mercoledì 13 maggio 2009

Omaggio ad una buona "Stella lucente" (sul primo disco degli Alla Bua).

Carissimi lettori, ancora ispirata da questo soffio di Salento, voglio parlarvi del cd che, insieme ai già recensiti "Sud est" (Aramirè) e "Terra" (Zoè), ha formato più profondamente la mia sensibilità di ascoltatrice, ripropositrice e soprattutto pianista di musica salentina. Voglio confessare che non volevo parlarne, perché, come sempre, pretendo, in maniera forse un po' megalomane, di "portare ciò che non c'è in giro", o ciò che non trovo nelle mie pur frequenti peregrinazioni internaute.
Il cd si chiama "Stella lucente", è stato autoprodotto dal gruppo Alla Bua nel 1999, è forse il loro miglior lavoro.
Chi ha scoperto il gruppo di recente, non so se lo potrà capire, come credo che solo molto difficilmente, chi è stato veramente formato dal disco e dalle sue sonorità, può capire la "nuova musica popolare" che il gruppo produce ora. (Io ad esempio non la comprendo).
Venendo tecnicamente al disco, è una serie di brani tradizionali e d'autore, dove la contemporaneità c'è ma non è prepotente, come sarà ancora nel secondo. Già nel terzo, il bellissimo e già recensito "Limamo", in tutti i sensi c'è una voglia di creare qualcosa di nuovo, anche se appropriandosi di creazioni popolari, riportandole come proprie (illecito!).
Entrando nel vivo della questione "Stella lucente", il disco inizia con "Tamburru", pizzica di Aradeo eseguita voce e tamburello. E' autentica, come spirito, ma manca un particolare fondamentale. La "vera" pizzica di Aradeo, per lo meno per come ci viene data dal libro con doppio cd "Musiche e canti popolari del Salento" (ed. Aramirè), ha un'interessantissima alternanza tra minore e maggiore che, se riportata a standard moderni di canto, è assolutamente arcaica quindi innovativa, perché oggi le pizziche si fanno tutte con due accordi o con giri innaturali (poveri noi!). Comunque questa è una divagazione, perché gli Alla Bua, coerentemente con questo fare del tamburello lo strumento re del loro stile, scelgono di farla "a botta", quindi non c'è armonia dietro la voce, che per eseguire intervalli oggi così innaturali, forse deve avere una qualità superiore rispetto a quella del pur grande Gigi Toma. (Se non vi va di ascoltare contadini rauchi e stonati, ascoltatevi la versione riproposta dai Ghetonìa, che usa il vero giro tradizionale).
Subito dopo, rimanendo sempre a ritmo di pizzica ed aumentando di molto la velocità, arriva "Lu rusciu de lu mare". L'introduzione, per dimostrare che il gruppo non era ancora di discopizzica, anche perché nessuno aveva notato il potenziale "popolar-discotecaro" del genere, è un pezzettino lento, in verità inclassificabile, eseguito da una chitarra classica accordata in re, quindi un tono più un tono più giù dello standard.
Dopo una pausa, è la stessa chitarra ad iniziare in terzina, già a ritmo pieno, e così una voce maschile (scusate l'ignoranza ma nel libretto chi canta non è specificato brano per brano), inizia il canto a partire da "Lu rusciu de lu mare è mutu forte". Gli strumenti mancanti, tamburello ed armonica, entrano dalla strofa successiva: il tamburello fa prima un lavoro di terzina solo con i sonagli, permettendo quindi all'"organetto a mano" di entrare. Da qui inizia una pizzica vorticosa, resa irresistibile dalla più grande armonica salentina, il tricasino Umberto Panico. Forse, e qui lo dico e confesso, quello che non mi convince è la mancanza di alchimia fra la tonalità, minore quindi triste, ed il vortice del ritmo. Le pizziche, d'altronde, nella zona leccese, dove sono sicuramente più forti, sono in "modo" maggiore o "misto" (vedasi l'esempio su Aradeo).
Arriva il primo lento, deludente come quasi sempre sono i tentativi del gruppo di allontanarsi dalla pizzica. E' una rielaborazione di un testo di cui non so dell'esistenza di versioni tradizionali, ma che viene preso per anonimo: "Beddrha ci stai luntanu". E' ormai diventato un classico della musica popolare salentina, ma credo di non sbagliarmi troppo, se dico che questa versione e quella incisa dal Canzoniere grecanico salentino in "Ballati tutti quanti ballati forte", sono le prime riproposte.
Quello che non mi convince per niente è l'innaturalezza, ossia la tendenza a voler fare sempre, anche quando si potrebbero usare strutture tipiche e semplici, qualcosa di "diverso", "moderno", ecc. Oltretutto, l'ho già detto in questo stesso articolo ma non solo, alle voci "tradizionali" o d'impostazione "tradizionale", come "Zimba" o Toma, si dovrebbe far fare solo melodie di quella matrice (hanno sbagliato gli Zoè di "Sangue vivo" a far cantare una parte di "Sale" all'aradeino, e toppano ancora peggio i casaranesi, nel far cantare al loro leader una melodia dall'andamento ancora più lontano dalle sue abitudini e caratteristiche). Oltretutto, non amo né l'arpeggio di chitarra, inclassificabile, né tantomeno la parte di oboe, strumento che suona sguaiato ed inutile. (Evviva i flauti di Pierpaolo Sicuro che se non altro sono suonati con maestria!).
Si arriva ad un brano che, incorrezione grave, mentre è l'insieme di due arie tradizionali, riporta solo il titolo di una (purtroppo gli Alla Bua anche di furfanterie sono maestri!).
Venendo tecnicamente al brano, la sua prima parte è lenta, e ci permette di ascoltare, in quelle che io ritengo le condizioni ottimali, la bella, anche se non perfetta, voce di Maria Vittoria Antonazzo (Mavi). L'aria da lei interpretata è una ninnananna, intitolata spesso "Li marisci". E' un brano un po' enigmatico, come molti popolari, dato che gli analfabeti, anche se privi di cultura in senso "ufficiale", avevano spesso una psicologia più complicata della nostra. Ad un appassionato di musica sudamericana, a livello di testo, potrebbe, superficialmente e forse un po' forzatamente, ricordare "Duerme negrito". La madre prega, non si sa chi, di far venire sonno al bambino, e di farlo durare fino a quando non torna il padre (nel brano sudamericano i ruoli si invertono). Nella stessa traccia, dopo questo brano accompagnato da una chitarra che esegue un rullato su due accordi, arriva una pizzica, preparata da una pausa, ma iniziata vorticosamente ed improvvisamente dall'insuperabile armonica di Panico. Qui, e scusate lo sbilanciamento, il tricasino dà il meglio di sé. Innanzitutto, come ogni virtuoso, l'armonicista gode suonando velocissimamente, addirittura senza fermarsi mai, perché in possesso della tecnica della respirazione circolare (quella utilizzata dai suonatori di diggeridoo australiano). Il testo cantato da Toma con questo ritmo, veramente vorticoso e spettacolare ma credo difficilmente ballabile, è "E nia e nia", filastrocca scanzonata a strofe sciolte. Anche in questo caso, credo, si può parlare di classico della tradizione salentina, e si può dare il merito agli Alla Bua di averlo riproposto fra i primi. (Un'altra versione, meno bella ma ugualmente interessante, è quella degli Aramirè nel cd "Opillopillopì" del 1998, pubblicata con il titolo "Pizzica con flauto").
Subito dopo arriva un inedito, completamente strumentale, anche se introdotto da un proverbio salentino, detto da una voce bianca, che a me non è mai piaciuta (le voci dei bambini non posso sentirle su disco). Il proverbio dice: "Citti, citti, nun discitati la serpe che dorme!". Ci vuole ricordare, signori miei, che a "tarantare" la gente, non c'erano solo i ragni.
Da questo richiamo, si dipana un brano strumentale, in tonalità minore, che prima di arrivare alla pizzica ed acquistare il giro la minore-sol maggiore, è un brano inclassificabile, solo per chitarra. Nella parte a pizzica si trovano l'oboe ed il violino, che in questo cd tra l'altro ancora non aveva fatto la sua comparsa, che dialogano in maniera abbastanza arcaicizzante ma innaturalmente (come piace tanto a troppa gente nel Salento!).
Subito dopo arriva una "Santu Paulu", nella quale, oltre alle strofe canoniche dedicate al santo, invece di fare un percorso serio sul tarantismo, come già aveva fatto Zoè nella prima traccia di "Terra", introdotte dal solito ritornello "beddrhu l'amore e ci lu sape fa", arrivano alcune strofe che hanno come motivo conduttore l'amore nelle sue varie fasi.
Il brano, musicalmente parlando, può essere riassunto come "il violino alla riscossa!". Infatti, pur mancando i mantici ed essendoci due chitarre, la formazione è una delle più vicine alle tipiche orchestrine da musicoterapia.
Si continua con un brano molto bello, a cui, però, l'inesperienza del gruppo non ha forse saputo rendere giustizia. Mi riferisco a "De fore", brano dalla ritmica inclassificabile, come troppi inediti degli Alla Bua. Il testo parla di ciò che succede nella cultura popolare dopo la fine di un lavoro, specialmente di una giornata nei campi. Credo, quindi, che il testo sia tradizionale, perché ci sono delle cose che se non si vivono, secondo me non si riescono a raccontare.
Arriva poi, eseguito con la stessa formazione di "Santu Paulu", il brano "Canzune alla diversa". E' una pizzica ironica, dedicata ad una persona che fa tutto il contrario di ciò che sarebbe logico fare. Il gruppo, per allungarla, ci mette poi delle strofe d'amore, fortunatamente sempre un po' piccanti, quindi la forzatura si sente poco. (So che mi si potrebbe obbiettare che, come nella tradizione non esistevano certe barriere, anche la riproposta ne dovrebbe fare a meno. No!). Il brano, anche in questo caso, è preceduto da una piccola filastrocca, recitata da Gigi Toma dandosi il ritmo con il tamburello, della quale sappiamo a malapena le parole (non si fa! Si deve sempre dire tutto di ogni brano, soprattutto dei tradizionali!).
Andando avanti si trova una tarantella, che il gruppo terzina come se fosse una pizzica, intitolata "Lu scarparu". E' un brano malizioso, a strofe sciolte. Anche qui, oltre ai due tamburelli ed alle chitarre, è onnipresente il violino di un giovane ma già dotato Luca Rizzello (il migliore violinista salentino!).
Gli ultimi due brani sono composizioni del gruppo, per lo meno per quanto riguarda la musica.
La prima, a cui io sono legatissima perché mi ha fatto nascere la curiosità di scoprire gli Alla Bua, si intitola "Fiuru te citratina", ed è una pizzica, con giro quasi tradizionale, che musica una poesia di un poeta contemporaneo vernacolare. E' interpretata con la collaborazione, fondamentale per farmene innamorare, dell'organettista Donatello Pisanello, che si era trovato a fondare gli Alla Bua agli inizi degli anni Novanta, per poi emigrare negli Officina Zoè, anche questi nati per iniziativa sua.
Il brano riprende, con estrema semplicità, il tema, tanto caro ad un grande poeta come Vincenzo Cardarelli, della caducità delle cose umane. Paragona l'amore del poeta per la sua Nina, ad un fiore di pianta cedrina (appunto il "Fiuru te citratina" del titolo), che nonostante le cure, appassisce irrimediabilmente. Quello che non mi va giù di questo brano, non mi ci è andato mai, è la ripetizione ossessiva di "Alla Bua", che mi sa molto di pubblicità al gruppo.
L'ultimo brano, sicuramente il peggiore, è una pizzica con un accordo solo (cosa che a me fa comunque arrabbiare), oltretutto minore. Il testo, si dice, che sia misto tra tradizionale e d'autore, ma la parte nuova, mi pare che non venga cantata. La melodia è interessante, per la scala araba, con il quarto grado aumentato, a cui noi non siamo più abituati. Mi fa abbastanza infuriare, dal punto di vista dell'uso delle percussioni, il fatto che il brano è completamente delegato, per lo meno fino a quando c'è la voce, ad una tammorra muta. Questo, signori miei, anche rispetto a simbologie tradizionali fondamentali nel tarantismo, innesca una disgregazione che non porta a niente se non all'imitazione di quel genio di Bennato e la sua "Taranta power" (non a caso da questo cd, nel suo "Lezioni di tarantella", album mediocre certamente, il napoletano pizzicato ha scelto anche questa traccia!).
Nell'insieme è sicuramente un buon disco, anche se dimostra già forti tutti i peggiori difetti del gruppo, quegli stessi che ora lo hanno portato alla rovina in cui si trova.

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