domenica 8 marzo 2009

Officina zoè: "Live in Japan"

,Voglio ora parlare di un cd che un anno fa, mi dette le stesse sensazioni che ora mi ha dato quello della Mannoia: il "Live in Japan" degli Officina Zoè.Sotto questo nome (da interpretare come Officina della vita interiore), va un gruppo salentino che, ben quindici anni fa, iniziò un lavoro di ricerca e rielaborazione serena della musica popolare del Salento leccese. Nelle varie formazioni che il gruppo ha presentato in giro per il mondo, hanno militato alcuni tra i più grandi musicisti di questa scena: da Ruggero Inchingolo (violino, mandolino e oud nel primo cd del gruppo), a Claudio Miggiano, (violino, chitarra e tres cubano nel secondo), a Dario Muci, (suonatore di bouzouki nel terzo e nel quarto). Merita un ricordo a parte il grande e storico tamburellista del gruppo Pino Zimba, scomparso di recente, che con la sua terzina ed il suo carisma, ha marcato in maniera indelebile la carriera e la personalità del gruppo, impedendo a molta parte del loro pubblico di apprezzarne gli ultimi lavori, che per me sono i migliori. Il "Live in Japan" arriva nella storia dell'Officina Zoè dopo una delle traiettorie più complete e più profondamente votate ad un'effettiva "rifunzionalizzazione" della scena della tradizione salentina. Non vanno dimenticate infatti le fondamentali colonne sonore dei film del regista anglo-salentino Edoardo Winspeare, "Sangue vivo" e "Il miracolo", che hanno permesso al gruppo di situarsi tra i primi e più prolifici "rinnovatori" della tradizione leccese, non solo e non tanto tramite l'utilizzo di sonorità inusitate o esotiche, ma attraverso una pregnante sensibilità moderna che prende avvio e fa perno sulla tradizione millenaria del capo di Leuca. Entrando concretamente all'interno del cd "Live in Japan", esso è un compendio dei primi dieci anni di storia dell'Officina Zoè, eseguito da una formazione dove, ai tre fondatori del gruppo, si affiancano giovani suonatori, la cui diversa sensibilità, pur se arriva alle orecchie di un ascoltatore attento, non fa che arricchire e personalizzare sempre più lo stile del gruppo che, non volendo competere con gli altri sul terreno della contaminazione per forza, si è voluto rendere inconfondibile tramite una ricerca profonda sui vincoli tra presente e passato, e sulle possibilità che i due elementi hanno di sconfinare l'uno nell'altro.Il cd, sunto di due dei tre concerti tenuti dall'Officina Zoè in Giappone tra l'8 e il 10 giugno 2007, ci presenta un'istantanea di un'"Officina" diversa da quella che siamo abituati a vedere in Italia, più vicina ad un certo "addolcimento" (legato concretamente al canto e alle tecniche di esecuzione del tamburello), delle parti più telluriche e forse aspre della tradizione salentina. Questa evenienza, però, permette a noi italiani di scoprire una profondità e una ritualità nascosta, che non è poi forse lontana da quella che si riscontra ne "La terra del rimorso" di Ernesto de Martino, fatte salve ovviamente le differenze di contesto. Il pubblico, forse inebriato da questo senso etereo e rituale, non viene colto in queste scene di pseudoisterismo vergognoso che in Italia accompagna un qualsiasi raduno di "pizzicati" (insopportabile denominazione degli appassionati di pizzica: un vero pizzicato soffriva, noi la sentiamo provando un piacere estetico, ricordatevelo!).Il cd si apre con una piccola (e misteriosa per chi non sa la lingua del Paese del sol levante come me) presentazione del gruppo, che cede il passo ad una belllissima e leggera Santu Paulu I (per chi conosce l'album "Terra" si tratta del Santu Paulu II, a cui è stata tagliata la parte iniziale a cappella). Nei concerti italiani il gruppo, dopo aver fatto entrare tutta la compagine strumentale in crescendo, esegue completamente il brano. Qui ne troviamo un'irripetibile versione tronca, che arriva fino al primo ritornello. Molto interessante è l'assolo di organetto che fa da ponte tra strofa e strofa, con le sue note intervallate per seconde, intervallo non temperato, a cui le nostre orecchie di ascoltatori di musica classica o leggera sono molto poco abituate. Dopo si arriva subito ad un brano a cui io sono particolarmente legata, perché si può dire che la passione viscerale che ho per l'Officina Zoè sia nata da lì: "La carrozza". E' un impegnativo brano a cappella che, sotto una struttura molto semplice, nasconde difficoltà ed enigmaticità d'interpretazione notevoli. E' un brano d'amore che, riportando alcune delle simbologie del tarantismo (il pizzico sulla pianta della mano dell'ultima strofa), introduce benissimo la "Pizzica tarantata" strumentale che, spogliata delle nacchere e del mandolino e vestita con una formazione molto vicina alla tradizione dell'orchestrina del musicoterapeuta Luigi Stifani, acquista veramente un'aria da "brano di cura". Dopodiché L'Officina ci fa scoprire una "segreta" anima "romanesca" con una bellissima musica di Cinzia Marzo (cantante storica del gruppo), cucita su un bellissimo e adattissimo testo del poeta ottocentesco salentino Giuseppe de Dominicis, intitolata "Ulia Bessu", "Vorrei essere". Il brano, interpretato senza una minima sfumatura arrabbiata, è uno dei più bei brani di corteggiamento mai scritti dove, il corteggiatore, amareggiato per non poter trasformarsi in niente che sia degno di rappresentare la grandezza del suo amore per la donna da lui amata, finisce con un molto salentino e quasi ironico "sempre pensandu a tie Linda Mia beddacore e cirvieddu m'aggiu cunsumatu" (ovvero: "sempre pensando a te, Linda mia bella,cuore e cervello mi son consumato").Si arriva poi a due brani scritti completamente dal gruppo. Il primo, "Don pizzica", è prevalentemente strumentale, con una linea di canto che, pur uscendo profondamente dalla struttura dell'assolo di organetto che ne è alla base, riesce ad armonizzarvisi benissimo. Il testo, come tutti quelli scritti da Cinzia Marzo, è un po' enigmatico: semplificando, si potrebbe dire che è un invito a riscoprire una vita secondo natura. Subito dopo arriva "Ijentu", pizzica tra le più tradizionali e travolgenti scritte negli ultimi anni (è del 2000 ed è tratta da "Sangue vivo"). Dopo un attacco a cappella, che dal vivo vede la copartecipazione della voce di Lamberto Probo, storico tamburellista del gruppo, si parte a pizzica, non proprio freneticamente, ma forse per questo viene raggiunta una catarsi maggiore. Il testo, scritto ancora una volta da Cinzia Marzo come la musica, è enigmatico e formato da strofe sciolte. E' un invito a riscoprire una certa ritualità, che forse questa eccessiva spettacolarizzazione e semplificazione della pizzica sta un po' facendo perdere per strada. Musicalmente, questo brano con gli anni ha forse un po' perso lo smalto: paradossalmente, l'aggiunta del cupacupa che dovrebbe servire a rafforzare il potere evocativo del brano, lo porta verso un'esagerata ruralità che non gli si addice più di tanto, nonostante quanto detto sopra, proprio perché nel lavoro del gruppo il presente sconfina nel passato e viceversa, quindi questo strumento causa quasi una "sopraffazione" del passato nei confronti del presente. Oltretutto, la ritualità a cui questo pezzo è legato, quasi bacchica, si dovrebbe esprimere semplicemente tramite i tamburelli, l'armonica e le castagnette (che qui sono state soppresse). Va però fatta menzione dell'impagabile tecnica armonicistica di Luigi Panico (attuale armonicista e chitarrista dell'Officina), che fa veramente ricordare le inimitabili corse del grande Umberto Panico nella versione di "Sangue vivo" (l'originale).Si torna poi ad un momento lento e raccolto, con un capolavoro dell'arte popolare salentina, il brano "T'amai", riproposto a partire dalla versione raccolta da Ernesto de Martino. Il gruppo, pur rimanendo fedele sia come armonia che come testo al documento di partenza, ne lima quegli stilemi che ne rendono abbastanza difficile l'ascolto, creando così una perfetta armonia tra musica e testo che, sebbene non propria della tradizione, secondo me sta tra i doveri di un buon ripropositore.A questo punto Zoè ci propone una scoppiettante versione della "Kaly nifta", brano griko che, a tempo di Sirtaki, torna quasi alle sue radici più segrete. Quando si esegue questo pezzo, di solito nel Salento si tende a pensare più al coinvolgimento del pubblico che al testo che si sta cantando. Va detto che l'Officina riesce sempre a tenere ben equilibrate le due cose.Si passa poi ad un altro brano tratto da "Sangue vivo": "Sale". Anche qui salta subito agli occhi la dolcezza con cui il brano viene suonato, pur in una versione accorciata, che non tiene conto delle strofe che venivano cantate da Pino Zimba. L'arrangiamento rimane, forse, un po' pretenzioso e pesante, anche per la presenza di un unico accordo durante il brano, cosa che rafforza la già di per sé pregnante ossessività del ritmo. Va detto però che questa versione è infinitamente più piacevole, soprattutto per l'assenza del tres cubano che, con il suo suono tirato, dà un senso quasi di sguaiataggine, che è stato sicuramente diminuito da un ben più italiano e adatto mandolino. Va anche segnalata, nella prima parte del brano, una strofa in più, sempre impregnata di quella saggezza popolare che sta alla base di tutto il pezzo. Senza soluzione di continuità arriva poi "Lu rusciu de lu mare", brano che Zoè ha sempre eseguito in minore, prima in tre ora in due parti. Il brano, nell'album "Terra", partiva con una parte lenta, per poi continuare con una lentissima e finire con un travolgente ritmo mediterraneo. Qui, ma anche nei concerti italiani, non vi è traccia di tellurico, il brano anzi è quasi mistico, come se tendesse ad un'altra dimensione. Qui la formazione è basata sulle corde ed i plettri, suoni che caratterizzavano fortemente i primi Zoè, quelli di "Terra". Questo ritorno a certe sonorità, rende questo brano un po' anomalo all'interno di un qualsiasi concerto del gruppo, anche se forse lo fa rimanere più impresso negli ascoltatori. Di seguito, questo tendere ad un'altra dimensione, si materializza con quello che io considero il capolavoro assoluto del gruppo: "Menevò". Il brano è stato composto per la colonna sonora del film "Il miracolo", ed è un brano in bilico tra vita e morte (non si sa se la protagonista, che ha intenzione di morire, poi lo faccia o no). La versione dal vivo, quasi sempre, purtroppo è talmente veloce che, i simbolismi fondamentali per capire le lezioni di vita che dà il brano, nonostante il dialetto spesso non comprensibile, sono nulli. La canzone, essendo a tempo di pizzica lenta, andrebbe sempre eseguita così, perché come già accennato sopra, Zoè (e Cinzia Marzo, autrice del brano in particolare), sono maestri di quell'alchimia tra i vari elementi della canzone, che può renderla unica e perfetta. Gli ultimi due brani del cd sono due perle ripescate dal primo repertorio dell'Officina. Il primo è un canto in griko, dal titolo "Nia, nia, nia", nel quale una madre si augura che i suoi figli abbiano un destino migliore di quello che le toccò. L'interpretazione in concerto, per quanto riguarda il canto, ha acquistato una dolcezza che le fa sicuramente giustizia. Al contrario, con l'aggiunta dell'organetto in sostituzione del violino, musicalmente acquista una specie di "allegria" che non le si confà. A chiudere il cd c'è una scoppiettante "Santu Paulu II" (equivalente al "Santu Paulu I" di "Terra"), che non è altro che una sapientissima divulgazione del percorso concreto della tarantata nel processo di malattia e guarigione. Anche questo brano, come quasi tutti quelli del cd, acquista con questa formazione sfoltita, in nome di quel misto di urbanità e ruralità, presente e passato, così tipico del lavoro del gruppo. Va infatti notato che, nonostante le numerose somiglianze che in questo articolo si sono trovate con la ritualità tradizionale, è sicuramente un disco caldamente sconsigliato a tutti coloro che nella riproposta cercano un'imitazione pedissequa e stereotipa dei giri e delle tecniche di Stifani o di altri informatori.
Officina zoè: Live in Japan (Polosud 2007)

2 commenti:

  1. Ciao..sapresti dirmi chi è il chitarrista che suona Don Pizzica a Tokio?
    Grazie mille!!

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  2. @giadagatto
    Il chitarrista si chiama Luigi Panico, fa parte dell'Officina da ormai cinque anni (scusa se non ti ho risposto prima!).

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