domenica 27 settembre 2009

Commento alla puntata del 26 settembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, come promesso, continuo a commentare le puntate di "Canzonenapoletana@rai.it".
Da oggi inizia un ciclo di tre puntate dedicate ad Armando Gill, uno dei primi, se non il primo, cantautore italo-napoletano.
Io non vi scriverò le informazioni che Paquito del Bosco dà perché, come vi ho già detto, le puntate di queste trasmissioni possono essere ascoltate in due siti internet: http://www.canzonenapoletana.rai.it/, a partire dal lunedì della settimana successiva all'emissione, quindi questa si potrà ascoltare da domani, e su http://www.international.rai.it/notturnoitaliano, cliccando sulla fascia oraria dalle 02.00 alle 03.00, dal giorno dopo l'emissione in radio, quindi dalla domenica.
Il primo brano che si ha il piacere di ascoltare è "'O surdato", una bellissima canzone, triste e malinconica, sui soldati che partono e, quando tornano, spesso non trovano le cose come le hanno lasciate.
La voce di Gill è tenorile, ma non quel tenorile tirannico, anche se con poca dolcezza.
Siamo ancora nel periodo in cui Gill scriveva solamente i versi, che spesso venivano musicati da un non meglio identificato maestro De Crescenzo.
Anche questa canzone, intitolata "Uocchie celeste", interpretata da Enrico Caruso, è stata scritta da questi autori e risale all'inizio del Novecento, mentre quella di prima era del 1899.
Nonostante i suoi anni, il materiale, rigorosamente antico, è in buone condizioni e si può notare come questo maestro De Crescenzo aveva il gusto per melodie da romanza, molto corpose. Infatti, l'interpretazione di Caruso rende assolutamente giustizia.
Armando Gill amava molto i militari, e spesso ha dedicato loro canzoni. E' il caso di questa "'O ritorno d'a Cina", tra le prime canzoni scritte e musicate autonomamente dal Gill. E' un duetto, come andavano di moda molto allora nel "cafèchantant" o "cafècantante" alla napoletana. Non vi posso dire niente, se non che il brano è interpretato da Achille Diaz e Maria Borsa. (Il disco si sente male, ma d'altronde, pensate, molti dischi venivano incisi su matrici già precedentemente utilizzate!).
Ed ecco un bozzetto, di quelli che Gill amava tanto, sempre d'ispirazione militaresca, intitolato "Pasquale va a Tripoli".
E' una specie di "macchietta", genere a cui Gill d'altronde si dedicava con buonissimi risultati, coltivato allora anche da altri interpreti come Nicola Maldacea o Peppino Villani, i cui testi erano scritti, tra gli altri, da Pasquale Cinquegrana e Ferdinando Russo.
Ed ecco un bozzetto macchiettistico su quella gelosia, che tutt'ora fa tanti danni nel Sud d'Italia e non solo, perché noi, anche se ci diamo tante arie di falsa modernità, soprattutto sui difetti siamo ancora quelli di cent'anni fa.
La canzone in questione, "Nun so geluso", scritta nel 1917, è interpretata dallo stesso autore, non con un senso del ritmo rigoroso, ma questa è storia della canzone napoletana e ci dobbiamo inginocchiare. Particolarmente bella è la versione di Roberto Murolo nella sua "napoletana, antologia cronologica della canzone partenopea", uscita in vinile per la Durium tra il 1959 ed il 1963.
E' del 1918 l'ultimo brano che si ascolta in questa puntata, la bellissima e segretamente triste "'O quatto 'e maggio", su quanto i traslochi o le intimazioni modificano la nostra vita.
La versione di Gill è molto rovinata, per scoprirla meglio io consiglio di sentire quelle di Giacomo Rondinella o Tony Bruni.
Spero di farvi piacere con queste chicche napoletane, e spero, soprattutto, di contribuire a far riscoprire questo sterminato mondo.

venerdì 25 settembre 2009

Gianni Morandi: "Grazie a tutti: il concerto" (

Carissimi lettori, mi metto di nuovo a scrivere, per raccontarvi una passione rimasta nascosta, quella per Gianni Morandi. Il pretesto è l'appena uscito "Grazie a tutti: il concerto", cd + dvd.
La prima canzone è "Vita", che già rappresenta una tappa importante nella mia formazione, perché la versione originale era contenuta nel cd "Dalla-Morandi", uno dei dischi che mi ha cullato l'infanzia.
La versione live è, come tutto questo concerto, chitarra e voce, così Morandi riesce a rendere pubblica, addirittura con un tour intero, la sua passione per questo strumento.
Subito dopo si va negli anni '60 con "Se perdo anche te", una delle cover più riuscite della musica italiana. Il ritmo è informale, festoso, ma comunque concertistico.
Dopo si ha la possibilità di ascoltare una canzone del repertorio recente di Gianni Morandi intitolata "Dimmi adesso con chi sei". Il brano si divide in due parti distinte, la prima acustica, eseguita quindi completamente live, un'altra con una base, ma non vi preoccupate, la voce di Morandi svetta in tutta la sua limpidezza.
Forse leggermente meno recente è questa "Io sono un treno", una delle più simpatiche canzoni di Morandi, dove si racconta con tenerezza la maturità ormai raggiunta dal "ragazzo di Monghidoro".
Forse, questo brano potrebbe esere dedicato alla figlia del cantante e cantautore, infatti non ha dimenticato che, sin dall'inizio ed in molti casi recentemente, Morandi si occupa personalmente di comporre il suo repertorio.
Ed eccoci a "Tenerezza", un brano che conoscevo, ma non sapevo di conoscere, risalente al primo repertorio. La versione live è molto fedele, anche se è denudata di quelle magiche orchestrazioni così tipiche di quegli anni.
Subito dopo arriva "Chimera", una delle mie canzoni preferite di Morandi, che, eseguita solo con chitarra acustica, acquista un'aura folk interessante. Spesso e volentieri, purtroppo, e "Chimera" non è un'eccezione, molti brani sono eseguiti per metà, ma è un cd che io consiglio caldamente, perché dà la possibilità, forse come pochi altri, di capire, o di convincersi, del fatto che la sua popolarità, Morandi se la merita tutta.
Subito dopo si fa un salto di trent'anni, e si ascolta "La storia mia con te", sigla di "Cento vetrine". La versione è molto bella, acustica, come quasi tutto questo cd.
Subito dopo, completamente accompagnata da una base, si ascolta "Bella signora, un brano risalente alla fine degli anni '80, classico indiscusso della carriera del nostro.
L'interpretazione è forse meno dura in alcuni punti, ma non c'è confidenzialità.
Ora Gianni Morandi, tornando in acustico, interpreta una delle canzoni del periodo di semideclino, quello degli anni '70, quello dove, forse, proprio dato che aveva meno pubblico, ha potuto interpretare non tutte, ma alcune delle sue canzoni più belle, anche se questa è un'opinione relativa e soggettiva.
Ho detto della relatività dell'opinione appena espressa, ed infatti si arriva ad una delle mie canzoni preferite di Morandi, la bellissima "Varietà", scritta per lui da Mario Lavezzi alla fine degli anni '80.
La versione live è, forse, più sofferta, sicuramente più rabbiosa, ma non direi disperata.
Ed eccoci a "Se non avessi più te", uno della grande triade dei "lentoni" morandiani degli anni '60, che, d'altronde, verrà completamente eseguita.
L'interpretazione è, più rabbiosa, meno confidenziale, ma, anche nel Gianni Morandi attuale, c'è nascosto il ricordo di quello anni '60.
Ed ecco la canzone con cui, dopo il periodo buio degli anni '70, Morandi è tornato prepotentemente alla ribalta. Il brano, ovviamente, è "Canzoni stonate". Anche questa è eseguita per metà in acustico, e Morandi lì si prende delle interessanti libertà ritmiche, e per metà coadiuvato dalla base originale del brano.
Il pubblico, alla fine, delira e Morandi continua con "Solo all'ultimo piano", un'altra delle sue canzoni più intime, che viene seguita da "La mia nemica amatissima" che, nonostante il crescendo di ritmo, è accompagnata solo dalla sua chitarra, che Morandi suona con semplicità ma bene.
Ed ecco una delle più famose e carine canzoni di Morandi, la "latinsong" "Banane e lampone", scritta da Franz Campi, cantautore toscano, il cui testo fu però modificato per renderlo cantabile da Morandi.
La versione live è interessante, soprattutto per le improvvisazioni di Morandi durante gli intervalli strumentali,ed è una delizia.
Ed eccoci ad un altro brano tratto da "Dalla-Morandi", quel "Chiedi chi erano i Beatles", scritto da Gaetano Curreri e da lui interpretata con i suoi Stadio.
I semplicissimi, ma ben fatti arpeggi della chitarra di Morandi, riescono a dare un'anima nuova ed intima anche a questo brano.
E subito dopo si va verso gli anni '60, con una ballata meravigliosa intitolata "Ma chi se ne importa". E' uno dei brani che resta più se stesso, pur nella cornice strumentale completamente diversa. Purtroppo anche di questa se ne sente solo metà, ma i brani sono tanti ed il tempo di un cd è quello che è.
Si arriva poi ad un brano recente, intitolato "Stringimi le mani", che io, e qui lo dico, non conoscevo. E' una ballata con quelle melodie che permettono come poche a Morandi di esprimersi in tutta la sua bravura e forza di voce.
Ed eccoci al primo medley dedicato agli anni '60. Il primo brano è "Se vuoi uscire una domenica", che Morandi esegue con una forza ritmica insospettabile, rispettando rigorosamente il tempo di twist. Il brano era stato anche, per chi fosse a caccia di curiosità morandiane, reinterpretato dagli Statuto. Il ritmo poi diminuisce tramite due bellissimi terzinati, intitolati "Si fa sera" e "Notte di ferragosto". Nonostante le parole quasi gridate, si può assolutamente capire, o ricordare, la bellezza e la dolcezza di queste melodie.
Ed eccoci ad "Occhi di ragazza", canzone scritta da Lucio Dalla per Gianni Morandi, e da costui lanciata e messa tra le canzoni più belle e semplici della musica italiana. La versione presentata in questa occasione, coadiuvata da una base moderna, non da quella originale anni '70, è appassionata, cantata in maniera impeccabile.
Ed eccoci ad un'altra delle mie canzoni preferite di Gianni Morandi, "la fisarmonica". Questa versione, eseguita da Gianni Morandi coadiuvato solo dalla sua chitarra e da accenni di fisarmonica, riesce a rappresentare meravigliosamente l'intimità struggente propria di questo pezzo.
Subito dopo, Morandi accenna "Al bar si muore", brano di protesta da lui inciso alla fine degli anni '60.
Subito dopo c'è un accenno a "Solo chi si ama veramente", che prelude ad una meravigliosa "Scende la pioggia", cantata, metà come sempre, insieme al pubblico.
Ed eccoci a "C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones", scritta dal cantautore umbro Mauro Lusini e censurata dalla Rai.
Questo brano è uno di quelli che meglio rende in questa veste, chitarra e voce sola, perché in fondo ci è nato, o è facile immaginarcelo.
E' una delle più belle e sentite ballate antimilitariste, nell'ambito della canzone d'autore italiana. E' uno dei pochi brani del cd che vengono eseguiti per intero, prevalentemente in acustico, con un leggero aiuto di base solo nel finalino.
Ed eccoci a "Non son degno di te", uno dei tre "lentoni" insieme a "Se non avessi più te", "Non son degno di te" e "In ginocchio da te". La versione è veramente toccante, anche perché si sente il pubblico che gli va dietro, con un'intonazione veramente invidiabile.
Subito dopo si ritorna al presente di Gianni Morandi con "Il tempo migliore", una delle ballate di gratitudine alla vita con cui il cantante ora spesso ama deliziarci. Infatti, signori, una delle missioni dell'arte vera, è quella difarci capire il valore di questa cosa tanto disprezzata chiamata vita. Anche qui, come in tutte le recenti, dopo una prima metà acustica, Morandi è stato coadiuvato da una base.
Ed eccoci al secondo medley, che si apre con una delle sue primissime canzoni, il twist "Andavo a cento allora", seguito, senza soluzione di continuità, da "Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte", canzone che, ormai da quarantasei anni, fa parte, irrimediabilmente, della scaletta dei concerti del Gianni nazionale. Ed eccoci, diminuendo il ritmo, all'ultimo dei "lentoni" di cui abbiamo già parlato, la bellissima "In ginocchio da te" che, come le altre due, ha dato spunto ad un "Musicarello" a cui Morandi ha partecipato.
Ed ecco uno degli inni della carriera di Morandi, la ballata autobiografica "Uno su mille". Anche qui, la seconda parte Morandi la sta eseguendo aiutato da una base, che credo, a parte la tonalità, sia quella originale. Anche questa canzone dà un messaggio importante, che non ci si deve scoraggiare mai.
Ed ecco una versione di "Non ti dimenticherò", brano originariamente cantato insieme ad Alexia, che diventa "Non vi dimenticherò", come inno di gratitudine al pubblico, ente di cui molti artisti si scordano, a cui, invece, Morandi tiene molto, forse perché ha saputo cosa significa perderlo, e credo anche di colpo.
Il cd si chiude con l'unico inedito presente, intitolato "Grazie a tutti", come le ultime tre raccolte pubblicate dal cantante emiliano.
In questo brano, se vogliamo, Morandi si avvicina allo stile di Renato Zero o del Don Backy de "L'artista" ("Vivendo cantando", 1981).
E' una ballad rock, ma molto italiana ed aperta, come serve a Morandi per dare il meglio di sé.
Mi dispiace non aver potuto parlare del dvd, come io avevo ingenuamente e forse superbamente previsto, ma spero di avervi stimolato e, perché no, spero di aver portato un piccolo contributo ad un successo annunciato.

Commento alla puntata del 12 settembre di canzonenapoletana@rai.it

Carissimi lettori, continuiamo, andando indietro in verità, il percorso nelle poesie di Beniamino Canetti.
Siamo, credo, negli anni '40.
Si inizia con una bellissima canzone, interpretata dal grandissimo tenore e interprete di giacca e sceneggiata Enzo Romagnoli, che si può scoprire tramite il cd della Phonotype records "Canzona 'mbriaca". Il brano che sentiamo si intitola "Peccato", e ricorda un altro brano, scritto da Francesco Fiore ed Evemero Nardella, intitolato "Scummunicato".
Il brano, purtroppo inficiato da un traballamento di tonalità, che lo fa salire e scendere di mezzo tono in continuazione, è a tempo di habanera, ed è cantato da Romagnoli con una bellissima confidenzialità, che però, ovviamente, come è giusto che sia, non fa scordare l'impostazione di sceneggiata.
Stiamo ora sentendo una bellissima canzone interpretata da Alberto Amato, stupenda voce da riscoprire come Romagnoli. Il brano si dovrebbe intitolare "E dimme" e, come nella precedente canzone, si parla della malvagità della donna. Se ne parla, però, con una tale poeticità e con un rispetto nascosto e magico, che anche questo tema, altrimenti ingiurioso, diventa sopportabile e dolce.
La voce di Alberto Amato, come sempre, è potente, ma la potenza non è tiranna, anzi il colore dominante del timbro è una dolcezza quasi assoluta.
Ed ecco che, dopo due melodie di impronta più o meno riconducibile a Gaetano Lama e ai compagni di Libero Bovio, abbiamo il piacere di ritrovare i giri freschi, etnici e arabi di Gino Campese. Il brano è "In campagna è n'ata cosa", scritta nel 1948 e cantata da Claudio Villa, un "reuccio" giovane e confidenziale, insomma quello che piace a me.
Se io sono un'ammiratrice del "reuccio", lo devo alle mie nonne, che mi ci hanno allevato, e alla perfezione della sua voce, che mi ha soggiogato.
Ed ecco uno dei miei cantanti napoletani preferiti, il tenore Salvatore Sebastiano, in arte Franco Ricci, che ci canta una canzone su un emigrante che, tornato in attesa di ritrovare il suo vecchio amore, si scopre tradito e si lamenta con l'espressione "Che sso' turnato a ffà".
L'emigrante, ovviamente, torna dalla madre, ma il rancore per la donna traditrice è accentuato dal fatto che il protagonista è tornato apposta per sposarsi, mentre non può farlo.
Musicalmente è molto triste, ma ci sono sempre questi giri arabi, così caratteristici di Campese.
Ed ecco il giovane Sergio Bruni, con una di queste melodie, probabilmente sempre di Campese, in tonalità minore per la strofa, con il ritornello in maggiore leggermente swingato, o comunque binario ma lento.
Ma non pensate a quei brani leggeri, dovete stare attenti alle evoluzioni musicali, che richiedono ascolto profondo, profonda comprensione per essere apprezzate.
Il testo è uno dei tanti di Canetti dedicati alle rose, e si intitola "Geluso d'e rrose". E' un po' come "'E rrose parlano" di Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi, dove le rose dànno agli innamorati alcune indicazioni su come si debbano amare.
Ed eccoci già alla fine di questo viaggio, che si conclude con "'E rrose vonno ammore", scritta nel 1950 ed interpretata da Franco Ricci. Anche questa canzone può essere paragonata a "'E rrose parlano", ma, forse, musicalmente parlando, all'interno del repertorio dell'autore, può confrontarsi con "Purtatele sti rrose".
Anche qui troviamo questi ritmi liberi, un po' "habanerados", che richiedono grande bravura interpretativa, che d'altronde non mancava a Franco Ricci.
L'altro commento, purtroppo, non si concludeva con il link al sito dell'Archivio Sonoro della Canzone napoletana, ma ve lo do subito: http://www.canzonenapoletana.rai.it/.Lì, dopo aver scaricato realplayer, potrete immergervi in queste bellissime e rarissime canzoni da riscoprire assolutamente.

giovedì 24 settembre 2009

Commento alla puntata del 19 settembre di "Canzonenapoletana@rai.it

Carissimi lettori, ecco qui un commento ad una puntata della trasmissione "Canzonenapoletana@rai.it". E' presentata da Paquito del bosco, un uomo napoletano dalla voce un po' impastata, ma di quell'impastato affascinante, un po' tenorile, ma senza potenza.
La trasmissione è dedicata alle poesie di Beniamino Canetti.
Siamo nel 1951, e si parte, rigorosamente con materiali antichi in vinile, con "Chiammatela buscia", interpretata da Sergio Bruni. La voce di Bruni qui è giovanile, tenorile e dolce, quindi su di me esercita un fascino minore rispetto a quando lo si sente cantare maturo, in quel modo già faticoso. Il brano, pieno di pause ed altri abbellimenti, è stato musicato da Furio Rendine.
Per il secondo brano la qualità peggiora, quindi purtroppo non è che si può capire molto la bellezza, che comunque è notevole, di questo "O cafunciello", cantato dall'attore Lino Mattera.
Quello che si può dire è che è una tarantella, alla napoletana e quindi lenta, paragonabile a "'O zampugnaro 'nnammurato" di Armando Gill.
Dovrebbe essere una canzone su come l'amore possa mandare in rovina, o comunque sulle sfortune provocate dall'amore (ma si capiva male, lo ripeto!).
Ecco un brano di cui si può parlare precisamente. E' stata scritta nel 1953, musicata da Mario Ruccione ed interpretata da Nino Marletti. La canzone si chiama "Bella 'nnanze a stu specchio". Si parla, come spesso accade nelle canzoni napoletane, del fatto che la bellezza da sola non può causare l'amore di un innamorato, il quale, anzi, non perde occasione di ricordare alla donna la propria nullità.
Oserei dire che l'incisione del brano non è l'originale, perché gli arrangiamenti risentono di sonorità più anni '60, ma questa circostanza ci permette di apprezzare una buona voce tenorile, anche se magari non molto potente, sicuramente non da dimenticare.
Ed ecco un brano dove un innamorato tradito augura il peggio alla scellerata donna (Cunfiette amare"). La melodia messa da Giuseppe Cioffi su questo testo, abbastanza banale anche se bello, sicuramente lo innalza, perché il suo ritmo libero eleva la mente dell'ascoltatore, che è obbligato a seguire profondamente le evoluzioni musicali, aiutato anche dalla semplicità, ancora spontanea e senza mediazioni, anche se come ho detto prima meno affascinante, della voce del giovane Sergio Bruni.
Ed ecco, finalmente, la voce scura di Isa Landi, bella veramente e da riscoprire, con una canzone un po' macchiettistica, anche se Canetti non era esattamente un autore connotabile con questo genere. Il brano si chiama "'A zuccariera", e potrebbe ricordare "'a tazza 'e cafè", scritta nel 1918, ma continuamente cantata per anni e anni da artisti come Roberto Murolo, Aurelio Fierro o Renzo Arbore.
Purtroppo ora, da un vecchissimo 78 giri ridotto più che alla frutta, stiamo ascoltando la bellissima e potentissima voce di Franco Ricci (il purtroppo è legato alle condizioni del disco, non a Franco Ricci!).
Il brano che stiamo ascoltando si chiama "Tramonto a Napoli".
Posso dirvi pochissimo: il maestro campese, autore anche di questa melodia, come spesso fanno i maestri compositori napoletani classici nelle melodie tristi, usa numerose scale arabe, che permettono al cantante, che deve essere bravissimo, di esibire elasticità soprattutto nelle note tenute.
La puntata, veramente bella se non fosse l'inconveniente, d'altronde anche dal presentatore deprecato, dei dischi rovinati, si conclude con "E' bello 'o mare", brano inciso nel 1957 da Mario Abbate.
Il brano è un bolero alla cubana, ritmo che sta benissimo con le sonorità più scure che mai del vero napoletano, quello ben parlato, con tutte le sue vocali che, sotto la loro apertura estrema, nascondono questa anima triste e romantica, che forse è una delle chiavi di lettura del successo universale della canzone napoletana.
Anche questo brano riprende uno dei temi più comuni della storia della canzone napoletana, il potere salvifico del mare dalle pene d'amore.
E così è finito questo speciale napoletano, e da oggi, ve lo prometto, avrete almeno un post alla settimana dedicato alla canzone napoletana, non vissuta al livello a cui posso permettermi di viverla io, ossia da ascoltatore medio, ma vissuta al livello di collezionismo, attraverso la riscoperta di queste rarità, che, tramite il sito dell'Archivio Sonoro della Canzone Napoletana, io andrò a sentire e a commentare per voi: buona lettura e sempre viva Napoli!

domenica 20 settembre 2009

Arakne mediterranea ad Assisi

Carissimi lettori, con molto piacere oggi aggiorno questo blog di "parole in libertà" sulla musica, per riferirvi alcune cose, non tutto quanto vorrei ma questa è un'altra storia, sul concerto degli Arakne Mediterranea tenutosi ieri sera ad Assisi all'interno dell'"Endurance lifestyle".
Intanto facciamo suonare qualche nota scordata: il concerto era mal organizzato e al grande gruppo salentino non è stato dato il rilievo che questo meritava, preferendo far precedere e addirittura interrompere il turbinio delle tarantelle, da un'esibizione di un ballerino di "Amici" che, dice, abbia anche ballato con vesti succintissime.
Venendo all'esibizione degli Arakne, è stata caratterizzata da un viaggio storico nella tarantella, che è partito con un paio di tarantelle barocche, di cui una particolarmente bella in sol minore, per poi approdare ad una tarantella ottocentesca, la cosiddetta "Aria romantica", prima di arrivare al repertorio propriamente di origine contadina. Una delle caratteristiche che rendono gli Arakne apprezzabili, infatti, è proprio quella di non accontentarsi del pur sterminato repertorio di matrice contadina, volendo anche ricordare il periodo, piuttosto lungo in verità, in cui tutti i ceti sociali erano al dentro del meccanismo culturale del tarantismo.
Per quanto riguarda questa parte di repertorio, esso è caratterizzato da una maggiore lentezza, il ritmo può essere assimilato a quello della rielaborazione della Tarantella del gargano della Nuova Compagnia di canto popolare, quindi è molto lontano da queste pizziche frenetiche che molti oggi amano pazzamente.
Oltre che dalla già citata tarantella in sol minore, contenuta nel cd "Danzimania", questa sezione è stata costituita dalla "Tarantella del '600", più conosciuta nella versione della Nuova Compagnia di Canto Popolare, da un ottava siciliana, probabilmente di origine propriamente settecentesca, con riferimenti anche al tarantismo d'acqua ancora vivo nella zona di Brindisi, che però secondo molte testimonianze nei secoli passati si estendeva per tutto il Salento, e dalla già citata "Aria romantica".
Per quanto riguarda la "Tarantella del '600", un po' virtuosistici e forse anche troppo pesanti, gli interventi del flauto di Gianni Gelao.
Gli Arakne Mediterranea, fondati nel 1993 dal grande ricercatore Giorgio di Lecce, si sono caratterizzati per aver fatto effettive ricerche sugli ultimi periodi del tarantismo, con testimonianze risalenti a venti o quindici anni fa, pubblicate anche in una parte del libro "La danza della piccola taranta" ("Sensibili alle foglie, Roma, 1994), di cui ci hanno offerto un esempio con il brano "Lu Paulinu meu/ Ah uelì", ricostruzione molto fedele di strofe e "suonate" di una delle tarantate incontrate dal di Lecce.
Una mensione particolare, infine, merita in questa prima parte la particolarissima e lentissima versione de "Lu Santu Paulu", che gli Arakne cantano anche nel cd "Tre tarante" col titolo "Te pizzicau", che dal vivo è stata prevalentemente accompagnata dalle mani degli Arakne, più le nostre anche se quelle del resto del pubblico lavoravano pochissimo, mentre le mie non si tenevano. Nel cd, giusto per dimostrare l'evoluzione positiva avuta dal gruppo in questi ultimi anni, il brano ha una coda importante a pizzica di Cutrofiano, tamburo e voce, anche se la terzina di tamburello non è molto battuta, e un finalino, sulla melodia comunemente intitolata "Fimmene fimmene" a cappella.
Dopo la pausa, su cui sorvoliamo per non essere troppo polemici, si è lasciato spazio ai canti di lavoro e d'amore smettendo di parlare dei "canti di taranta" (definizione data da Imma Giannuzzi, grande voce e coordinatrice del gruppo e del concerto).
La sezione è iniziata con uno dei più indiscussi classici della musica popolare del basso salento, la tarantella "E lu sule calau calau", che gli Arakne eseguono a partire dalla rielaborazione dei "Radici", uno dei gruppi storici della prima generazione della "riproposta" salentina. Le due voci femminili, come spesso accade negli Arakne, si alternano in una sfida, anche se con strofe decise, tra il canto più rurale di Imma Giannuzzi e quello più urbano e dolce dell'altra interprete.
Ed eccoci a "Fimmene fimmene", fatta dagli Arakne con un introduzione di flauto traverso che arrivava ad avere sonorità indiane, seguita da una parte a cappella, dove io e la mia amica ci siamo sfogate a cantare, e poi da una parte, meno efficace e forte secondo me, dove gli strumenti tornavano a farla da padrone con interessanti, ma forse troppo virtuosistici, "volteggi" del tamburello e del flauto, sotto un tappeto di chitarra classica.
C'è stato poi spazio per "Lu rusciu de lu mare", ed anche lì si poteva notare l'influenza di Donatello Pisanello e dei primi Alla Bua, anche se l'arpeggio di chitarra, per quanto riguarda la scansione degli accordi, non era lo stesso. La particolarità degli Arakne su questo pezzo è che la parte mediterranea, paragonabile per certi versi a quella degli Officina Zoè in "Terra", viene cantata con un testo in griko. Purtroppo, come molti di quelli che eseguono questo brano in due o più parti, anche gli Arakne si scordano di quella che per me è la strofa più commovente di tutto il brano, ossia:
E vola, vola, vola palomma vola,
e vola, vola, vola palomma mia
ca ieu lu core meu,
ca ieu lu core meu,
ca ieu lu core meu te l'aggiu dare".
In griko, è stata anche eseguita una pizzica, sulla melodia spesso chiamata "Pizzica di Cutrofiano", intitolata dagli Arakne "Pizzica grika" o "Rirollallà". Trovo l'accostamento di questi elementi, non vorrei dire forzato ma sicuramente poco convincente.
Mi ha toccato moltissimo, invece, una rielaborazione, eseguita chitarra, mandolino e voci, di "Andramupai", canto sull'emigrazione. Purtroppo, ma qui voglio spezzare una lancia a favore del coraggio degli Arakne, quello non era il posto giusto per eseguire un brano con queste atmosfere, il pubblico, per dirla con i portoghesi, "cochicheava", sussurrava, insomma disturbava.
Si è avuta, verso la fine, "kali nifta". La versione degli Arakne, nonostante la velocità che trovo forse un po' esagerata, è riuscita a piacermi per le particolarissime strutture ritmiche della darbouka di Luigi Giannuzzi. Il brano era una specie di Sirtaki, subito abbastanza veloce in verità, ma si riusciva a palpare il romanticismo che c'è in questa serenata.
Si è avuta poi una "Pizzica di Ugento", con un accenno a "Sale", con lo stesso identico inizio di quella degli Officina Zoè in "Sangue vivo", ma non va scordato che va dato a Giorgio di Lecce, più che ad ogni altro, il merito di aver scoperto Pino Zimba e di averne capito le potenzialità.
Il concerto si è poi chiuso con una pizzica tarantata, alla Stifani, dove, contrariamente a quanto avviene nelle versioni in disco degli Arakne, come in "Tre tarante", l'armonica ha avuto una parte assolutamente da leone, relegando il violino a strumento secondario.
Dopo l'esecuzione di questa rielaborazione della tarantata, Gianni Gelao si è lasciato andare a virtuosismi con la zampogna in sol, aiutati da un interessante dialogo tra tamburello salentino e tamburo barocco.
Spero di avervi aperto gli occhi, con questo articolo che purtroppo non può essere più preciso, su una realtà che nel Salento, terra dove i voltafaccia musicali sono all'ordine del giorno, da ormai sedici anni persegue caparbiamente un proprio e preciso obbiettivo.
Per saperne di più sul gruppo degli Arakne, si può andare su http://www.araknemediterranea.com/. Buon ascolto e"attarantatevi!".

venerdì 18 settembre 2009

Al rey de Cuba

Carissimi lettori, oggi voglio tornare a scrivere per pagare un debito nei confronti di un artista che mi ha formato molto, onorandomi, in occasione dell'unica sua visita a Perugia, di un concerto privato con lui.
Mi riferisco a Compay Segundo, grande interprete, pur essendo nel ruolo di seconda voce, di musica cubana, specialmente del son, quel ritmo che proprio dalla sua natale zona orientale, ed in particolare da Santiago, si era poi irradiato in tutta l'isola ed in tutto il mondo.
Come molti di voi, pur essendo già un'appassionata di musica cubana, che avevo scoperto tramite i miei numerosi contatti con le comunità hispanoamericane di Perugia, quando ascoltai Buenavista Social club, mi trovai davanti ad un mondo nuovo. Infatti, e dato il mio proverbiale romanticismo non poteva essere altrimenti, la mia passione per la musica di quelle parti si alimentava con numerosi ascolti di "boleros" cantati da artisti come l'Orquesta aragón, José Antonio Mendez, Alberto Beltrán e, soprattutto, con l'ascolto de Los Panchos, grandissimo gruppo messicano ma di matrice molto vicina.
Tramite Buenavista, che io ebbi ben due anni prima che scoppiasse la mania generale causata dal bellissimo film di Win Wenders, scoprii il son ma soprattutto la caldissima e bassissima voce di Compay Segundo. Chi mi conosce, tra l'altro, sa benissimo la mia proverbiale passione per gli strumenti a corda. Ovviamente, fin dai primi ascolti di quel disco, mi avevano colpito le acrobazie del tres cubano di Barbarito Torres, ma soprattutto la delicatezza dell'armonico, strumento da lui inventato e concepito, suonato da Compay Segundo.
Conobbi personalmente il cantante ed autore cubano, quando questi aveva novantadue anni, in occasione di un concerto al palazzetto dello sport di Perugia.
Ebbi l'onore, veramente indimenticabile, di poter partecipare ad una conferenza stampa, tenutasi prima del concerto, dove potei apprezzare l'infinita umanità del trovatore, il quale, intenerito dalla mia giovane età e dalla mia grande passione per la sua musica, decise di concedermi una "suonata" privata con lui.
Il tutto avvenne, in presenza di suo figlio e di pochi altri intimi, in una casa del centro della città. Lì c'era un pianoforte che venne fatto accordare per l'occasione. Me ne ricordo come di uno strumento caratterizzato da un suono scuro e notturno, mi ricordo anche le mie folli improvvisazioni, aiutate dalla ritmica implacabile e rigorosa dell'armonico di Compay.
Un ricordo che mi è molto caro, anche se ormai è abbastanza sbiadito, è quello della partecipazione del grande cantante cubano ad una puntata di "Fuorigiri", trasmissione dedicata alle musiche "altre" condotta una decina di anni fa da Enzo Gentile su Radio 2.
So che parlare di musica latino-americana è ormai controcorrente perché fingete tutti di essere pizzicati, ma io amo le cose quando sono fuori moda, e anche se le investono le vostre mode fugaci, io non per questo mi perdo d'animo o giungo ad amarle per questo.
Quindi, ai lettori curiosi di scoprire quest'uomo saggio, passato dalle coltivazioni di tabacco alla musica e da un oblio ingiusto ad una fama improvvisa, io consiglio il cd "Lo mejor de la vida" edito dalla CGD. Non è una raccolta, è un album di inediti inciso subito dopo Buenavista, insieme al suo gruppo privato, il quale ancora suona, chiamandosi ancora Compay Segundo y sus muchachos. L'album in questione è uno dei dischi più hbelli ed illuminanti su come una tradizione, pur venendo a contatto con altre realtà, in questo caso specifico spesso con quella spagnola e andalusa, rimane orgogliosamente se stessa: nonostante le collaborazioni della cantante Martirio e del chitarrista Raimundo Amador, questo è un cd di son e boleros e non si scappa.
Non vi racconto la storia di Compay, perché è raccontata da molte parti. Io ho solo voluto raccontarvi un "mio" Compay Segundo, per ricordarvi semplicemente la sua esistenza... buon ascolto!

venerdì 11 settembre 2009

La "codina" di "Ecchite maje"

Carissimi lettori, questa sera mi va di riflettere, ci ho pensato un po' tardi, più approfonditamente sul rapporto che si deve avere con le "fonti", nel momento in cui si decide di fare musica popolare.
Partirò dalla "codina" della "Pastorale per Gaspare e Rodolfo", brano che chiude l'appena recensito "Ecchite maje" dei "Musicanti del piccolo borgo".
Il cd, che come ho detto è un lavoro estremamente onesto, per confermare questa sua vocazione, si chiude con dei frammenti dei brani tradizionali che il gruppo ha rielaborato per questa occasione. Così si fa!
E' ovvio, naturalmente, che questo non basta per farmi definire un disco "onesto", e forse non è neanche un criterio basilare, ma voglio ritenerlo importante e voglio comunque portare questa "traccia nascosta" come esempio di un buon lavoro.
Una cosa simile era avvenuta nel cd del progetto "Ausuléa", dedicato ai canti erotici della provincia beneventana, che si apriva e si chiudeva con due estratti dei brani di apertura e chiusura cantati dagli informatori che li hanno dati ai ricercatori che poi li hanno rielaborati. Lì, però, dopo aver ringraziato tutti i cantori tradizionali per il loro aiuto, questo patrimonio viene troppo rielaborato: non tanto dal punto di vista armonico, cosa che magari sarebbe interessante, vedasi i "Musicanti del piccolo borgo", ma dal punto di vista strumentale, o meglio della maniera in cui gli strumenti vengono suonati. Si ha quasi paura, in quasi tutti i brani del cd in questione, di far suonare i tamburi in maniere che io, profana per quanto riguarda il folk campano, possa ricondurre alla tradizione.
Sinceramente, e scrive una pianista che quindi come tale non è contraria alle contaminazioni, mi pare che si usi la gratitudine agli anziani e alle "fonti" solo per pulirsi la coscienza.
Il "ripropositore", invece, se fa repertorio tradizionale, sarebbe tendenzialmente portato ad un effettivo rispetto, se non dei canoni stilistici in questione, quanto meno di una certa maniera di toccare gli strumenti. E' vero che i contadini di solito non li usavano, ma noi non siamo nessuno: loro la loro musica se l'erano inventata, noi, invece di crearcene una nostra, scimmiottiamo quella di un paese più forte di noi (gli Stati Uniti ovviamente!).
Quindi, questa considerazione ci dovrebbe far perdere un po' di tracotanza, facendoci invece scoprire il gusto di una semplicità spessissimo snobbata.
Oltretutto, e vi faccio un esempio "officiniano", si può reinventare completamente un brano tradizionale, mantenendo fedelmente la melodia, anche solo facendo venire a contatto questa struttura melodica "di base" con altre tradizioni, come gli Zoè hanno magistralmente fatto in "Ferma ferma" ("Crita", 2004).
Il bello della musica di tradizione, che io chiamo popolare perché il pop lo chiamo "musica leggera" (e non c'è alcun disprezzo anche se non lo amo), è proprio la sua diversità, questa voglia di cambiare, questa possibilità improvvisativa, che la musica leggera, magari più complicata, ha tolto al musicista. Questa diversità di caratteristiche, oltre al fatto che in fondo la musica "commerciale" nasca a tavolino con intenti di "rottura" col passato, rende incompatibili i due mondi da tutti i punti di vista.
Quello che voglio dirvi, ed ecco che alla fine si torna ad "Ecchite maje", è: invece di intessere lodi ad anziani il cui patrimonio derubate per renderlo più fruibile a persone che vi ascoltano solo per inerzia, rispettate davvero il passato rimanendovi fedeli, soprattutto armonicamente, magari citando, come i "Musicanti" fanno per ogni brano, la fonte discografica o di raccolta privata. Meno chiacchiere e più coscienza!

martedì 8 settembre 2009

Canzone per Sergio (recensione della puntata di "Effetto notte" su Endrigo)

Carissimi lettori, ecco a voi un altro commento a caldo ad un programma radiofonico di cui abbiamo già parlato. Questa sera commenterò per voi la puntata dedicata a Sergio Endrigo di "Effettonotte in Italia", programma condotto da Paola de simone, giornalista che ha anche un profilo su myspace all'indirizzo www.myspace.com/paoladesimone.
La puntata inizia con una bellissima "Io che amo solo te", che tra l'altro è il primo brano che io riesco a ricordarmi di Sergio Endrigo, con cui la calda voce del cantante istriano mi ha soggiogato per sempre.
Ho deciso di scrivere questo articolo perché, come giustamente dichiara Claudia Endrigo, figlia del cantautore, che sarà intervistata stasera proprio in "Effettonotte in Italia", Endrigo non ha goduto, neanche post mortem, del riconoscimento che gli va tributato per essere stato uno dei più sensibili cantori di quel disagio profondo che farà sempre parte dell'uomo come tale.
La puntata è iniziata con una serie di amare considerazioni su come viene trattata l'arte, soprattutto se di serie A, nel nostro paese che ancora si chiama il paese dell'arte, i cui artisti, però, come diceva Cammariere nella canzone "Vita d'artista" del cd "Dalla pace del mare lontano", (giusto per fare un altro nome di un altro dimenticato quasi subito), "viva i suoi artisti tenuti in disparte: senza una lira per settimane...".
Claudia Endrigo, alla cui caparbietà io dico un evviva! sentitissimo, ha ricordato che Endrigo è amato e, però, è ignorato dalle case discografiche che, quando decidono che un artista non ha mercato, lo hanno deciso per sempre.
Il secondo brano emesso, toccantissimo tanto è vero che ho pianto, è stata la versione commoventissima di "Lontano dagli occhi" cantata da Gino Paoli. E' stata tratta da un bellissimo cd che io possiedo, di tributo ad Endrigo, inciso in occasione di un concerto organizzato da ClaudiaEndrigo. E' stato organizzato all'Auditorium di Roma, con i migliori artisti italiani e molti erano dovuti rimanere fuori. Infatti, e ricordatevelo, i cantanti stimavano Endrigo. Quel concerto, e Claudia l'ha detto, è stato fatto con una delicatezza unica, che purtroppo, ad esempio, per De Andrè non c'è stata, anzi, in questo decennale della morte mi pare si sia andati in direzione d'un ricordo che uccida l'artista ricordato e la sua cultura-matrice. Credo, infatti, che quando culture troppo diverse si uniscono tra loro, rarissimamente si possono fare capolavori o cose anche solo minimamente accettabili.
Adesso stiamo ascoltando un brano dove Sergio Endrigo duetta con sua figlia Claudia, che, come ho già detto, è ospite di questa puntata che stiamo commentando. La voce di Claudia, e lo dico da appassionata di voci, è molto più interessante nel parlato che in questa canzone. Lo ha detto la stessa Claudia, non è matura, è molto schematica, ma la sua voce, nel parlato, ha bellissime basse, è un contralto con qualche nota più bassa del normale.
Claudia Endrigo si è poi presentata anche come ascoltatrice di musica, ed è una persona con un'ampia cultura che va dal soul, alla grande musica d'autore italiana, ad alcuni cantanti pop attuali. Queste sono curiosità che fanno capire come i parenti di grandi artisti e personalità non vadano presi sempre come persone che "ci marciano" sulle eredità dei propri congiunti.
Ora stiamo ascoltando, dopo il brano in duetto tra padre e figlia tratto dal cd "Altre emozioni", una bellissima canzone, che non conoscevo, perché sono una "endrighiana" ma ignorante, intitolata "Le parole dell'addio". Come sempre, ci si trova avvolti da quella tristezza tiepida, così simile a quella del Fado portoghese. E' una ballata terzinata in stile classico, paragonabile ad esempio a "Lontano dagli occhi". E' un brano in minore, su ciò che sono "Le parole dell'addio" in un amore, che Endrigo chiama "parole di Giuda".
Per quanto riguarda l'Endrigo "fadista", si deve ricordare le interpretazioni che Amália Rodrigues dava, in tutto il mondo, della "Canzone per te" che aveva vinto il Festival di Sanremo '68. La versione di Amália è stupenda, di una tristezza meravigliosa, ascoltatevela e riscoprite due grandi, Endrigo ed Amália.
Fortunatamente questo post sarà di semplici parole, perché ora io sto piangendo, o quantomeno le lacrime minacciano di venirmi agli occhi. Sempre dal doppio cd di tributo ad Endrigo, che io consiglio caldamente, stiamo ascoltando la versione di Marisa Sannia, altra grande cantante italiana morta da poco e già dimenticata senza pietà, del brano "La rosa bianca", poesia di José Martí. Il poeta in questione, anzi la poesia in questione, è diventata il testo di "Guantanamera". Endrigo, vero poeta della musica, ha saputo rendere giustizia a questa poesia triste, malinconica.
Ora Claudia Endrigo sta raccontando un po' la psicologia di suo padre, di questa persona "tiepida", malinconica, grande e poetica. Ricordatevi che gli artisti, quando si cominciano a sentire dimenticati, anche solo segretamente diventano pigri, tanto più quando, magari, le loro personalità non sono particolarmente combattive, come purtroppo era il caso di Endrigo.
Il programma si sta concludendo con un brano che si chiama "Altre emozioni", che dà titolo all'ultimo cd inciso da Endrigo. La voce del cantautore magari non ha più quella naturalezza e quella dolcezza che la faceva essere quel magico tappeto che molti ricordano, ma, vi giuro, è sempre da brivido, anche perché, ragazzi, questa non è semplice musica, è anche letteratura, poesia.
Il consiglio che vi do con questo post, amici, è semplicemente quello di tornare a far rivivere Endrigo, anche solo nel privato delle nostre case.
Fatevi prendere e buon ascolto, così lo ricorderemo tutti!

sabato 5 settembre 2009

Note italiane nel mondo (recensione programma radiofonico)

Carissimi lettori, oggi voglio commentare, a caldo, un evento che si sta svolgendo ora a Trento, uno di questi patrocinati da Radio Italia solo musica italiana, che si dovrebbe chiamare "Radio Italia solo pop italiano" perché la musica italiana è molto più ampia di quella che loro mettono nelle loro playlist, che si dedicano solo al pop completamente e razzisticamente.
Comunque, bando alle polemiche, anche se assolutamente se ne faranno sicuramente sulle scelte operate. La serata inizia con uno dei cantanti che, secondo loro, rappresenta di più l'Italia nel mondo, l'abruzzese Luca di Risio.
Così dopo un'eternità, un anno e più di dimenticatoio, ritorna fuori "Sparirò", ballata d'amore solo un po' meno patetica della norma perché comunque il ragazzo ha grandi maestri tra cui Renato Zero, che ti insegnano, se non sei proprio tarato, a rifuggire dal patetismo. Questo brano, credo, fu tra quelli partecipanti al festival di Sanremo 2008, ed era l'anticipazione di un album intitolato "L'isola degli sfigati".
Ed ecco il primo singolo di Di Risio, intitolato "Calma e sangue freddo", una di quelle canzoni che, pompate dalle radio, è diventata falsamente famosa, perché, checché ne dicano i migliori analisti, il mercato discografico e dell'ascolto privato di musica, spesso segue tutte altre logiche rispetto a quelle che hanno portato le case discografiche nella terribile situazione in cui stanno (soprattutto le multinazionali che, quando chiuderanno, mi faranno tirare un grandissimo sospiro di solievo!).
Una parolina sul pubblico e sull'introduzione di Franco Nisi, direttore di questa radio. La presentazione è stata in stile piazza: tutta gridata, come piace a tutti ormai in giro, perfino alla Notte Della Taranta, che d'altronde sulla pizzica non ci batte assolutamente.
Ed ecco Fabrizio Moro, un cantante che si è costruito il suo successo con canzoni impegnate, con parole semplici e prosastiche, scritte come se io mi dovessi sfogare privatamente (sinceramente rimpiango "A mammata" che almeno contiene stoccate poetiche come "invece dell'anima hanno un sacco pieno di nulla mischiato col niente", perché, comunque, queste sono canzoni e non sono cose che io scrivo su un diario!).
Ed ecco come, gridando "Evviva la democrazia!", "Evviva la libertà", quindi facendo finta di attaccare il regime, in verità si è complici, perché non si usano logiche veramente "altre". Ad esempio non si gridano slogan inutili, per lottare si va in piazza e si parla e non si urla, ma si alza la coscienza della gente, non sicuramente urlando che non c'è libertà, ma facendo capire anche ciò che si vuole (vedasi la già citata e rimpianta "A mammata").
Detesto poi il fatto che molti di questi artisti, e Moro è il primo, nascondono con contenuti pseudopolitici, il fatto di essere delle nullità artistiche. (Attenzione: la politica è spesso uno specchietto per le allodole!).
Il prossimo artista, se non altro, merita rispetto, è l'autore di una delle più belle canzoni mai scritte di gratitudine al proprio mestiere, la bellissima "Vivo per lei" nella versione interpretata e lanciata da Aandrea Bocelli e Giorgia. Il suo nome è Giovanni Luigi Maria Panceri, detto Gatto. L'unico brano che ci presenta, che tutt'ora sta suonando, è "Di te", bella ballata dove si chiede di essere ascoltati, tema che costella tutta la discografia del cantautore, specialmente il suo ultimo cd "SOS.
Ed ecco gli Studio 3, uno dei gruppi creati a tavolino da qualche sprovveduto, che ha puntato su qualche piccola qualità d'esecuzione a cappella, ma non vi preoccupate che è semplice poppettino, un pochino meglio di altre boyband come i "Ragazzi italiani" ma la differenza non è poi molta.
Subito dopo, se non altro, si ascolta un rispettabile cantautore siciliano, Mario Venuti che, spesso, lascia il pop per immergersi nelle ben più difficili sonorità brasiliane. La ballata che sta presentando ora si intitola "A ferro e fuoco" ed è tratta da quello che, per ora e ancora per poco, sarà il suo ultimo album di inediti che, credo, porta lo stesso titolo. La ballata è un po' british, ricorda certe formazioni inglesi degli ultimi dieci o quindici anni. Certo, qui, essendo in playback non si sente, ma il rispetto, signori miei, non impedisce di notare che il cantautore in questione è stonato (una volta i cantautori non erano stonati!).
Ed ecco qui il brano che annuncia l'uscita del nuovo cd di Venuti, intitolato "Recidivo". Il brano si chiama "Una pallottola e un fiore" ed è una ballata molto lenta, molto lenta, con la strofe basata su accordi minori, anche settime, che cedono con estrema naturalezza spazio al ritornello in maggiore. Non vi illudete che questo sia un brano cantabile mentre ci si fa la barba, è un brano ricco, magari non con quella ricchezza italiana che sarebbe più portata verso uno sviluppo melodico ancora maggiore, ma è comunque un brano inebriato da suggestioni ricche come quelle dei Colplay di "In my place" e dintorni. Bel brano!
E' una vergogna, dico io, che le serate siano piene delle pubblicità degli sponsor, fatte anche dai presentatori delle serate stesse, che spesso non ci credono, facendo quindi un effetto ridicolo, pari forse solo a quello che si otteneva con i venditori ambulanti nei mercati, con la piccola differenza che quelli almeno erano autentici, ora non c'è neanche questo!
Si ricomincia, ritorna Franco Nisi. Ed ecco che si parla di come la musica italiana sia apprezzata in tutto il mondo, ed ecco che un artista cubano, che, scoperto da un italiano mentre era in vacanza, canta, un poppettino un po' scialbo, ovviamente nella nostra lingua che, magari, nemmeno sa. Voglio prevedere con cattiveria il suo futuro: farà la fine di Luis Miguel, vamos aolvidarnos de él, ce lo dimenticheremo.
Il timbro non è male, ma, mamma mia, non mi pare niente di straordinario, la canzone mi pare patetica, perché è lui che si arrabbia con lei perché non riesce a capire che, nonostante i suoi tradimenti, ancora lo ama (perché solo noi dobbiamo avere pietà, anche l'uomo deve essere onesto!).
Non ha nemmeno salutato il pubblico, dimostrando che è una completa nullità, il pubblico lo si saluta con le parole, non solo girandosi una piazza come una marionetta.
la rai, dopo aver capito che "Amici" era una bellissima idea, ha creato "X factor", frequentato da artisti che, sempre per questo potere di montare le cose tipico delle radio private, ora ripreso anche dalla tv e dai media di Stato, diventano dei casi mediatici.
Ovvio ci sono magari bellissimi controvoci, (vorrei sentirli dal vero!), ma non mi pare poi una musica così speciale né così personale (le vibrazioni, gruppo che non mi piace per niente, hanno più personalità!).
Sempre canzoni d'amore, con il pubblico femminile che sbraita maledettamente, così ben istradato e imitato da questa generazione di urlatori.
Ed ecco che i microfoni cominciano a scoppiettare, quindi l'ascolto, se prima era solo inficiato dalla bruttezza delle canzoni, ora è veramente reso impossibile da questi scoppiettii.
Comunque rimaniamo stoicamente all'ascolto, perché arriva Marina Rei, artista che comunque merita un maggior rispetto, perché si è arricchita ed ha studiato anche mondi "altri" che formano e aprono molto anche chi, semplicemente, vuole far musica leggera.
Ecco una ballata malinconica, direi anzi un po' tiepida, che porta un'intimità profonda, data anche dalla sua impostazione acustica. E' il racconto di un tema molto sfruttato dalla musica leggera, il ritorno di un amore finito, o i tentativi per farloresuscitare. Comunque, nonostante che a me lei piaccia poco, devo darle il merito d'aver fatto una bella canzone.
Ed ecco Paola Turci, artista che io ho anche conosciuto personalmente, che è riuscita anche a produrre brani a cui io sono molto legata, anche se ci si riferisce di solito a pezzi risalenti al suo primissimo repertorio.
Questa ballata, intitolata "La mangiatrice di uomini", credo che parli della società mediatica. E' una ballata poetica e politica insieme, bella, anche costellata da sonorità un po' classicheggianti che possono rimandare a certe sonorità anglosassoni così proprie della Turci che, è meglio non dimenticarlo, è stata tra le divulgatrici di Suzanne Vega in Italia con brani come "Mi chiamo Luca".
Ecco un altro bel po' di pubblicità a questa città che sta ospitando questo evento.
Le ultime due artiste, Marina Rei e Paola Turci, forse ci regaleranno l'unico momento veramente live della serata, tanto è vero che siamo in acustico.
Ecco un brano lanciato da Marina Rei interpretato qui, devo dire molto bene, dalle due artiste anche con buoni controcanti, nei quali la Turci fa il "basso" e la Rei fa la voce principale (ora che ci penso il brano si dovrebbe chiamare "I miei complimenti", non sono sicura ma ci ho provato!).
Nel finale, cantando completamente in falsetto e in pianissimo, i ruoli si sono invertiti.
Ho accennato ad un repertorio della Turci a cui sono molto legata, ed ecco un brano di quelli, la bellissima, poetica e veramente impegnata "Bambini". Qui, come è giusto che sia, la Turci sta facendo la voce principale e la Rei le fa il controcanto alto, ce la fa però forse annaspa ma ce la fa.
Le parti singole sono ineccepibili, insomma nell'insieme l'unico momento veramente bello per ora!
Purtroppo, dopo un bel momento, torna la publicità ipocrita, che finisce, ovviamente, nel modo più ipocrita, con un terribile gingle di Radio italia solo musica italiana.
Fino al 2009, per il pubblico nazionale, i neomelodici napoletani erano solo Gigi d'Alessio. Quest'anno è ufficialmente (io spero di no dentro di me...) decollata la carriera di Sal Da Vinci, figlio di Mario Da Vinci, che aveva già provato a sfondare quattordici (o un po' di meno o un po' di più?) anni fa, con un brano che passò abbastanza inossservato intitolato "Vera", di cui io, appunto, ricordo solo questo titolo.
Ovviamente, con la strada aperta da D'Alessio, Da Vinci finalmente ha sfondato, mentre l'unico grande cantautore moderno napoletano, Gigi Finizio, non può che accontentarsi di una nicchiettuccia.
Il testo di questa canzone, con la quale il Da Vinci è riuscito a "sfondare", ha un testo completamente copiato dal D'Alessio, quindi è completamente patetico.
Ma il cantante napoletano, per farsi perdonare, e devo dire che ci sta riuscendo, sta cantando "Tu si 'na cosa grande", brano con il quale il pugliese ("siciliano d'adozione e napoletano di gratitudine") Domenico Modugno, vinse il Festival di Napoli nel 1964.
Dopo averla sentita, anche ben cantata, io dico: se veramente la musica neomelodica avesse tutto questo successo, i neomelodici non dovrebbero cantare sempre le canzoni classiche.
E dopo la canzone napoletana, che comunque ci aveva fatto volare, si ricade gravemente sulla terra, con uno dei partecipanti ad "X factor.
Il brano è completamente acustico, ma è altrettanto completamente standard, la potrei paragonare alla ben più bella"Dimenticare" di Alessandra Amoroso.
Anche la voce del cantante, che si chiama Juri, mi pare completamente standard, tipica voce da giovanotto anche un po' stonato, che non riesce neanche a prendere tutte le note previste nella melodia che deve eseguire. Il canto, contrariamente a ciò che faceva Da Vinci quantomeno nella canzone "classica", si è basato su insulsi vocalizzi alla nord-americana, ma io allora mi chiedo: perché i nord-americani invece di ascoltare il nostro pop riempiono la Carnege Hall per gli Aramirè (gruppo di musica popolare salentina n.d.r.).
Si chiude con Francesco Renga, artista non cattivissimo, ma sicuramente non tra i migliori che l'Italia produce.
Ecco un tipico british rock, perché ormai la musica italiana è una succursale di quella inglese, che, per mascherare questa sua anima, è in minore, ed ha anche una specie di sviluppo melodico.
Il brano si chiama "Cambio direzione", è un brano di... addio ad una donna (novità! opa!).
Il pubblico, ad ogni minima pausa di qualsiasi canzone, non mi riesco a ricordare se l'ha fatto anche mentre Da Vinci interpretava Modugno, lancia degli squittii da topo. Direi che, signore e signori, invece di proibire lo scaricamento, si dovrebbe fare una legge per obbligare la gente a rispettare la musica, nonché le radio a fare degli eventi davvero live, oppure, altrimenti, a limitarsi ad emettere i sicuramente più interessanti cd.
Adesso Francesco Renga sta interpretando una canzone che lo fece vincere ad uno degli ultimi Festival di Sanremo (2005, forse? Il brano si intitola "Angelo"). E' un tipico brano che, per chi non se lo ricorda, è ideale per farsi venire un grandissimo e santissimo magone.
Odio gli applausi a "scena aperta", ossia prima che le canzoni finiscano.
Finalmente questo incubo è finito, Franco Nisi sta salutando i due giovani presentatori, ed ecco i ringraziamenti di rito, nonché i commplimenti a questi pseudo campioni del mondo, che non si sa come ci sono diventati (ovviamente si parla della Nazionale di calcio!).
Beh, l'articolo al fulmicotone è finito con il programma e... a presto.

Musicanti del piccolo borgo: "Ecchite maje"

Carissimi lettori, questa sera aggiorno il mio blog con particolarissimo piacere, recensendo l'ultimo cd del gruppo molisano "Musicanti del piccolo borgo". Per scoprire questo grande gruppo e la sua storia, in internet si può andare su http://www.musicantidelpiccoloborgo.it/ o su www.myspace.com/musicantidelpiccoloborgo. (Qui tra l'altro non si può ascoltare niente da questo nuovo cd).
Il cd si chiama "Ecchite maje" ("Ecco maggio"), ed è prevalentemente dedicato al folk molisano, spesso raccolto dagli stessi "Musicanti" che sono stati protagonisti di numerose campagne di ricerca negli anni '70 e '80.
Il primo brano, non raccolto dai "Musicanti" ma ripreso dalle ricerche effettuate da Carpitella e Cirese in Molise nel '54, è una tarantella in lingua albanese. Questo repertorio non aveva mai fatto parte delle esecuzioni del gruppo. Il brano, come sempre nei "Musicanti" è interpretato fedelissimamente a livello di melodia, ma è arricchito in maniera forte ma rispettosa a livello armonico.
La seconda traccia è una "'Ncincirinella", variante della più nota "Cicerenella" o "Cecerenella", filastrocca su un buffo personaggio diffusa in tutto il centro-sud Italia.
Qui si sentono, forse derivanti dalle esperienze di Silvio Trotta con la flautista Jessica Lombardi, molte influenze celtiche.
Ed eccoci al brano che dà il titolo al cd, "Ecchite maje", un esempio di "cantamaggio" legato al rito tradizionale a Fossalto (Campobasso).
Il brano è molto lento, quasi stanco, ma ci si possono riconoscere degli echi di tarantella.
Se devo confrontare questo esempio molisano con altri umbri o toscani, c'è una maggiore stanchezza, un immalinconimento inspiegabile.
Dopo la prima parte in sol, cantata da Silvio Trotta che finalmente in questo cd canta molto, forse aiutato anche dall'esperienza del Trio Tresca, il brano è basato sull'alternanza di strofe in re, cantate da Marica Spiezia, e strofe in do, cantate da Stefano Tartaglia, flautista e voce controtenorile del gruppo. E' da segnalare la bellissima collaborazione, con la zampogna a paro cromatica, del siciliano Giancarlo Parisi.
Il mio rapporto con Napoli è profondissimo, forse ve ne sarete anche accorti, quindi questa "Fronna e cant' pe' Musicant'" interpretata da Nando Citarella, completamente estemporaneo, mi emoziona. Un brano così dimostra come, se si vuole, ancora oggi si possono comporre brani completamente tradizionali.
Subito dopo, i "musicanti", "rispondono", sempre con accenni a tammurriate campane, non si dimentichi che il gruppo è nato come ensemble che reinterpretava il repertorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare, con una rielaborazione di un canto già reinterpretato dal gruppo in un precedente cd intitolato "Canti e ritmi dell'Appennino". Se la versione in questione era un po' appesantita da pretesi ritmi mediterranei, questa versione, molto più italiana, riesce, finalmente, a rendere giustizia a questa bellissima e semplicissima serenata, intitolata "Figliola che stai 'ncoppa".
Subito dopo, sempre ripresa dalla raccolta di Cirese e Carpitella del '54, arriva "E cto capile" secondo e ultimo canto in lingua albanese, che però questa volta si mischia con il molisano.
Se dovessi descrivere il brano mi verrebbe quasi da dire che è una tarantella addolcita, nel senso che non c'è la tirannia della terzina di tamburello, che anzi, quando entra, si limita ad alternare quasi solo colpi più deboli ad altri più forti.
Il brano è molto triste, perché, con la semplicità disarmante tipica dei contadini, si costata, già allora, il decadimento di una civiltà, quindi ecco che la tarantella si placa e quasi scompare.
Ed eccoci a quello che forse è il brano meno convincente del cd, una "Quadritara", suite composta da una quadriglia molisana ed una tarantella laziale, tutte raccolte dai "Musicanti". La caratteristica che me la fa amare abbastanza poco, è la presenza del basso elettrico, strumento che trovo completamente inutile (già sono scettica sull'introduzione dei bassi acustici nella musica tradizionale italiana, anche se sono più possibilista sulla presenza della chitarra basso, quella usata nel fado portoghese, che gli stessi "Musicanti" hanno usato con buonissimi risultati).
Interessante, in una parte molto limitata nel brano, una terzina di tamburello dove, i colpi al centro vengono dati alternativamente più deboli e più forti, causando un effetto moderno che però, non contrastando con il rigore della terzina, cosa veramente fondamentale nei repertori "a ballo", non disturba.
Arriviamo così a uno dei brani provenienti da Capracotta, paese natale del direttore artistico e anima del gruppo, il virtuoso di strumenti a plettro Silvio Trotta. Il brano, intitolato "Ritorno dalla transumanza", viene direttamente dalle ricerche di Mauro Gioielli, direttore di un altro gruppo di musica popolare molisana chiamato "Il tratturo".
E' una ballata dove la chitarra battente, strumento particolarmente amato dai "Musicanti" fa scoprire una dolcezza segreta, quasi clavicembalistica. Anche qui, quell'irlanda ultimamente tanto frequentata da Trotta, fa dolcemente e piacevolmente capolino.
Subito dopo arriva una filastrocca a ritmo di tarantella, sempre proveniente da Capracotta, intitolata "La figlia meja". Se si conoscono gli Zoè, precisamente l'album "Crita" si può pensare a "Maria Nicola", che d'altronde, come matrice, viene esattamente da quelle zone tra Molise ed Abruzzo. Qui è da notare la strepitosa tecnica tamburellistica di Andrea Piccioni che, dopo aver militato per molto tempo nei "Musicanti", torna a collaborare per impreziosire questa tarantella.
Il cd, però, cosa molto provocatoria adesso che la musica popolare è ridotta a semplice oggetto di sballo, si chiude con un brano popolare a cui Silvio Trotta, con grande sensibilità, ha applicato una poesia vernacolare di Gabriele Mosca, che ricorda la morte di due fratelli durante la seconda guerra mondiale, ammazzati dai tedeschi solo per avere aiutato due inglesi affamati.
Il brano quasi ti culla, e, purtroppo, ti ricorda che questo capolavoro è finito.
Carissimi lettori, io, come sapete, non vi racconto mai i cd che mi piacciono, ve ne parlo giusto per farvi venire la curiosità di acquistarli ed ascoltarli: beh, spero di avercela fatta anche con questo "Ecchite maje".
Buon ascolto e viva la musica popolare che, pur conoscendo altre tradizioni, rimane orgogliosamente se stessa!