata precedente si era conclusa con Nicola Maldacea, anche questa ci comincia. Il brano è una macchietta, già strutturata ormai nella forma che le conosciamo, ossia come ritratto di un "tipo", in questo caso "'O tranviere".
La musica di questa macchietta è di un certo Faini, che ha trovato una di quelle melodie da cinema muto, che stanno bene a questo genere di canzone.
Anche qui, come sempre, c'è comunque un certo riferimento alla politica, in particolare al socialismo.
Anche questa puntata, e forse non poteva essere altrimenti, continua con un brano del repertorio da "piazza", cioè appannaggio dei posteggiatori, del poeta napoletano. Il brano, "Fenesta 'ntussecosa", è interpretato, in incisione d'epoca, da un notevole gruppo chiamato I figli di Ciro.
E' una canzone caratterizzata da quel ritmo di habanera che si sposa benissimo con il napoletano dolce, di quando ancora non lo si mutilava per fargli imitare modelli stranieri. Di questo brano, secondo me, notevolissima è la versione di Mario Abbate.
Ora stiamo ascoltando una versione storica, anche se non risalente all'epoca di composizione del brano, di "Napule bello", brano con cui Cinquegrana e Di Gregorio riuscirono a battere in un concorso la più blasonata e famosa "'O sole mio". Il brano è molto sfizioso, ma la versione che stiamo ascoltando, forse caratterizzata da note troppo lunghe e da troppe pause, fa perdere molta allegria. Gli interpreti, Elvira Donnarumma e Roberto Ciaramella, sono tra i più importanti cantanti degli anni '20 e '30 napoletani. Da ascoltare, secondo me, sono le versioni di Franco Ricci, anni '50, Bruno Venturini, anni 2000, e Antonello Rondi, che non so in che epoca abbia inciso il brano.
Subito dopo ascoltiamo, dalla voce tenorile e potente di Diego Giannini, una canzone a me sconosciuta scritta dalla coppia Cinquegrana-Di Capua, intitolata "Luntananza amara". E' una marcetta che, credo, parli d'amore. E' incisa con una chitarra ed un mandolino, che dànno una grande atmosfera, ma non vi posso dire di più perché l'incisione è disastratissima.
Ed eccoci ad una macchietta risalente agli inizi del '900, intitolata "'A cura 'e mammà".
L'incisione, degli anni '50, probabilmente, è praticamente completamente recitata, e queste, come ho già detto, sono le migliori interpretazioni dei brani comici.
Notevole, sempre in duetto, come questa di Agostino Salvetti e Tecla Scarano, quella di Mario Pasqualillo e Pina Lamara. Tra le interpretazioni singole, anche se sono di minor impatto, notevoli sono quelle di Roberto Murolo in "Come rideva Napoli (1967) e Bruno Venturini ("Antologia della canzone napoletana", 2004).
Chi crede che il cinema americano si sia inventato qualcosa con il concetto di sequel, si potrebbe ricredere ascoltando questa macchietta intitolata "'O figlio d'o tenore", seguito di una macchietta di Ferdinando Russo, unico autore che competeva con Cinquegrana in questo genere, intitolata "'O tenore 'e grazia".
Il brano è una sfiziosissima presa in giro dei tenori di forza, ma è molto specifico, usa molto gergo lirico, quindi è difficilissimo da capire.
Ed eccoci all'ultima canzone della puntata, la macchietta "'A figlia rosa", musicata da Giuseppe Giannelli ed interpretata da un duetto. E' una sfiziosissima tarantella, come spesso sono le macchiette, ma si incrina spesso, tramite l'uso delle pause, che obbliga ad una "cultizzazione" del ritmo.
Spero che vi sia piaciuto il commento a questa puntata, e spero che qualcuno voglia riscoprire la macchietta napoletana.

venerdì 13 novembre 2009

Gianni Morandi "Canzoni da non perdere"

Carissimi lettori, oggi scrivo due articoli di cui sono particolarmente felice, dirò di più, del primo cd che recensirò mi sento un po' responsabile, perché è un disco in cui Gianni Morandi, grandissimo interprete della canzone italiana, fa un omaggio a canzoni che lui ha amato molto e che stanno molto bene nella sua voce.
Il cd, che è uscito questa mattina, è nato, anche, da una mia provocazione al cantante di Monghidoro, in occasione di un nostro incontro qui a Perugia, prima del primo dei due concerti acustici tenuti con il suo teatro tenda.
Venendo al disco, intitolato "Canzoni da non perdere", è una serie di rifacimenti, molto rispettosi, di brani negli anni Settanta, Ottanta e Novanta. La prima canzone è "Inevitabile follia", forse la più bella canzone di Raf, tratta dal suo primo repertorio. La versione di Morandi è talmente perfetta che, se non si sa di chi è, si potrebbe pensare che il brano sia un inedito.
Subito dopo si omaggia la canzone vincitrice del Sanremo 1982, quella "Storie di tutti i giorni", cantata da Riccardo Fogli. L'arrangiamento elettrico ma senza elettronica, rispetto all'originale, tipicamente infarcito invece di strumenti "sintetici", dà maggior forza a questo brano che, se paragonato a brani classici di Morandi, potrebbe ricordare canzoni come "Solo all'ultimo piano" o comunque quei ritratti quotidiani che il cantante ora ama molto.
Ed eccoci ad "A te", grandissimo successo di Jovanotti, tratto dal cd "Safari". L'interpretazione di Morandi, permette al brano di acquistare quella melodicità "naturale" che, per quanto il toscano si impegni a cantare, non avrà mai perché per cantare veramente melodico bisogna avere una buona voce.
Ed eccoci a "L'isola che non c'è" di Edoardo Bennato, tratta da un lp che, nonostante i suoi quasi trent'anni di vita, continua ad esercitare una grandiosa attrazione, anche per i miti che esso traduce modernamente ("Sono solo canzonette", dedicato alla favola di Peter Pan).
Se vogliamo trovare un collegamento morandiano, si potrebbe anche pensarla come una gemella lontana di "C'era un ragazzo", per l'anelito, per nulla mascherato anche se non specifico, all'assenza di guerre dal mondo.
Se devo descrivere questa versione, suona un po' strana, ci si deve fare l'orecchio ma è bella, anche perché questo è un brano a cui io sono profondamente legata, come a tutto l'lp di Bennato. L'arrangiamento rafforza l'anima country, che è ancora rappresentata da un violino, che sostituisce l'armonica, strumento abbastanza estraneo a Morandi, se non fosse per gli assoli di "Sono un treno".
E si ritorna alle melodie altrui che potrebbero essere state scritte benissimo per Morandi. Si parla, in questo caso, di uno dei gioielli assoluti dell'ultima produzione di Antonello Venditti, la struggentissima "Ogni Volta". Il brano, bellissimo, ha rappresentato per il cantautore romano, l'ultimo brano melodicamente tradizionale, prima della fase sperimentale plasmata dal cd "Goodbye n9ecento", che a sua volta è stato già superato.
Arriviamo al brano che ci ha fatto sapere, qualche settimana fa, che questo cd ci sarebbe arrivato tra le mani. E' un'ottima interpretazione di "Tu sei l'unica donna per me", brano romantico di Alan Sorrenti, cantautore napoletano dalla voce falsettata, che forse non riusciva, e non riesce, a rendere giustizia a questa melodia che, seppur un po' ristretta, gode di ricchezza. L'interpretazione di Morandi, con le sue leggere incrinature, così tipiche di certo canto del monghidorese, riesce a tradurre perfettamente la felicità che, nonostante la paura che si ha della fine dell'idillio amoroso, riempie il brano.
Una mensione va fatta agli arrangiamenti, che non contemplano quasi strumenti elettronici, lasciando spazio alle sonorità acustiche ed elettriche, che sono sicuramente più gradevoli, ma sono spesso ritenute banali.
Ed ecco l'omaggio che Morandi fa ad un artista che esordì qualche anno dopo di lui, il cantante di Poggio Bustone Lucio Battisti.
Il brano che Morandi sceglie di ricantare è famoso, ma forse non come "Pensieri e parole" od "Emozioni". E' un interessante pop-valzer intitolato "Perché no". Anche qui si trova questa sensazione di felicità profonda, data da questi programmi strani di cui il testo di Mogol parla in maniera così rilassata. Da notare è l'uso del falsetto, completamente ricalcato d'altronde dalla versione originale, poco tipico in Morandi, ma comunque presente nella sua personalità canora.
Ed ecco "Fiore di Maggio", uno dei brani a cui sono più legata del repertorio di Fabio Concato, perché l'album originale mi fu regalato, in cassetta, quando facevo la scuola materna (ebbene sì, io già ascoltavo musica!).
La tenerezza che Concato riserva alla figlia, per la cui nascita fu scritta questa canzone, Morandi la "sporca" un po', senza però mai incrinarsi esageratamente, conservando sempre questa intimità favolistica così bella.
E come poteva mancare un omaggio a Lucio Dalla, compagno di così tante avventure, non ultima quel bellissimo "Dalla-Morandi" che ha cullato, insieme a tante altre cose, la mia musicalissima infanzia?
L'omaggio viene fatto attraverso uno degli ultimi gioielli della produzione del bolognese, una versione, forse poco rispettosa perché infarcita di suoni elettronici, ma comunque bella, di quel capolavoro di tenerezza che è "Tu non mi basti mai".
Forse, anche per la provenienza da zone vicine di autore e cantante, questo è uno dei brani più riusciti del cd.
Compagno d'avventura di Lucio Dalla è stato anche Francesco de Gregori, a cui Morandi fa un bellissimo omaggio, con l'interpretazione di "Rimmel", una delle canzoni più famose del cantautore romano, che qui, dopo essere stata per circa trentaquattro anni (tanti ne sono passati dalla pubblicazione dell'lp omonimo di De Gregori che la conteneva!) di dominio assoluto della chitarra, nella prima parte del brano, si trova una predominanza del pianoforte. L'anima più rock, impressa dalla presenza della chitarra elettrica distorta, non distoglie assolutamente questo brano dal suo essere una ballata romantica e country, genere che è sempre stato nelle corde del De Gregori.
Ed eccoci ad un altro "classico della tenerezza", scritto questa volta da Claudio Baglioni, altro grande esponente della scuola romana dei cantautori.
Il brano, "Avrai", ha una melodia molto aperta che permette, sia a Baglioni che a Morandi, che d'altronde hanno due delle voci più estese attualmente ascoltabili nel panorama della musica leggera italiana, di esibirsi in maniera piena.
Ed eccoci ad uno dei classici indiscussi degli anni '80, "Luna", scritta dal cantautore toscano Gianni Togni.
Morandi, come si è già detto per altri brani, si è limitato solo ad attualizzare l'arrangiamento strumentale, perché, e questo gli va riconosciuto, è cosciente che si tratta di canzoni che non gli appartengono del tutto, ed oggi, basta vedere altri dischi di cover per capirlo, chi ha questa coscienza fa parte di una sparutissima élite! (Trovo brutta, ad esempio, la cover di "Meraviglioso" di Domenico Modugno eseguita dai Negramaro, con l'armonia stravolta ogni tanto ed il ritmo completamente diverso).
Gli ultimi due brani sono inediti, o meglio uno faceva già parte del precedente cd di Gianni Morandi, il già qui recensito "Grazie a tutti: il concerto".
Il primo dei due inediti è "Credo nell'amore", cantato in coppia con Alessandra Amoroso, ragazza leccese uscita da "Amici", che possiede una delle più belle e limpide voci uscite ultimamente.
Spero di avervi incuriosito e, permettetemelo, voglio dire un grazie particolare e personale a Gianni Morandi per aver fatto questo cd che, come ho detto, è anche un po' mio.

domenica 8 novembre 2009

Commento alla puntata dell'8 novembre di Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, dopo tre settimane di digiuno, ecco il commento alla seconda puntata del ciclo dedicato a Pasquale Cinquegrana di "Canzonenapoletana@rai.it".
La puntata, così come la precedente, inizia con una bellissima interpretazione di Tommaso Maione (scusate l'errore di grafia nel commento precedente). Il testo del brano è pieno di quella "tristezza tiepida" così tipica del vero napoletano, tradotta perfettamente dalla musica che è piena di riferimenti barocchi e popolari, così tipici del primo Di Capua, musicista che insieme a Cinquegrana scrisse questo sconosciuto gioiellino intitolato "'A luntananza".
Ed eccoci alla prima "macchietta" di questa puntata, che d'altronde le sarà quasi monograficamente dedicata. Il brano, però, non è assolutamente compatibile con l'idea che oggi si ha della "macchietta". Il brano, infatti, è fortemente politico e, addirittura, sulle tavole del café-chantant si fanno i nomi di Giolitti, all'epoca ministro dell'economia e Crispi primo ministro.
E dopo "'O 'mbriaco", si arriva a "Furturella", una delle più famose canzoni del repertorio cinquegraniano, scritta insieme a Salvatore Gambardella, un mandolinista autodidatta, che di mestiere faceva il fabbro, ed ha scritto alcuni tra i più grandi classici della canzone napoletana.
La versione che stiamo ascoltando è interpretata da un posteggiatore che possiede una potentissima voce tenorile e, forse con troppa tragicità, dice i versi che forse sono più sfiziosi che tragici.
E, come si era visto per Gill, quando si parla di "macchietta" non si può prescindere da Roberto Murolo. Infatti, con grandissimo piacere, stiamo ascoltando "Don Saverio" scritta nel 1895, che utilizza il tema del tradimento amoroso non compreso o permesso con complicità. La musica, lenta, maliziosa, veramente fa capire, anche a chi non sa il napoletano, il clima che Cinquegrana ha voluto dipingere.
Ed eccoci alla prima incisione d'epoca (o quasi) della puntata. Siamo con una delle canzoni più note del maestro elementare napoletano, intitolata "'Ndringhete 'ndrà". E' interpretata da Francesco Daddi che, finalmente, dato che l'incisione è passabile, si può apprezzare in tutta la sua tenorilità che, forse, non permette di capire lo "sfizio" di questa canzone. Da ascoltare, secondo me, è la versione di Bruno Venturini.
Un altro imprescindibile interprete della "macchietta" e di tutta la "canzone teatrale" napoletana, è il grandissimo Nino Taranto, da cui abbiamo ascoltato "Serenata profumata", bellissima canzone, quasi in italiano.
La puntata si conclude con "'O rusecatore" che viene interpretata da Nicola Maldacea, un interprete che aveva dei problemi di balbuzie che gli sparivano nell'atto di cantare o recitare.
La musica viene eseguita da un pianoforte, come se fosse una musica da cinema muto.
Spero di aver reso le atmosfere di questa puntata, forse particolarmente difficili da dipingere a parole, ma ricordatevi che, per ascoltare queste trasmissioni potete andare su ben due siti legati alla rai: www.international.rai.it/notturnoitaliano (dove cliccate sull'icona "canzone napoletana"), o su http://www.canzonenapoletana.rai.it/, dove, dal lunedì successivo alla messa in onda della puntata, c'è il podcast che vi resta per una settimana intera.
Buon divertimento e buon ascolto!

giovedì 5 novembre 2009

Cos'è "tradizione"

Carissimi lettori, voglio scrivere dopo tanto forse troppo tempo. L'argomento è un po' duro, un po' complicato ed è stato già affrontato in questa sede, ma, dopo uno dei commenti apparso su http://www.pizzicata.it/ al cd "Alla banca", disco prodotto dall'Associazione Cesta dedicato alla musica tradizionale brindisina, nello specifico di San Vito dei Normanni, mi va di ripetere e precisare la mia posizione.
Nel commento in questione, signori miei, con molta caparbietà, si dice che i brani tradizionali sono quelli antichi e, ogni forma di nuova composizione, anche se magari rispettosa delle prassi esecutive e del contesto tradizionale, si deve considerare musica "tradizionale moderna" (parole testuali!).
Io, forse perché storicamente e irrimediabilmente contaminata da generi di musica molto meno tradizionali e forse per questo più "sereni" nella loro evoluzione, non la penso assolutamente così.
Io, piuttosto, il problema lo porrei da un punto di vista freddamente musicale e tecnico, anche perché non piango sul fatto che i contadini in molti casi abbiano smesso di spezzarsi la schiena nei campi, e la musica popolare salentina è diventata, da ormai quarantasette anni, nondimentichiamocelo, musica con cui si fa spettacolo. (D'altronde anche i nostri maestri, specialmente Luigi Stifani, quando andava a suonare in Rai per Diego Carpitella non stava facendo spettacolo, dato che suonava in un contesto che non era quello tradizionale d'esecuzione delle sue "pizziche tarantate"?).
Io direi che tutto ciò che rispetta le prassi armoniche e ritmiche di una determinata tradizione, può essere chiamato musica tradizionale, o può anche solo aspirare a diventarlo. Io poi sono la prima a fare una netta distinzione tra musica "tradizionale", quella suonata in acustico e senza fini "spettacolari", e quella "popolare", suonata con strumenti acustici, amplificati, anche per fini diversi dal puro piacere di suonare.
Il cd di Fernando Giannini, grande ricercatore e musicista di San Vito che vive e lavora nella nostra città, (Perugia), per la distinzione di cui sopra è assolutamente musica "tradizionale", perché è suonato in acustico, in rigorosa presa diretta ed i brani, addirittura, sono quasi completamente (o completamente) improvvisati nella loro maggior parte.
Poi, siccome Giannini ha voluto rappresentare una tradizione viva, le cui prassi armoniche sono vissute come proprie dalla comunità di suonatori, certamente molto ristretta e specifica, sono nati con naturalezza i brani d'autore che, spesso e volentieri, non sono che varianti di un unico grande troncone tradizionale (si vedano le pizziche che, invariabilmente, contengono pezzettini riconoscibilissimi della bellissima e purtroppo da troppi maltrattata "Pizzica originaria" che, forse simbolicamente, chiude il cd).
Per quanto riguarda poi specifiche mie opinioni, dico di più: laddove il "cantore" che ci ha "portato" il brano è identificato, noi suonatori, invece di essere disonesti e ladroni, dovremmo dire da chi si è imparato, non annullando persone con una loro vita e creatività in questo grandissimo fiume neutro e neutrale della tradizione. Ad esempio, l'ho già scritto ma qui cade a fagiolo, quando io presentavo la "Pizzica tarantata", nei miei concerti dicevo sempre che era stata resa celebre da Luigi Stifani. Quindi si vede che io non santifico la tradizione, ma tantomeno la voglio morta, e ancor meno voglio che si facciano distinzioni puramente teoriche e non basate su caratteristiche concrete dei brani tra "Musica tradizionale moderna" e "musica tradizionale antica". Infatti ciò che per noi è "tradizionale" ed "antico" è stato "moderno" per una generazione precedente, che a sua volta lo aveva creato da un troncone che percepiva come radice, magari senza accorgersene (fortunatamente).
Limitandomi ad esempi leccesi, voglio ora far capire concretamente ciò che intendo, citando dei titoli di "Canzoni tradizionali moderne", insieme a titoli di "canzoni tradizionali antiche" scritte modernamente.
Infatti, e questa è veramente l'ultima considerazione prima dell'elenchino, alcuni dei generi a cui ho accennato prima, ad esempio, ,pur non avendo "tradizione" intesa all'italiana, definiscono "tradizionale" certo loro repertorio (penso soprattutto al Fado portoghese), e comunque trovano naturale comporre brani nuovi su matrici tradizionali, e non per questo smettono di considerarsi, o meglio i loro cultori smettono di considerarli, "tradizionali" (penso a molta musica sudamericana, africana, spagnola, francese eccetera).
Eccoci alle citazioni:
- "A mammata" (testo e musica di Cinzia Marzo, tratta da "Maledetti guai"). Questo è un brano di "musica tradizionale moderna", anzi addirittura per questa canzone dovremmo inventare un'altra ulteriore categoria che potrebbe essere "musica d'autore tradizionale", perché non si rispettano per tre quarti del brano le prassi armoniche di nessuna variante di pizzica presistente, se eccettuiamo "Sale", altro brano dell'"Officina" che metteva su un giro armonico moderno testi tradizionali, cosa che trovo molto più ingiusta piuttosto che comporre brani nuovi nel solco della tradizione e chiamarli musica tradizionale, e si canta in un italiano "standard", voglio dire senza la minima sbavatura a livello di costruzione di frase, dando così spazio ad un'altra forma di "innaturalezza" o quantomeno di uscita dalla tradizione che si è sempre espressa in dialetto, in un dialetto che poi, ed è meglio riconoscerlo, si sta dimostrando da ormai diversi anni in grado di vincere le sfide della modernità, si vedano i Sud Soud System (che a me non piacciono).
- "Mazzate pesanti" (Testo e musica di Roberto Raheli, tratta dal cd "Mazzate pesanti"). Esempio di "Musica tradizionale antica" perché, pur essendo completamente d'autore, rispetta le prassi esecutive, compositive e linguistiche della tradizione.
- "Ijentu" (Testo e musica di Cinzia Marzo, tratta da "Sangue vivo"). Esempio di "musica tradizionale antica" perché è composta su una variante di pizzica molto precisa, che è la pizzica con cui spesso si tira di scherma, oltretutto con un testo ed una maniera di cantare che richiamano una musica salentina storica che, spesso in silenzio, sta morendo e tutti stanno contribuendo a far morire, per far nascere a tavolino qualche cosa di "altro", con cui noi, ormai senza creatività, vogliamo derubare della propria chi l'aveva.
Spero di avervi fatto capire ciò che mi stava a cuore dirvi, comunque spero che si smetta di deplorare od essere contrari spesso stupidamente a dinamiche che sono inevitabili e non sono nemmeno del tutto negative o assenti da questa tanto falsamente amata "tradizione", ed auspico che laddove una tradizione è davvero "viva" non se ne voglia fare un oggetto da museo.