domenica 27 dicembre 2009

Commento alla puntata del 27/12/09 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, finalmente, come avevo auspicato, si tratta un autore più moderno all'interno di "canzonenapoletana@rai.it".
Si parla, giustamente, di Michele Galdieri, autore di canzoni famosissime come "Munasterio 'e Santa Chiara".
Michele Galdieri, oltre che un grande autore di canzoni, fu anche ottimo nello scrivere numerosissime riviste musicali. La sua produzione conta, oltre alla già ricordata produzione napoletana, una copiosa e famosa produzione italiana che comprende classici come "Ma l'amore no", "Mattinata fiorentina" o "Quel motivetto".
Ecco qua il primo brano di Galdieri che si ascolta, una rumba dedicata ad una "Sorrentina", interpretata dalla voce di un grande cantante di jazz, quindi anche di musica sudamericana, il torinese Ernesto Bonino. Noi oggi non lo possiamo concepire, ma alcune canzoni in lingua italiana, scritte magari su stilemi tipicamente napoletani, debbono essere accorpate alla produzione napoletana. Tra queste, ad esempio, oltre a quelle di Galdieri, mi piace citare il bellissimo "Acquerello napoletano", interpretato tra gli altri da Claudio Villa e Tullio Pane.
Un altro esempio di questo repertorio, è questa tarantella, interpretata dal potente tenore toscano Carlo Buti, intitolata "Canta ancora napoletana", inno alla vitalità delle popolane napoletane, le quali, secondo Galdieri, dovrebbero riprendere subito a cantare perché la natura era rimasta incontaminata anche dopo la guerra.
Questo brano, lo si sarà già capito, contraria la filosofia di "Munasterio 'e Santa Chiara".
Questa "Munasterio 'e Santa Chiara", viene eseguita, in maniera molto raffinata ma forse un po' pesante, da Vittorio De Sica, che ha sempre riconosciuto nella scuola napoletana di teatro popolare, la sua vera radice.
Io, invece, se non si vogliono riempire le proprie orecchie di orchestre altisonanti, vi consiglio di ricorrere alla versione di Roberto Murolo nella sua "Napoletana: antologia cronologica della canzone partenopea", edita originariamente dalla Durium.
Ora stiamo ascoltando un brano dalla struttura teatral-tragica, intitolato "'E perle d' 'a Madonna". E' la storia di un padre che viene a conoscienza del fatto che suo figlio è colpevole del furto delle perle della Madonna della Pietà, quindi lo condanna ma chkiede al magistrato di condannarlo avendo pietà data la recente guerra che ha tolto ai figli napoletani il cuore dal petto.
Ed eccoci ad un valzerino, molto più simile ad un brano degli anni '20, di quelli che scriveva il padre del poeta di cui ci stiamo occupando. Il brano si intitola "Dummeneca a Pusilleco". Si racconta, con allegria, ma con lentezza e romanticismo, delle coppie di innamorati che si recavano a Posillipo. Ovviamente, il poeta è il solo ad essere in una situazione diversa, perché la sua innamorata gli sta palesando l'insofferenza che prova nei suoi confronti. L'interprete è un tenore potente ma aggraziato, simile a Claudio Villa ma più impregnato di tragedia napoletana, il grande Antonio basurto, che esploderà qualche anno dopo, con il successo festivaliero, risalente alla prima edizione del Festival di Napoli, "'E cummarelle".
Ed eccoci ad uno dei classici della produzione di Michele Galdieri, quella "Serenatella a 'na cumpagna 'e scola". Il brano, musicato da Giuseppe Bonavolontà, padre del grande Mario Riva, reso immortale da "Il musichiere", è interpretato con grazia e senza teatralità, da un grandissimo Dino Giacca. La canzone è una delle più tenere nel repertorio di rimpianto della gioventù.
Bellissime, secondo me, oltre a questa versione di Giacca, sono le versioni di Murolo e Bruno Venturini, nelle loro rispettive antologie napoletane.
Non si deve pensare che i grandi successi dialettali abbiano fatto chiudere i ponti con l'italiano, che Galdieri sentiva particolarmente forti.
Nel 1948 Galdieri scrive questa "Fantasia sorrentina", dove si piange, con nostalgia ma senza patetismo, una Sorrento che già non c'era più. L'interpretazione di Claudio Villa, che come si sa era un patito della cultura napoletana, che d'altronde non poteva mancare nel repertorio di qualsiasi interprete che volesse puntare al rispetto, è perfetta, addirittura con un interessantissimo intervallo di quarta aumentata verso la fine.
I brani, nonostante la loro età spesso più giovane rispetto a quelli che di solito si ascoltano in questi cicli, non si trovavano poi in condizioni così buone, ma la storia è questa.
Spero che vi piaccia questo ciclo, e alla prossima puntata!

domenica 20 dicembre 2009

Commento alla puntata del 20/12/2009 di "Canzonenapoletana@rai.it

Carissimi lettori, ecco il commento all'ultima puntata su Rocco Galdieri di "canzonenapoletana@rai.it".
Si inizia con "Menta cedra", sfizioso brano che Galdieri scrive nel 1913 su un uomo che ha due amori, uno in campagna ed uno in città, e non si decide su quale far diventare il proprio vero amore. Alla fine, come potrebbe essere altrimenti, decide di stare sei mesi da una parte e sei mesi dall'altra. Il brano, come sempre, è stato ascoltato in una versione d'epoca interpretata da Pietro Mazzone, ma io voglio consigliarvi di ascoltare quella di Gianni La Magna, ottimo interprete di musica classica e popolare napoletana.
Si continua, finalmente non con una versione d'epoca, con un altro brano sempre del 1913 intitolato "Vocche desiderose". La cantante è Maria Longo e, almeno a me, non sembra napoletana, piuttosto del nord. Il brano, in concreto, ha un ritmo strano, inclassificabile, su un amore dove è solo il cantante a dare baci sufficienti al proprio innamorato che non ricambia. L'interpretazione è un po' alla Nilla Pizzi, ma è comunque bella.
Fortunatamente, dico io, ci stiamo disabituando alle versioni d'epoca, ed abbiamo avuto invece il piacere di ascoltare Vittorio De Sica, interprete ottimo di canzoni napoletane nonostante il suo essere ciociaro, che interpreta "Quanno uno è guaglione", brano dove Galdieri quasi si pente di essersi dedicato all'arte e alla letteratura.
Ma eccoci tornati alle incisioni d'epoca, ed eccoci al 1916, anno di questa "Canta surdato", uno dei brani dedicati ai soldati napoletani che venivano sempre dipinti come canterini e romantici.
Il brano, per fortuna, è abbastanza ascoltabile, quindi posso dirvi che è una marcia, ma non ha la solennità militaresca di "Surdate" di Cinquegrana, anzi è piuttosto leggera. La cantante è Gina Santelia, ottimo soprano dell'epoca.
Ed eccoci a Gennaro Pasquariello, uno dei cantanti che più ha interpretato il repertorio di Rocco Galdieri, da cui stiamo ascoltando questa commoventissima "Rundinella", scritta dal poeta nel 1918. L'interpretazione di Pasquariello, forse, è troppo teatrale e solenne, anche un po' troppo di "giacca" e troppo poco da serenata, mentre il testo riporterebbe più a quest'ultimo mondo.
Il brano è il canto di tristezza di un innamorato che viene lasciato, probabilmente per il suo miglior amico. La trama, come si vede, è abbastanza banale, ma c'è vera poesia. Per quanto riguarda le versioni moderne di questo brano, meravigliose sono quelle di Antonio Siano nel cd "core napulitano", prodotto dalla Acheri music nel 2002, e di Gerardo Pinto nel cd "Sciuscià".
Il penultimo brano della puntata è "Femmena amata", scritto da Galdieri nel 1919 ed interpretato negli anni '50 da Gino Latilla che, nonostante il suo essere baresee, è stato uno dei più notevoli interpreti di canzone classica napoletana. E' un brano d'amore, di cui, purtroppo, non vi posso dire niente perché nonostante che non fosse un'incisione d'epoca, era in bruttissime condizioni.
Ed eccoci all'ultimo brano, una bellissima canzone intitolata "Friscura", inno all'amore ed al fresco della mattina, che permette all'innamorato di aspettare con più speranza. L'interprete è, cosiccome era stato per la prima canzone della prima puntata del ciclo, il grande Dino Giacca, uno dei tanti dimenticati della canzone napoletana.
Spero che vi sia piaciuto questo ciclo, e mi auguro che il prossimo autore sia più recente, per poter anche commentare il suo stile letterario, oltre ad approfondire meglio le personalità musicali dei musicisti che abbiano alternativamente musicato i suoi versi.

domenica 13 dicembre 2009

Commento alla puntata del 13/12/2009 di "canzonenapoletana@rai.it"

Carissimi lettori, ecco qui il commento alla terza puntata del ciclo di "canzonenapoletana@rai.it" dedicato a Rocco Galdieri.
Si inizia con "'E figliole" interpretata da Elvira Donnarumma.
Siamo davanti ad un tipico pezzo in 2/4, raffinato comunque da queste pause così colte, caratteristiche come pochi particolari di questa "canzone classica storica" napoletana.
Purtroppo, devo già iniziare a dire che non capisco per niente il testo, d'altronde non va scordato che spesso per incidere dischi, dato l'elevato costo delle matrici, se ne utilizzavano anche di già usate, quindi la qualità ne risente.
Ed eccoci a "'Na vota sola", sempre in 2/4, che stiamo ascoltando nella versione di Giuseppe Godono. Da quello che mi pare di capire, dovrebbe essere un inno al primo amore, presentato come l'unico effettivo, il solo a cui si voglia effettivamente bene.
Il1912 è l'anno in cui, purtroppo, Giovanni Giolitti fu preso da voglie conquistatrici, nonostante che non fosse ancora sbiadito il ricordo della terribile sconfitta di Adua del 1887. Dato che la canzone napoletana, per quanto ne abbia dubitato certa accademia era il ritratto della vita e dei sentimenti di una città e non un "paradiso artificiale", canta i soldati che si battono. Nina de Charny, una delle tante sciantose dal nome francesizzato, ha interpretato 'O surdato tene vint'anne".
Ed ora stiamo ascoltando una delle tante rarità assolute presenti nell'insostituibile archivio rai dedicato alla canzone napoletana. Il brano, scritto da Galdieri nel 1912, è una macchietta che viene interpretata da Gigi Pisano, che poi, a partire dagli anni '20-'30 e fino ai cinquanta inoltrati, sarà l'autore di classici napoletani come "'Na sera 'e maggio" o "Agata".
Questo brano, che sviluppa un argomento costante della macchietta, i rapporti di coppia incentrati su un'assoluta autonomia nonostante il matrimonio, si intitola "Quando è così".
Se la macchietta era un genere importante e tipicamente napoletano anche se influenzato dalle suggestioni del contemporaneo cinema muto, non sono da dimenticare le canzoni che sono impregnate di influenze operistiche. Una, sicuramente è questa "Aria fresca", scritta nel 1913 ed interpretata da Iole Baroni, una cantante lirica che, con molta umiltà, pur mostrando la sua impostazione, è riuscita a trovare un canto napoletano inconfondibile e tipico.
La trasmissione si chiude con "Mammà non vuole", brano scritto nel 1913 da Galdieri ed interpretato, ancora una volta da Elvira Donnarumma.
E' un'innamorata che cerca di convincere il proprio amante dell'impossibilità del loro amore.
Musicalmente è un tipico brano in 2/4, ma non so dirvi di più.
Spero che vi sia piaciuto anche questo contributo napoletano, io mi sto divertendo un mondo, anche se le mie orecchie stanno soffrendo da cani!

domenica 6 dicembre 2009

Commento alla puntata del 6 dicembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco il commento della seconda puntata dedicata a Rocco Galdieri.
Si inizia con "Sora mia", quella che secondo molti è la più celebre canzone di Rocco Galdieri. Stiamo ascoltando una versione d'epoca, frusciatissima quindi, interpretata da Pietro Mazzone, uno dei "posteggiatori" più famosi di inizio secolo. Non vi preoccupate, che non c'è bisogno di andare così indietro per conoscere questo brano. Si può ricorrere ad esempio, alla "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea" di Roberto Murolo.
Si continua con un brano, in condizioni se possibile ancora peggiori del precedente, intitolato "L'amore ca dic'i'", interpretato da Elvira Donnarumma, bella voce di soprano che, però non può essere apprezzata nella sua pienezza in una registrazione in condizioni simili.
Sempre nel 1910, Galdieri scrive questa "Tu si nata", che viene interpretata da Alfredo Capaldo. E' una delle tante habaneras che costellano la storia della canzone napoletana. Il disco è meno frusciato, ma non riesco, comunque a capire il testo. Ciò non toglie che dia gusto sentire questi brani che, in molti casi, non sono più stati riproposti.
Ed eccoci ad un giovanissimo Gennaro Pasquariello, che ci canta uno dei tanti brani dimenticati della canzone napoletana, questa "'A femmena", scritta da Rocco Galdieri nel 1911. E', credo, la storia di un uomo che per amore aveva lasciato tutto, ma che, a sua volta, viene lasciato.
Si prosegue con una tra le mie composizioni di Galdieri preferite, una bellissima "Bonasera ammore". L'interprete è Mario Massa, un buono tenore che, però, forse recita troppo e, secondo me, in questa canzone ci vuole più tenerezza che teatro.
Insuperabili, secondo me, sono le versioni di Sergio Bruni, voce e pianoforte, e Gianni Quintiliani, orchestrata e tratta dal cd "'A pusteggia".
Ed ancora, in questa puntata, non avevamo sentito un inno alla bellissima città di Napoli. Il brano, intitolato "I' songo 'e Napule", è stato scritto nel 1911, ed è interpretato da Diego Giannini. E' una tarantella, di quelle dove la strofa è in minore e il ritornello è in maggiore. E' molto sfiziosa ma, come sempre, non si capisce il testo.
E si chiude con una tarantella intitolata "Papà". E' una specie di "macchietta", dove un figlio dice di volersi sposare, nonostante che lui sia povero e disoccupato e lei sia più povera in canna di lui. Non si sanno precisamente le reazioni del "babbo", ma paiono abbastanza allarmate. L'interprete è stato Raimondo De Angelis, ottimo tenore da "macchietta".
Questi cicli fanno toccare con mano la standardizzazione a cui è arrivato anche questo repertorio, di cui si sente in continuazione un'infima parte. Ai cantanti napoletani dico: preparatevi e ricercate di più, per far conoscere questa miniera di gioielli insuperabili.
gCarissimi lettori, ecco il commento della seconda puntata dedicata a Rocco Galdieri.
Si inizia con "Sora mia", quella che secondo molti è la più celebre canzone di Rocco Galdieri. Stiamo ascoltando una versione d'epoca, frusciatissima quindi, interpretata da Pietro Mazzone, uno dei "posteggiatori" più famosi di inizio secolo. Non vi preoccupate, che non c'è bisogno di andare così indietro per conoscere questo brano. Si può ricorrere ad esempio, alla "Napoletana. Antologia cronologica della canzone partenopea" di Roberto Murolo.
Si continua con un brano, in condizioni se possibile ancora peggiori del precedente, intitolato "L'amore ca dic'i'", interpretato da Elvira Donnarumma, bella voce di soprano che, però non può essere apprezzata nella sua pienezza in una registrazione in condizioni simili.
Sempre nel 1910, Galdieri scrive questa "Tu si nata", che viene interpretata da Alfredo Capaldo. E' una delle tante habaneras che costellano la storia della canzone napoletana. Il disco è meno frusciato, ma non riesco, comunque a capire il testo. Ciò non toglie che dia gusto sentire questi brani che, in molti casi, non sono più stati riproposti.
Ed eccoci ad un giovanissimo Gennaro Pasquariello, che ci canta uno dei tanti brani dimenticati della canzone napoletana, questa "'A femmena", scritta da Rocco Galdieri nel 1911. E', credo, la storia di un uomo che per amore aveva lasciato tutto, ma che, a sua volta, viene lasciato.
Si prosegue con una tra le mie composizioni di Galdieri preferite, una bellissima "Bonasera ammore". L'interprete è Mario Massa, un buono tenore che, però, forse recita troppo e, secondo me, in questa canzone ci vuole più tenerezza che teatro.
Insuperabili, secondo me, sono le versioni di Sergio Bruni, voce e pianoforte, e Gianni Quintiliani, orchestrata e tratta dal cd "'A pusteggia".
Ed ancora, in questa puntata, non avevamo sentito un inno alla bellissima città di Napoli. Il brano, intitolato "I' songo 'e Napule", è stato scritto nel 1911, ed è interpretato da Diego Giannini. E' una tarantella, di quelle dove la strofa è in minore e il ritornello è in maggiore. E' molto sfiziosa ma, come sempre, non si capisce il testo.
E si chiude con una tarantella intitolata "Papà". E' una specie di "macchietta", dove un figlio dice di volersi sposare, nonostante che lui sia povero e disoccupato e lei sia più povera in canna di lui. Non si sanno precisamente le reazioni del "babbo", ma paiono abbastanza allarmate. L'interprete è stato Raimondo De Angelis, ottimo tenore da "macchietta".
Questi cicli fanno toccare con mano la standardizzazione a cui è arrivato anche questo repertorio, di cui si sente in continuazione un'infima parte. Ai cantanti napoletani dico: preparatevi e ricercate di più, per far conoscere questa miniera di gioielli insuperabili.

venerdì 4 dicembre 2009

Il mio Natale.

vCarissimi lettori, siamo arrivati nel mese del Natale, e già nelle radio iniziano a furoreggiare quei pezzi insopportabili che secondo alcuni caratterizzano "a quadra natalícia", per dirla con i portoghesi.
Io, ormai da diversi anni, da quando non ascolto musica leggera se non per la musica d'autore, che comunque mi piace di spessore, preparo, verso questo periodo, liste mentali che, però, in questa occasione voglio condividere con voi, per farvi passare un Natale che, oltre ad essere buono, può diventare "etno-cantautorale".
Le cose da consigliarvi o ricordarvi sono molte, partiamo da quelle più facili e comuni.
Notevolissima è "Natale" di Francesco de Gregori, il quale, sempre sullo stesso tema ha inciso il brano "Natale di seconda mano". Purtroppo la mia memoria non mi permette di darvi il titolo dell'lp che conteneva la prima, ma la seconda si trova in "Amore nel pomeriggio", ultimo albbum veramente bello del cantautore romano, risalente al 2000.
Rarissima, bellissima e sconosciuta, è "Buon Natale", scritta da Renato Zero, e contenuta nel cd "Tregua", pubblicato in doppio vinile nel 1980.
Dando uno sguardo alle discografie straniere, particolarmente alla musica portoghese, è sicuramente da segnalare "O natal dos simples", classico della musica lusitana, scritto ed interpretato dal professore, cantautore e ricercatore popolare José Afonso.
In Spagna, lo faccio più per questioni di cuore che per altro, mi va di ricordare José Luis Perales, con la sua semplice ma tenerissima canzone "Navidad".
Sicuramente di un altro spessore, sempre in lingua spagnola ma proveniente dall'America Latina e più precisamente da Cuba, è questa "Canción de Navidad", scritta e cantata dal cantautore, ottimo chitarrista e pianista, Silvio Rodríguez, registrata nell'album "Rodríguez".
In francese, siamo già su un campo più metaforico, ricordiamo "Le père noël et la petite fille", dove, molto poeticamente e dolcemente, si parla di uno stupro (con le atmosfere che Gino Paoli ha usato nella bellissima "Il pettirosso" per parlare di pedofilia, non compreso dalla Mussolini).
Se andiamo sulla tradizione italiana d'origine agropastorale, c'è solo l'imbarazzo della scelta.
Meravigliosa è, ad esempio, una "Strina" leccese cantata dagli Ucci per Brizio Montinaro, che l'ha pubblicata in uno dei suoi volumi di "Musiche e canti popolari del Salento", pubblicati originariamente per l'etichetta Albatros, ristampati poi dagli Aramirè, che hanno pubblicato, oltre ai primi due, il terzo, che era completamente inedito. Tra le versioni di "riproposta" da me conosciute, è da ricordare quella dei Ghetonia, in "Grecìa salentina", e quella degli Arakne mediterranea, con testo alternativo rispetto a quello degli Ucci, cantata prevalentemente in lingua grika ("Gramma", 2006).
Bellissima è anche un'altra strina, questa volta calabrese, riportata alla luce da Danilo Montenegro nel cd "Amari è peniari".
Per quanto riguarda la Sicilia, è notevole una tarantella natalizia riportata alla luce da Mimmo Mollica, il cui titolo a me manca da sempre, contenuta in "Vinni cu vinni".
Tra le monografie natalizie, ne voglio segnalare due: l'lp "Gesù, Giuseppe e Maria" di Otello Profazio, risalente al 1973 in edizione Fonit Cetra ed ora ripubblicato dalla Elca sound, e "Concerto di Natale", inciso dalla grandissima Rosa Balistreri con i Dioscuri, ottimo ensemble etnico siciliano.
Anche i poeti più colti, Salvatore di Giacomo in primis, grande poeta dialettale ed erudito napoletano tra Otto e Novecento, non hanno resistito alla tentazione di affrontare questi temi. E' sua una bellissima "novena", intitolata "'A nuvena", dove si narra di uno zampognaro di fuori Napoli che, nel bel mezzo di una "suonata", riceve una lettera da sua moglie che aveva lasciato quasi vicina al parto. Da ascoltare sono le versioni di Sergio Bruni (in "Omaggio a Di Giacomo") ed Egisto Sarnelli.
Per finire questo percorso vi consiglio una delle canzoni che hanno cullato la mia infanzia. E' un "villancico", canto natalizio spagnolo, scritto da Gloria Fuertes, poetessa contemporanea, e musicato da Paco Ibáñez, colui che da ormai cinquant'anni si occupa di far fare un percorso nella letteratura spagnola ed hispanoamericana, tramite la messa in musica dei suoi migliori scrittori. Il brano in questione si trova sia in "Paco Ibáñez 3" (da studio), che su "Paco Ibáñez en el Olympia" (dal vivo). Per trovare i dischi di questo cantante, purtroppo, chi non voglia rischiare la vita tramite Internet, dovrà rivolgersi a qualcuno in Francia.
Questo articolo è stato solo un pretesto per augurare a tutti un buon Natale ed un felice anno nuovo, nei quali io vi continuerò a tenere compagnia con i miei scritti. Se ascolterete anche solo uno dei brani che cito, farete anche voi un po' parte della mia vita.

domenica 29 novembre 2009

Commento alla puntata del 29 novembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco qui il commento alla prima puntata del nuovo ciclo di "Canzonenapoletana@rai.it", quello dedicato a Rocco Galdieri. Questo poeta è uno dei tanti scrittori che lavorarono tra Otto e Novecento.
Si inizia con un brano scritto nel 1905, intitolato "'O vommero", che ascoltiamo dalla voce del potente ma aggraziato tenore Dino Giacca. E' uno dei tanti inni che Napoli fa alla sua geografia, perché, cosiccome Lisbona con il suo bellissimo Fado, anche questa nostra è una città che ama cantarsi e raccontarsi, in maniera forse pittoresca e disimpegnata ma leggerissima e innegabilmente poetica.
Di due anni successiva è questa bellissima e sfiziosa "'O core 'e Caterina", che si ascolta dalla voce di Diego Giannini, altro tenore potente ma aggraziato. E' una canzone con cuui un innamorato, apparentemente premuroso con la propria amata, in verità decide di farle tutti vestiti con caratteristiche che le ricordino i danni che costei ha fatto alla sua anima.
Ed ecco "Villanova", un'altra canzone dedicata ad una località, questa volta della zona di Posillipo. E' cantata da Gennaro Pasquariello, di cui si è già parlato in occasione dell'ascolto di "Margarita de Parete" nella prima puntata del precedente ciclo del programma della Rai. La canzone è sfiziosissima, anche qui si parla, oltre che della località, d'amore, e si dice, come sempre, che questo sia particolarmente speciale per avere esperienze in questo campo.
Ed ecco qui Gennaro Pasquariello, ancora una volta, con un brano scritto nel 1908, intitolato "Tarantella 'e strata nova". E' una tipica tarantella alla "classica" napoletana, un po' cantata ed un po' recitata, e con alternanze di accordi minori e maggiori tra strofe e ritornelli.
Ed ecco una voce a me particolarmente cara,quella del tenore Salvatore Sebastiano, in arte Franco Ricci, che canta "Scanusciuta", brano risalente al 1909. Purtroppo, nonostante che il brano risalga a "soli cinquant'anni fa", (sono parole di Paquito del Bosco), si sente malissimo quindi non posso dirvi niente se non che è un valzer lento ed aperto, come sempre accordi maggiori e minori, con interessante uso cameristico dell'orchestra che, come sappiamo, all'epoca si usava ancora per incidere anche musica leggera, e ancora oggi, noto con piacere, si usa nella canzone "classica" napoletana.
Ha un secolo esatto la canzone che segue, la "Tarantella desperata", interpretata, in un frusciantissimo disco d'epoca, da Diego Giannini. E' una tarantella che, nonostante la solita apertura canora, data dal recitato, e quella armonica, data dall'alternanza di accordi maggiori e minori, è sempre forte e battente.
Del 1910 è l'ultimo brano di questa puntata, questo "Ammore traditore" interpretato da Alfredo Capaldo. Non riesco a codificare il ritmo, riesco purtroppo solo a dirvi che è molto fuori dal comune. Il testo, anche questo è un mistero, ma dai pezzi così antichi che volete?
Comunque è un gran piacere scoprire questo "Leopardi napoletano", definizione di Rocco Galdieri data da un contemporaneo, poeta timido, limpido e segreto.
Spero che vi piaccia quanto a me, non vi preoccupate che si continuerà a commentare!

sabato 28 novembre 2009

Fiorella Mannoia "Ho imparato a sognare" (r

Carissimi lettori, oggi riesco finalmente a recensire l'ultimo cd di Fiorella Mannoia, intitolato "Ho imparato a sognare", dove la cantante romana ha ripreso alcune canzoni che lei ha amato molto ma non sono state scritte pensando a lei.
Il brano che apre il cd è una canzone di Cesare Cremonini, dalla melodia straordinariamente larga, intitolata "Le tue parole fanno male". La versione di Fiorella Mannoia sicuramente dignifica un brano tra i migliori del cantautore bolognese.
Ed ecco il brano che dà il titolo al cd, quella "Ho imparato a sognare" dei Negrita. Contrariamente al brano precedente, questa è una canzone che non è passata mai o quasi mai in radio nella versione del gruppo che l'ha creata, quindi non posso fare paragoni. Se il brano precedente aveva acquistato una aureola quasi jazzistica, qui Fiorella Mannoia pare immedesimarsi molto nello stile del gruppo rock interprete originale del brano.
Subito dopo arriva "Cercami" di Renato Zero che, da sorcina quale sono, mi sta emozionando molto. La canzone ha perso un po' l'imponenza tipica di Zero, per acquistare un'intimità segreta ma meravigliosa.
L'interpretazione guizza tra tocchi jazzistici e latini, perché il ritmo si altera tramite delle battute diverse di batteria.
Subito dopo si arriva a "La paura non esiste", canzone di Tiziano Ferro che qui acquista un'intimità profonda, quella che Fiorella Mannoia ha ormai innegabilmente acquisito, in un percorso che, ininterrotto, va da "Canzoni per parlare" (1988) a quest'ultimo disco. Interessantissimi sono i piccoli tratti recitati, che caratterizzano anche, in forma più sporca, la versione del classico che segue, "E penso a te" di Mogol e Battisti.
Credo che è la prima volta che Fiorella Mannoia paga il debito che qualsiasi artista italiano che faccia musica leggera ha con i due autori sopracitati. Il brano, però, perde un po' della sua spontaneità, più un mito che altro, per acquistare visibilmente un'imponenza che nella versione originale è solo nascosta. La scelta della cantante di circondarsi solo di strumenti acustici, poi, dà un calore del tutto particolare a questa canzone, che torna, dopo numerosissime versioni semplicemente pop, ad un'orchestrazione più consona a lei.
Subito dopo si arriva a "Mimosa", una canzone di Nicolò Fabi, cantautore romano con cui Fiorella Mannoia aveva collaborato nella canzone "Offeso", artista caratterizzato da una certa tristezza antica, che nella voce della cantante dai "capelli rossi" arriva ad esplodere dolcemente.
Ed ecco che Fiorella Mannoia si appropria di una delle canzoni degli anni Sessanta, che avevano rappresentato il soffio rivoluzionario di quella specie di generazione ispirata dalla ben più seria ed autentica "beat generation" americana. Il brano è "E' la pioggia che va", lanciato dai Rokes. Il brano, come tutto questo cd, è portato verso sonorità intime, e diventa quasi cantautorale, profondamente diverso dall'originale, ma stupendo.
Fiorella Mannoia, poi, fa un omaggio ad Ivano Fossati, reinterpretando una delle sue canzoni meno conosciute, intitolata "C'è tempo". E' una ballata di quelle intime e filosofiche di un Fossati già maturo, che già vuole che i sentimenti siano razionalizzati. L'interpretazione della Mannoia è bellissima, dolce ma sempre con la minaccia di incrinarsi, perché la voce della cantante non ha più quella purezza che le si associa.
Ed ecco come si ritorna a Mogol e Battisti, con questa fresca versione, per niente "uggiosa", di "Una giornata uggiosa". Qui, finalmente, dico io, esplodono queste atmosfere brasiliane che stanno accompagnando invariabilmente le ultime produzioni della cantante. Addirittura, giusto per non smentirci, troviamo un assolo di flauto ottavino, chiamato "piccolo" nella tradizione latino-americana.
Il cd si chiude con due brani estranei al percorso tra la musica altrui che caratterizza l'album. Il primo è un rifacimento di "Caffè nero bollente", primo grande successo della Mannoia, che lo aveva lanciato ad un Festival di Sanremo. Il rifacimento, forse, non suona molto convincente, perché la forza del testo, che in fondo parla di emancipazione da un amore, è tradotta meglio dall'energia magari un po' standard della prima Mannoia, e da arrangiamenti più semplicemente pop.
Il cd si chiude con il duetto che Fiorella Mannoia ha inciso insieme a Noemi, partecipante della penultima edizione di X factor". Il brano è da brivido come tutto il disco.
Avrete capito conoscendomi che, purtroppo, quando le cose mi colpiscono particolarmente, non le riesco tanto a raccontare, ma questo è un cd da ascoltare e non da raccontare, quindi buon ascolto.

mercoledì 25 novembre 2009

Luigi Tenco: "Gli inediti

Carissimi lettori, ecco qui uno degli articoli più emozionanti che io possa pensare di scrivere, perché parlerò di un cd, pubblicato dall'"Ala bianca" nella collana "I dischi del Club Tenco". E' un doppio cofanetto con brani inediti di Tenco e con versioni altrui, altrettanto inedite, di canzoni del grande piemontese (genovese adottivo).
Il primo cd, quello dedicato più che altro alle interpretazioni dello stesso cantautore, si apre con "Padroni della terra", traduzione molto particolare de "Le deserteur" di Boris Vian. L'arrangiamento, scarno in verità, è molto più country piuttosto che jazz, forse poco compatibile con lo spirito di Vian, ma vicino a brani di Tenco come "E se ci diranno".
La voce di Tenco, qui, è bellissima anche se la registrazione, di qualità scarsa, non ne permette un godimento pieno.
Subito dopo si ha una nuova perla del repertorio di Tenco, uno dei brani mai pubblicati dal cantautore, la romanticissima "Se tieni una stella", interpretata da Massimo Ranieri. Il brano, eseguito live al Teatro Regio di Parma in occasione di una serata per il quarantennale della morte di Tenco, viene cantato magari con voce un po' incrinata, quindi viene inevitabilmente addolcito, ma tenco vi respira innegabilmente dentro.
Un altro brano mai pubblicato da Tenco, che in verità non ha fatto in tempo neanche a dargli un testo, è questa "No, no no.", che qui viene eseguita magistralmente da Stefano bollani, uno dei più grandi interpreti della scena jazzistica italiana.
Il brano è in tonalità minore e, quantomeno nell'arrangiamento di Bollani, assume uno stranissimo ritmo sudamericano.
Subito dopo troviamo Morgan che, sempre in questa serata al Teatro Regio di Parma, interpreta una versione in inglese di "Vola colomba", intitolata "Darling remember". L'interpretazione è jazzistica, ma, come sempre in Tenco, rispetta la matrice melodica italiana.
Ed eccoci ad un'interessantissima versione di "Quando", brano che nella versione ufficiale è caratterizzato da arrangiamenti classici un po' pesanti. Qui, la brevissima versione presente, è con un bellissimo gruppo jazz, a ricordarci la mai sopita passione di Tenco per questo genere di musica, che d'altronde aveva impregnato di sé tutta quella generazione che poi sarebbe stata chiamata "Scuola genovese".
Un'altra canzone in cui jazz e classico si fondono in maniera mirabilissima è "Il tempo veloce passò", incisa qui già con un'orchestra piena, e non si sa perché mai pubblicata.
Ed ecco "Come mi vedono gli altri", un interessante swing, con la solita apertura melodica quasi specifica di Tenco. Ed ecco che il cantante ci delizia con un breve assolo di sax contralto, dove si può sentire la "sensualità assoluta" caratteristica del suo stile sassofonistico.
Purtroppo, per ora, io non posso fare confronti tra questa ed altre eventuali versioni.
Ed eccoci a "Se stasera sono qui", qui riscoperta voce e piano, ossia nella sua essenza, perché, non va dimenticato, la Ricordi, quando decise di pubblicare l'lp antologico che porta lo stesso titolo di questo brano, all'epoca inedito ma poi assurto alla categoria di classico dell'opera di Tenco, ci mise un'opprimente, anche se bella, orchestrazione. Questa versione, solo voce e pianoforte, permette di fare (o rifare) la scoperta della tecnica semplice e perfetta di Tenco sullo strumento.
Subito dopo c'è un brevissimo provino "a cappella", di cui, purtroppo, non so come parlarvi.
Subito dopo, arrivano due tracce riguardanti "Ragazzo mio". La prima è una conversazione tra Tenco ed un tecnico di sala, e la seconda è una versione alternativa della canzone, incisa in una tonalità più bassa ed accompagnata con strumenti diversi. Da notare è la presenza di due strofe che, come se ce ne fosse bisogno, rendono ancora più forte questa ballata, forse tra le più profetiche del cantautore.
E, direttamente dagli archivi Rai, arriva questa "Non sono io", eseguita da Tenco accompagnandosi al pianoforte, ma senza usare il pedale per allungare le note. Questa caratteristica, che io noto particolarmente nella mia qualità di pianista, non permette all'accompagnamento di dialogare con l'apertura melodica, veramente rara, della frase del canto.
Subito dopo, siamo davanti ad un altro brano tronco, intitolato "Ah l'amore l'amore". caratterizzato da un uso particolarissimo di strumenti e tecniche esecutive tipiche di certa musica centroamericana, in quegli anni usate in tutta la musica leggera.
Subito dopo, tornando ai brani voce e pianoforte, abbiamo una meravigliosa versione di "Vedrai vedrai", la cui interpretazione, se possibile, ha una passionalità ancora più forte di quella comunemente nota, già fortissima.
Nel ritornello, l'assenza della chitarra jazz, permette (o obbliga) il pianoforte ad eseguire un rigorosissimo terzinato, che porta il brano ad avere un'anima tra il sudamericano (bolero cubano), il jazz (il canto di Tenco) e la melodicità italiana (la stessa struttura melodica del brano).
Subito dopo arriva una versione francese di "Un giorno dopo l'altro", che d'altronde era stata composta per la colonna sonora di Maigret. Il testo francese è fortemente "francesizzato", vi si citano Parigi, Momartre e la "bohème".
Subito dopo, come un confronto istantaneo, arriva la versione inglese dello stesso brano, intitolata "One day is like another", che mantiene un maggior legame con l'originale, anche se è un po' più sdolcinata e meno interiore. La versione inglese è integrale.
Subito dopo arriva un brano in lingua spagnola, la traduzione di "Ognuno è libero", ben fatta e ben pronunciata. Qui non ci sono forzature, anzi gran parte del testo è veramente tradotto alla lettera.
Subito dopo arriva "Io sono uno", con testo diverso e in una versione beat, caratterizzata da un uso interessante del la minore settima, inserito in un comunissimo giro di "tonica", "dominante" e "sottodominante".
Ed eccoci a "Guarda se io", altro brano eseguito voce e pianoforte e, almeno qui, caratterizzato da una gran quantità d'accordi, che dànno un'apertura grandissima alla melodia che, come sempre, è apertissima.
Ed eccoci al Luigi Tenco jazzista, che sentiamo prodursi in una ballad lenta, a cui lui, con la già ricordata sensualità del tocco sassofonistico, riesce a dare quella che per me è l'anima irrinunciabile di qualsiasi brano jazz non veloce.
La melodia è dominata ed arricchita con un bellissimo assolo, che dimostra quanto Tenco fosse entrato nella filosofia di questa musica, senza compromessi né mediazioni.
Al sassofono di Tenco attualmente sta rispondendo la tromba, con un assolo meno ricco, forse, più "cantabile", almeno per me meno interessante.
Ed ecco che torna Tenco con le sue stravaganze melodiche, che però sono, come già osservato, completamente compatibili con lo spirito di questa musica.
Ed ecco "The continental", un noto swing che, però, forse, nell'interpretazione del Settetto moderno genovese, viene un po' intiepidito, ma, d'altronde, tutto il jazz italiano, quando veramente cerca di far vedere la propria identità, diminuisce di intensità certe caratteristiche e ne allarga altre nella musica statunitense.
Anche qui, come nel brano precedente, i musicisti si aprono in assoli melodicamente aperti.
Il cd, poi, continua con un'intervista concessa da Tenco a Sandro Ciotti, che ancora non aveva la voce rauca che spesso gli si associava nei suoi ultimi periodi, quando era già una gloria del giornalismo sportivo. La voce del giornalista, ancora, era una limpida voce da basso profondo, che interroga Tenco i nmaniera rispettosa ma ironica, e fa sentire una stima del tutto particolare. Tenco risponde in maniera un po' ombrosa, insomma in maniera completamente compatibile con il suo carattere.
Così si conclude il primo cd di questa antologia, che continua con una serie di reinterpretazioni, altrettanto inedite di brani di Tenco.
Il cd comincia con una versione di "Lontano lontano", brano con cui ritualmente si apre ogni rassegna del Club tenco che si rispetti, interpretata da Vinicio Capossela, che, ormai, non sa che cantare come un tarantolato del ventunesimo secolo, figura di cui, sinceramente, anche da appassionata di pizzica, voglio dire di poter far a meno. Il brano è interpretato con stonature da jazzista, con rabbia inutile, insomma bocciato.
Subito dopo, fortunatamente, arriva una buona, non perfetta, interpretazione di "Ho capito che ti amo", da parte di Roberto Vecchioni. Ciò che non rende giustizia alla bellissima voce di Vecchioni, secondo me, è il bruttissimo accompagnamento elettronico, che fa diventare questo brano una traccia quasi tecno. Abbastanza discutibili sono poi le défaillances da parte di Vecchioni sul testo, un po' di professionalità in più non farebbe male anche in queste occasioni. Il finale è addirittura affidato a Tenco, adeguatamente filtrato e peggiorato nella più deteriore moderna tradizione.
Arriviamo poi, finalmente, ad una buona interpretazione da parte di uno dei più interessanti cantautori moderni, ossia "La vita sociale" cantata da Simone Cristicchi. Innanzitutto va riconosciuto a questo cantante il coraggio di interpretare il brano in acustico, accompagnandosi solo con un pianoforte ed un violino, tra l'altro non stonando mai, poi va detto che lo spirito cantautorale è assolutamente rispettato.
Ecco un gruppo romano, gli Ardecore, che interpretano "Quasi sera". Il brano, anche in questo caso, è rispettato nello spirito e ben cantato. Non viene meno, anche se non conosco l'originale di Tenco, né la tipica ricchezza melodica del cantautore, né il tipico terzinato anni Sessanta. Il sassofono ha delle venature forse troppo free jazz, ma non sono sgradevoli. Il canto è spesso dolce, giusto con qualche venatura arrabbiata verso la fine.
Ed ecco uno dei tanti cantanti stranieri che scelse l'Italia come sua patria sin dagli anni Sessanta, il leader dei Rokes Shel Shapiro. Il cantante e chitarrista inglese, interpreta, con spirito da grande folk singer americano, la ballata "Cara maestra". Molto gradevole, personale ma rispettosissima, oltretutto interpretata semplicemente voce e chitarra.
Arriva poi Alice che interpreta "Se sapessi come fai". Credo, chi mi conosce lo sa, che ogni epoca vada rispettata e, quando ti vengono affidate creazioni altrui, oltre a farle personali, la nostra personalità si deve un po' "nascondere" dietro quella dell'interprete originale, ma qui, in tutto questo disco, mi pare che si sia voluto fare delle canzoni di Tenco, qualcosa di "altro" da loro stesse, impigliati in quello stereotipo che, dato che i testi sono attuali, possono essere riportate semplicemente e stupidamente verso la nostra epoca. Il brano è troppo tecno, elettronico e, all'inizio addirittura dark.
Ecco una buona interpretazione, per lo meno per quello che intendo io. Troviamo, infatti, Alessandro Aber, grande attore che si diletta spesso a cantare, che canta, con la sua voce "sporca" e cavernosa, "Mi sono innamorato di te". Magari c'è un po' troppo teatro, che si accorda poco, per lo meno secondo me, con Tenco, però è buona e ve la consiglio.
Ecco gli Skiantos, gruppo punk bolognese, che interpretano "Un giorno di questi ti sposerò". Il brano di Tenco lo conosco vagamente, quindi, purtroppo, un paragone non è possibile. Dico, però, che non mi piace per le ragioni dette per altri brani di questo secondo disco, di un'antologia che trovo interessante giusto per le rarità del cantautore che ci porta a conoscenza.
Ecco una versione di "Angela", da parte dei Têtes de bois. Anche questa non mi piace, anche perché questa canzone è insostituibile per caratteristiche armoniche che sono state tutte annullate. Intanto è un valzer, ritmo che su di me esercita un fascino speciale, che permette di teatralizzare la sofferenza d'amore del protagonista, che in questo tappeto di pop sofisticato, paradossalmente si banalizza tantissimo.
Interessantissima è, invece, pur nella sua stranezza, la versione swing, un po' alla Django Reinard, de "La mia valle" cantata da Giorgio Conte.
Anche qui non posso fare il paragone con il brano di Tenco perché, mea culpa, non lo conosco. Comunque, potrebbe ben essere un brano scritto dai fratelli Conte, avventuroso e jazzistico, finalmente qualcosa di bello e rispettoso con una delle componenti fondamentali della personalità tenchiana.
Eccoci ad una delle voci più emozionanti e belle della musica popolare italiana, la sarda Elena Ledda, che si produce in una toccantissima interpretazione, acustica ed in lingua sarda, de "La ballata del marinaio" che diventa "Sa canzone de su marineri". Io, purtroppo non so quanto l'interpretazione sia fedele, ma sicuramente rende molto, è molto dolce e tellurica contemporaneamente.
Ed ecco Giovanni Bloc, che fa una versione jazzistica, molto convincente devo dire, della "Ballata della moda", satira sulla pregnanza, spesso negata, di questo fenomeno deplorevole.
Ed ecco Gerardo Balestrieri, che interpreta "Se potessi amore mio", una delle tante, troppe, canzoni di Tenco che mancano alla mia conoscienza. Questa versione è caratterizzata da un caldo ritmo latino, portato da delle avvolgentissime spazzole, coadiuvate da una chitarra classica ben suonata, ma anche da un fastidioso strumento, la cui accordatura non è temperata.
Ed ecco Ricky Gianco, uno dei pochi interpreti genuini del rock and roll all'italiana, che interpreta un brano di Tenco, che lui aveva già interpretato, intitolato "Vorrei sapere perché". L'interpretazione, breve ma integrale, è piena di quell'ingenuità, così tipica della prima generazione di rockers italiani, dal primissimo Adriano Celentano, a Giorgio Gaber, passando per lo stesso Ricky gianco o Ghigo.
Successivamente arriva Ada Montellanico, una delle più rinomate jazziste italiane, che interpreta "Averti fra le braccia". Purtroppo, questa versione, invece di approfittare della matrice jazz ballad innegabile in questo brano, porta la canzone verso il jazz moderno, non facendo sentire per niente l'apertura e ricchezza melodica di Tenco, che consisteva in aver fatto dialogare questi due generi che, non solo non devono lottare, ma possono stare insieme benissimo.
Il canto è troppo sofisticato, ci sono troppi "scat", vocalizzi all'americana.
Arriva poi "Giornali femminili", interpretata da Paolo Simoni con venature bossa nova, che la rendono interessante. E' un brano che, già quarant'anni fa, satireggiava i cosiddetti "giornali femminili" e il ritratto che fanno della donna e delle sue attitudini ed interessi. Secondo me, comunque, in nome dei sicuramente giusti ideali di non discriminazione, noi stiamo perdendo la nostra identità, e questo, quando è esagerato, è un male.
Il cd, comunque, si chiude con una toccantissima versione di "Lontano lontano", questa volta filologicamente corretta, interpretata da Eugenio Finardi, semplicemente chitarra e voce.
Questo cd, comunque, ve lo consiglio caldamente, per riscoprire Tenco, ma solo se ne siete cultori: dubito che chi non lo conosce lo potrebbe capire.

domenica 22 novembre 2009

Commento alla puntata del 22 novembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco a voi il commento all'ultima puntata del ciclo su Pasquale Cinquegrana di "Canzonenapoletana@rai.it".
Si inizia l'ultimo periodo della produzione di Cinquegrana, con questa tarantelluccia sfiziosa, musicata da Vincenzo di Chiara, fabbro e mandolinista autodidatta, intitolata "Rosa rusella".
La rosa in questione, ovviamente, è una donna, a cui, con queste parole sicuramente rispettose e galanti, l'uomo dichiara il proprio amore. Il cantante è Ferdinando Rubino, tenore "leggero" di notevole grazia. Non so da chi altri sia stato inciso, infatti è un pezzo che mancava alle mie conoscienze.
Arriviamo al 1911, anno a cui risale questa "'A voce 'e maggio", altrimenti conosciuta come "'A testa aruta".
La musica è di Rodolfo Falvo, noto per aver composto brani come "Guapparia". Anche questo brano, interpretato qui da un duetto, è una tarantella "intiepidita" da numerose pause e cambi di tempo. La musica è più solenne e meno leggera rispetto a quella della precedente canzone.
Il testo, purtroppo, non è codificabile da questa versione che, al contrario del brano di Ferdinando Rubino, si sente molto male.
Si continua poi con "Vicariello apecondruso", risalente al 1912. E' un brano in tempo binario, la cui musica è di Oscar Cattedra. Vi si trova una caratteristica comune anche a molta musica popolare contadina antica, l'alternanza tra accordi maggiori e minori. L'interpretazione è di Diego Giannini, e anche qui si sente male il testo.
Ma eccoci tornati verso Eduardo di Capua, autore della musica di questa "Duorme Marì", brano a tempo di Habanera, sempre risalente al 1912. E' un brano dove, da quello che mi pare di capire nonostante l'audio terribile, nel ritornello si chiede all'innamorata di non svegliarsi, ma nella seconda strofa si dice esattamente il contrario.
E' del 1913 "Rusinella 'e Margellina", sempre in tempo binario. Il cantante, un tenore, ha una voce abbastanza meno impostata rispetto alle abituali timbriche dei cantanti dell'epoca.
Del testo si capisce pochissimo, perché, come sempre, sono incisioni d'epoca, messe, tra l'altro, con dischi d'epoca.
Ed eccoci ad una "barcarola" composta nel 1914, che, secondo Pietro Gargano e la sua "Enciclopedia illustrata della canzone napoletana", è l'ultimo successo scritto da Cinquegrana. Si chiama "Voca e canta" ed è cantata da Giuseppe Godono, tenore di potenza veramente notevole. Il brano, in verità, si divide in due parti, ma non riesco a descrivervelo bene.
Adesso si sta ascoltando la cosa più inascoltabile mai sentita da me: "'E femmene belle", brano scritto nel 1917 da Cinquegrana e musicato da Eduardo Migliaccio, "Farfariello", pioniere della canzone italo-americana. La melodia si intuisce bellissima, e si capisce anche che si alternano accordi maggiori e minori, ma, vi giuro, non si può dire di più.
Spero che vi siano piaciuti questi commenti a Cinquegrana, non vi preoccupate che, cambiando autore, si continuerà ancora!

domenica 15 novembre 2009

Commento alla puntata del 15 novembre 2009 di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco qui il commento alla terza puntata del ciclo su Pasquale Cinquegrana di "Canzonenapoletana@rai.it".
La puntata precedente si era conclusa con Nicola Maldacea, anche questa ci comincia. Il brano è una macchietta, già strutturata ormai nella forma che le conosciamo, ossia come ritratto di un "tipo", in questo caso "'O tranviere".
La musica di questa macchietta è di un certo Faini, che ha trovato una di quelle melodie da cinema muto, che stanno bene a questo genere di canzone.
Anche qui, come sempre, c'è comunque un certo riferimento alla politica, in particolare al socialismo.
Anche questa puntata, e forse non poteva essere altrimenti, continua con un brano del repertorio da "piazza", cioè appannaggio dei posteggiatori, del poeta napoletano. Il brano, "Fenesta 'ntussecosa", è interpretato, in incisione d'epoca, da un notevole gruppo chiamato I figli di Ciro.
E' una canzone caratterizzata da quel ritmo di habanera che si sposa benissimo con il napoletano dolce, di quando ancora non lo si mutilava per fargli imitare modelli stranieri. Di questo brano, secondo me, notevolissima è la versione di Mario Abbate.
Ora stiamo ascoltando una versione storica, anche se non risalente all'epoca di composizione del brano, di "Napule bello", brano con cui Cinquegrana e Di Gregorio riuscirono a battere in un concorso la più blasonata e famosa "'O sole mio". Il brano è molto sfizioso, ma la versione che stiamo ascoltando, forse caratterizzata da note troppo lunghe e da troppe pause, fa perdere molta allegria. Gli interpreti, Elvira Donnarumma e Roberto Ciaramella, sono tra i più importanti cantanti degli anni '20 e '30 napoletani. Da ascoltare, secondo me, sono le versioni di Franco Ricci, anni '50, Bruno Venturini, anni 2000, e Antonello Rondi, che non so in che epoca abbia inciso il brano.
Subito dopo ascoltiamo, dalla voce tenorile e potente di Diego Giannini, una canzone a me sconosciuta scritta dalla coppia Cinquegrana-Di Capua, intitolata "Luntananza amara". E' una marcetta che, credo, parli d'amore. E' incisa con una chitarra ed un mandolino, che dànno una grande atmosfera, ma non vi posso dire di più perché l'incisione è disastratissima.
Ed eccoci ad una macchietta risalente agli inizi del '900, intitolata "'A cura 'e mammà".
L'incisione, degli anni '50, probabilmente, è praticamente completamente recitata, e queste, come ho già detto, sono le migliori interpretazioni dei brani comici.
Notevole, sempre in duetto, come questa di Agostino Salvetti e Tecla Scarano, quella di Mario Pasqualillo e Pina Lamara. Tra le interpretazioni singole, anche se sono di minor impatto, notevoli sono quelle di Roberto Murolo in "Come rideva Napoli (1967) e Bruno Venturini ("Antologia della canzone napoletana", 2004).
Chi crede che il cinema americano si sia inventato qualcosa con il concetto di sequel, si potrebbe ricredere ascoltando questa macchietta intitolata "'O figlio d'o tenore", seguito di una macchietta di Ferdinando Russo, unico autore che competeva con Cinquegrana in questo genere, intitolata "'O tenore 'e grazia".
Il brano è una sfiziosissima presa in giro dei tenori di forza, ma è molto specifico, usa molto gergo lirico, quindi è difficilissimo da capire.
Ed eccoci all'ultima canzone della puntata, la macchietta "'A figlia rosa", musicata da Giuseppe Giannelli ed interpretata da un duetto. E' una sfiziosissima tarantella, come spesso sono le macchiette, ma si incrina spesso, tramite l'uso delle pause, che obbliga ad una "cultizzazione" del ritmo.
Spero che vi sia piaciuto il commento a questa puntata, e spero che qualcuno voglia riscoprire la macchietta napoletana.

venerdì 13 novembre 2009

Gianni Morandi "Canzoni da non perdere"

Carissimi lettori, oggi scrivo due articoli di cui sono particolarmente felice, dirò di più, del primo cd che recensirò mi sento un po' responsabile, perché è un disco in cui Gianni Morandi, grandissimo interprete della canzone italiana, fa un omaggio a canzoni che lui ha amato molto e che stanno molto bene nella sua voce.
Il cd, che è uscito questa mattina, è nato, anche, da una mia provocazione al cantante di Monghidoro, in occasione di un nostro incontro qui a Perugia, prima del primo dei due concerti acustici tenuti con il suo teatro tenda.
Venendo al disco, intitolato "Canzoni da non perdere", è una serie di rifacimenti, molto rispettosi, di brani negli anni Settanta, Ottanta e Novanta. La prima canzone è "Inevitabile follia", forse la più bella canzone di Raf, tratta dal suo primo repertorio. La versione di Morandi è talmente perfetta che, se non si sa di chi è, si potrebbe pensare che il brano sia un inedito.
Subito dopo si omaggia la canzone vincitrice del Sanremo 1982, quella "Storie di tutti i giorni", cantata da Riccardo Fogli. L'arrangiamento elettrico ma senza elettronica, rispetto all'originale, tipicamente infarcito invece di strumenti "sintetici", dà maggior forza a questo brano che, se paragonato a brani classici di Morandi, potrebbe ricordare canzoni come "Solo all'ultimo piano" o comunque quei ritratti quotidiani che il cantante ora ama molto.
Ed eccoci ad "A te", grandissimo successo di Jovanotti, tratto dal cd "Safari". L'interpretazione di Morandi, permette al brano di acquistare quella melodicità "naturale" che, per quanto il toscano si impegni a cantare, non avrà mai perché per cantare veramente melodico bisogna avere una buona voce.
Ed eccoci a "L'isola che non c'è" di Edoardo Bennato, tratta da un lp che, nonostante i suoi quasi trent'anni di vita, continua ad esercitare una grandiosa attrazione, anche per i miti che esso traduce modernamente ("Sono solo canzonette", dedicato alla favola di Peter Pan).
Se vogliamo trovare un collegamento morandiano, si potrebbe anche pensarla come una gemella lontana di "C'era un ragazzo", per l'anelito, per nulla mascherato anche se non specifico, all'assenza di guerre dal mondo.
Se devo descrivere questa versione, suona un po' strana, ci si deve fare l'orecchio ma è bella, anche perché questo è un brano a cui io sono profondamente legata, come a tutto l'lp di Bennato. L'arrangiamento rafforza l'anima country, che è ancora rappresentata da un violino, che sostituisce l'armonica, strumento abbastanza estraneo a Morandi, se non fosse per gli assoli di "Sono un treno".
E si ritorna alle melodie altrui che potrebbero essere state scritte benissimo per Morandi. Si parla, in questo caso, di uno dei gioielli assoluti dell'ultima produzione di Antonello Venditti, la struggentissima "Ogni Volta". Il brano, bellissimo, ha rappresentato per il cantautore romano, l'ultimo brano melodicamente tradizionale, prima della fase sperimentale plasmata dal cd "Goodbye n9ecento", che a sua volta è stato già superato.
Arriviamo al brano che ci ha fatto sapere, qualche settimana fa, che questo cd ci sarebbe arrivato tra le mani. E' un'ottima interpretazione di "Tu sei l'unica donna per me", brano romantico di Alan Sorrenti, cantautore napoletano dalla voce falsettata, che forse non riusciva, e non riesce, a rendere giustizia a questa melodia che, seppur un po' ristretta, gode di ricchezza. L'interpretazione di Morandi, con le sue leggere incrinature, così tipiche di certo canto del monghidorese, riesce a tradurre perfettamente la felicità che, nonostante la paura che si ha della fine dell'idillio amoroso, riempie il brano.
Una mensione va fatta agli arrangiamenti, che non contemplano quasi strumenti elettronici, lasciando spazio alle sonorità acustiche ed elettriche, che sono sicuramente più gradevoli, ma sono spesso ritenute banali.
Ed ecco l'omaggio che Morandi fa ad un artista che esordì qualche anno dopo di lui, il cantante di Poggio Bustone Lucio Battisti.
Il brano che Morandi sceglie di ricantare è famoso, ma forse non come "Pensieri e parole" od "Emozioni". E' un interessante pop-valzer intitolato "Perché no". Anche qui si trova questa sensazione di felicità profonda, data da questi programmi strani di cui il testo di Mogol parla in maniera così rilassata. Da notare è l'uso del falsetto, completamente ricalcato d'altronde dalla versione originale, poco tipico in Morandi, ma comunque presente nella sua personalità canora.
Ed ecco "Fiore di Maggio", uno dei brani a cui sono più legata del repertorio di Fabio Concato, perché l'album originale mi fu regalato, in cassetta, quando facevo la scuola materna (ebbene sì, io già ascoltavo musica!).
La tenerezza che Concato riserva alla figlia, per la cui nascita fu scritta questa canzone, Morandi la "sporca" un po', senza però mai incrinarsi esageratamente, conservando sempre questa intimità favolistica così bella.
E come poteva mancare un omaggio a Lucio Dalla, compagno di così tante avventure, non ultima quel bellissimo "Dalla-Morandi" che ha cullato, insieme a tante altre cose, la mia musicalissima infanzia?
L'omaggio viene fatto attraverso uno degli ultimi gioielli della produzione del bolognese, una versione, forse poco rispettosa perché infarcita di suoni elettronici, ma comunque bella, di quel capolavoro di tenerezza che è "Tu non mi basti mai".
Forse, anche per la provenienza da zone vicine di autore e cantante, questo è uno dei brani più riusciti del cd.
Compagno d'avventura di Lucio Dalla è stato anche Francesco de Gregori, a cui Morandi fa un bellissimo omaggio, con l'interpretazione di "Rimmel", una delle canzoni più famose del cantautore romano, che qui, dopo essere stata per circa trentaquattro anni (tanti ne sono passati dalla pubblicazione dell'lp omonimo di De Gregori che la conteneva!) di dominio assoluto della chitarra, nella prima parte del brano, si trova una predominanza del pianoforte. L'anima più rock, impressa dalla presenza della chitarra elettrica distorta, non distoglie assolutamente questo brano dal suo essere una ballata romantica e country, genere che è sempre stato nelle corde del De Gregori.
Ed eccoci ad un altro "classico della tenerezza", scritto questa volta da Claudio Baglioni, altro grande esponente della scuola romana dei cantautori.
Il brano, "Avrai", ha una melodia molto aperta che permette, sia a Baglioni che a Morandi, che d'altronde hanno due delle voci più estese attualmente ascoltabili nel panorama della musica leggera italiana, di esibirsi in maniera piena.
Ed eccoci ad uno dei classici indiscussi degli anni '80, "Luna", scritta dal cantautore toscano Gianni Togni.
Morandi, come si è già detto per altri brani, si è limitato solo ad attualizzare l'arrangiamento strumentale, perché, e questo gli va riconosciuto, è cosciente che si tratta di canzoni che non gli appartengono del tutto, ed oggi, basta vedere altri dischi di cover per capirlo, chi ha questa coscienza fa parte di una sparutissima élite! (Trovo brutta, ad esempio, la cover di "Meraviglioso" di Domenico Modugno eseguita dai Negramaro, con l'armonia stravolta ogni tanto ed il ritmo completamente diverso).
Gli ultimi due brani sono inediti, o meglio uno faceva già parte del precedente cd di Gianni Morandi, il già qui recensito "Grazie a tutti: il concerto".
Il primo dei due inediti è "Credo nell'amore", cantato in coppia con Alessandra Amoroso, ragazza leccese uscita da "Amici", che possiede una delle più belle e limpide voci uscite ultimamente.
Spero di avervi incuriosito e, permettetemelo, voglio dire un grazie particolare e personale a Gianni Morandi per aver fatto questo cd che, come ho detto, è anche un po' mio.

domenica 8 novembre 2009

Commento alla puntata dell'8 novembre di Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, dopo tre settimane di digiuno, ecco il commento alla seconda puntata del ciclo dedicato a Pasquale Cinquegrana di "Canzonenapoletana@rai.it".
La puntata, così come la precedente, inizia con una bellissima interpretazione di Tommaso Maione (scusate l'errore di grafia nel commento precedente). Il testo del brano è pieno di quella "tristezza tiepida" così tipica del vero napoletano, tradotta perfettamente dalla musica che è piena di riferimenti barocchi e popolari, così tipici del primo Di Capua, musicista che insieme a Cinquegrana scrisse questo sconosciuto gioiellino intitolato "'A luntananza".
Ed eccoci alla prima "macchietta" di questa puntata, che d'altronde le sarà quasi monograficamente dedicata. Il brano, però, non è assolutamente compatibile con l'idea che oggi si ha della "macchietta". Il brano, infatti, è fortemente politico e, addirittura, sulle tavole del café-chantant si fanno i nomi di Giolitti, all'epoca ministro dell'economia e Crispi primo ministro.
E dopo "'O 'mbriaco", si arriva a "Furturella", una delle più famose canzoni del repertorio cinquegraniano, scritta insieme a Salvatore Gambardella, un mandolinista autodidatta, che di mestiere faceva il fabbro, ed ha scritto alcuni tra i più grandi classici della canzone napoletana.
La versione che stiamo ascoltando è interpretata da un posteggiatore che possiede una potentissima voce tenorile e, forse con troppa tragicità, dice i versi che forse sono più sfiziosi che tragici.
E, come si era visto per Gill, quando si parla di "macchietta" non si può prescindere da Roberto Murolo. Infatti, con grandissimo piacere, stiamo ascoltando "Don Saverio" scritta nel 1895, che utilizza il tema del tradimento amoroso non compreso o permesso con complicità. La musica, lenta, maliziosa, veramente fa capire, anche a chi non sa il napoletano, il clima che Cinquegrana ha voluto dipingere.
Ed eccoci alla prima incisione d'epoca (o quasi) della puntata. Siamo con una delle canzoni più note del maestro elementare napoletano, intitolata "'Ndringhete 'ndrà". E' interpretata da Francesco Daddi che, finalmente, dato che l'incisione è passabile, si può apprezzare in tutta la sua tenorilità che, forse, non permette di capire lo "sfizio" di questa canzone. Da ascoltare, secondo me, è la versione di Bruno Venturini.
Un altro imprescindibile interprete della "macchietta" e di tutta la "canzone teatrale" napoletana, è il grandissimo Nino Taranto, da cui abbiamo ascoltato "Serenata profumata", bellissima canzone, quasi in italiano.
La puntata si conclude con "'O rusecatore" che viene interpretata da Nicola Maldacea, un interprete che aveva dei problemi di balbuzie che gli sparivano nell'atto di cantare o recitare.
La musica viene eseguita da un pianoforte, come se fosse una musica da cinema muto.
Spero di aver reso le atmosfere di questa puntata, forse particolarmente difficili da dipingere a parole, ma ricordatevi che, per ascoltare queste trasmissioni potete andare su ben due siti legati alla rai: www.international.rai.it/notturnoitaliano (dove cliccate sull'icona "canzone napoletana"), o su http://www.canzonenapoletana.rai.it/, dove, dal lunedì successivo alla messa in onda della puntata, c'è il podcast che vi resta per una settimana intera.
Buon divertimento e buon ascolto!

giovedì 5 novembre 2009

Cos'è "tradizione"

Carissimi lettori, voglio scrivere dopo tanto forse troppo tempo. L'argomento è un po' duro, un po' complicato ed è stato già affrontato in questa sede, ma, dopo uno dei commenti apparso su http://www.pizzicata.it/ al cd "Alla banca", disco prodotto dall'Associazione Cesta dedicato alla musica tradizionale brindisina, nello specifico di San Vito dei Normanni, mi va di ripetere e precisare la mia posizione.
Nel commento in questione, signori miei, con molta caparbietà, si dice che i brani tradizionali sono quelli antichi e, ogni forma di nuova composizione, anche se magari rispettosa delle prassi esecutive e del contesto tradizionale, si deve considerare musica "tradizionale moderna" (parole testuali!).
Io, forse perché storicamente e irrimediabilmente contaminata da generi di musica molto meno tradizionali e forse per questo più "sereni" nella loro evoluzione, non la penso assolutamente così.
Io, piuttosto, il problema lo porrei da un punto di vista freddamente musicale e tecnico, anche perché non piango sul fatto che i contadini in molti casi abbiano smesso di spezzarsi la schiena nei campi, e la musica popolare salentina è diventata, da ormai quarantasette anni, nondimentichiamocelo, musica con cui si fa spettacolo. (D'altronde anche i nostri maestri, specialmente Luigi Stifani, quando andava a suonare in Rai per Diego Carpitella non stava facendo spettacolo, dato che suonava in un contesto che non era quello tradizionale d'esecuzione delle sue "pizziche tarantate"?).
Io direi che tutto ciò che rispetta le prassi armoniche e ritmiche di una determinata tradizione, può essere chiamato musica tradizionale, o può anche solo aspirare a diventarlo. Io poi sono la prima a fare una netta distinzione tra musica "tradizionale", quella suonata in acustico e senza fini "spettacolari", e quella "popolare", suonata con strumenti acustici, amplificati, anche per fini diversi dal puro piacere di suonare.
Il cd di Fernando Giannini, grande ricercatore e musicista di San Vito che vive e lavora nella nostra città, (Perugia), per la distinzione di cui sopra è assolutamente musica "tradizionale", perché è suonato in acustico, in rigorosa presa diretta ed i brani, addirittura, sono quasi completamente (o completamente) improvvisati nella loro maggior parte.
Poi, siccome Giannini ha voluto rappresentare una tradizione viva, le cui prassi armoniche sono vissute come proprie dalla comunità di suonatori, certamente molto ristretta e specifica, sono nati con naturalezza i brani d'autore che, spesso e volentieri, non sono che varianti di un unico grande troncone tradizionale (si vedano le pizziche che, invariabilmente, contengono pezzettini riconoscibilissimi della bellissima e purtroppo da troppi maltrattata "Pizzica originaria" che, forse simbolicamente, chiude il cd).
Per quanto riguarda poi specifiche mie opinioni, dico di più: laddove il "cantore" che ci ha "portato" il brano è identificato, noi suonatori, invece di essere disonesti e ladroni, dovremmo dire da chi si è imparato, non annullando persone con una loro vita e creatività in questo grandissimo fiume neutro e neutrale della tradizione. Ad esempio, l'ho già scritto ma qui cade a fagiolo, quando io presentavo la "Pizzica tarantata", nei miei concerti dicevo sempre che era stata resa celebre da Luigi Stifani. Quindi si vede che io non santifico la tradizione, ma tantomeno la voglio morta, e ancor meno voglio che si facciano distinzioni puramente teoriche e non basate su caratteristiche concrete dei brani tra "Musica tradizionale moderna" e "musica tradizionale antica". Infatti ciò che per noi è "tradizionale" ed "antico" è stato "moderno" per una generazione precedente, che a sua volta lo aveva creato da un troncone che percepiva come radice, magari senza accorgersene (fortunatamente).
Limitandomi ad esempi leccesi, voglio ora far capire concretamente ciò che intendo, citando dei titoli di "Canzoni tradizionali moderne", insieme a titoli di "canzoni tradizionali antiche" scritte modernamente.
Infatti, e questa è veramente l'ultima considerazione prima dell'elenchino, alcuni dei generi a cui ho accennato prima, ad esempio, ,pur non avendo "tradizione" intesa all'italiana, definiscono "tradizionale" certo loro repertorio (penso soprattutto al Fado portoghese), e comunque trovano naturale comporre brani nuovi su matrici tradizionali, e non per questo smettono di considerarsi, o meglio i loro cultori smettono di considerarli, "tradizionali" (penso a molta musica sudamericana, africana, spagnola, francese eccetera).
Eccoci alle citazioni:
- "A mammata" (testo e musica di Cinzia Marzo, tratta da "Maledetti guai"). Questo è un brano di "musica tradizionale moderna", anzi addirittura per questa canzone dovremmo inventare un'altra ulteriore categoria che potrebbe essere "musica d'autore tradizionale", perché non si rispettano per tre quarti del brano le prassi armoniche di nessuna variante di pizzica presistente, se eccettuiamo "Sale", altro brano dell'"Officina" che metteva su un giro armonico moderno testi tradizionali, cosa che trovo molto più ingiusta piuttosto che comporre brani nuovi nel solco della tradizione e chiamarli musica tradizionale, e si canta in un italiano "standard", voglio dire senza la minima sbavatura a livello di costruzione di frase, dando così spazio ad un'altra forma di "innaturalezza" o quantomeno di uscita dalla tradizione che si è sempre espressa in dialetto, in un dialetto che poi, ed è meglio riconoscerlo, si sta dimostrando da ormai diversi anni in grado di vincere le sfide della modernità, si vedano i Sud Soud System (che a me non piacciono).
- "Mazzate pesanti" (Testo e musica di Roberto Raheli, tratta dal cd "Mazzate pesanti"). Esempio di "Musica tradizionale antica" perché, pur essendo completamente d'autore, rispetta le prassi esecutive, compositive e linguistiche della tradizione.
- "Ijentu" (Testo e musica di Cinzia Marzo, tratta da "Sangue vivo"). Esempio di "musica tradizionale antica" perché è composta su una variante di pizzica molto precisa, che è la pizzica con cui spesso si tira di scherma, oltretutto con un testo ed una maniera di cantare che richiamano una musica salentina storica che, spesso in silenzio, sta morendo e tutti stanno contribuendo a far morire, per far nascere a tavolino qualche cosa di "altro", con cui noi, ormai senza creatività, vogliamo derubare della propria chi l'aveva.
Spero di avervi fatto capire ciò che mi stava a cuore dirvi, comunque spero che si smetta di deplorare od essere contrari spesso stupidamente a dinamiche che sono inevitabili e non sono nemmeno del tutto negative o assenti da questa tanto falsamente amata "tradizione", ed auspico che laddove una tradizione è davvero "viva" non se ne voglia fare un oggetto da museo.

domenica 18 ottobre 2009

Commento alla puntata del 17 ottobre di "Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco qui il commento ad una puntata, la prima, di un ciclo di "Canzonenapoletana@rai.it", dedicato a Pasquale Cinquegrana.
Si inizia con un brano, intitolato "Margaretella", risalente al 1887, interpretato, fortunatamente con un audio buonissimo, da Tommaso Maglione, da annoverare tra i cantanti chitarristi, tra cui Romano Zanotti, Mario maglione, Antonio Siano, che spesso amano ripescare gioielli d'epoca.
Il brano, tra i primi composti da Cinquegrana su musica di Di Capua, autore di "O sole mio", è già caratterizzato da quella ludicità che vedremo essere una delle caratteristiche di questo grande, anche se dilettante, poeta dialettale, tra i padri della canzone classica napoletana.
La melodia è fortemente legata ad un certo ambiente tardo-romantico napoletano, che amava spessissimo giocare con influenze colte e popolari.
Ed ecco qua una delle tante canzoni dedicate a maggio, questo mese che a Napoli ha sempre avuto una speciale atmosfera, allegra e devota ad un tempo.
Il brano è, ancora una volta composto dalla coppia Cinquegrana-Di Capua, una canzoncina d'amore sfiziosissima, con influenze barocche.
Iniziamo con le incisioni d'epoca, con un brano intitolato "Montevergine", dedicato ad uno dei santuari più importanti della devozione popolare napoletana.
Il testo è difficilmente intellegibile, ma vi si riconoscono echi di tammurriate e strofe popolari. Il pezzo è inciso con il tipico duetto di strumenti napoletani, la chitarra ed il mandolino. E' interpretato da un tenore, o baritenore, voce che attualmente è estinta, molto efficace. (Scusate se non lo cito, ma la trasmissione è saltata e non si è sentito il nome dell'interprete).
Molti autori napoletani si sono dilettati a fare canti patriottici, ma, ovviamente, il patriottismo napoletano è "sollazzevole", giocoso, ironico, anche se non sempre irrispettoso (luogo comune da sfatare!).
Il brano, intitolato "E bersagliere", è una marcetta molto bella, che stiamo sentendo in una incisione d'epoca abbastanza buona. Io, però, vi consiglio caldamente di sentire la versione di Nunzia Marra, unica cantante che, almeno secondo le mie informazioni, ha riproposto questo canto. Questa canzone, tra l'altro, o meglio una sua parodia, fu la causa, non so se la principale, del fatto che Cinquegrana smettesse di insegnare.
Stiamo sentendo una canzone che prelude al genere di cui Cinquegrana diventerà uno dei più grandi esponenti, la "macchietta napoletana". Il brano si chiama "'O sentimento" ed è un duetto. Non vi posso dire di più perché l'incisione, anche questa d'epoca, è molto rovinata quindi non si capisce né il testo né la struttura musicale.
Ecco l'ultimo brano della puntata, quella "Margarita de Parete" scritta nel 1891 da Cinquegrana e Fassone, autore tra l'altro di "A tazza 'e cafè", stupenda tarantella che tutt'ora si canta.
Il brano di Cinquegrana, invece, è una marcetta sfiziosa, che d'altronde permette alla libertà espressiva del poeta di esprimersi e tradursi benissimo.
L'interpretazione è di Gennaro Pasquariello, il più grande interprete di canzone napoletana tra i due secoli.
Spero che vi piaccia questo ciclo, io mi sto divertendo un mondo a commentarlo!

giovedì 15 ottobre 2009

Intervista a Paquito del bosco (Direttore artistico dell'Archivio Sonoro della Canzone Napoletana)

Carissimi lettori, aggiorno il mio blog con particolarissimo piacere, tramite un'intervista a Paquito del Bosco, direttore artistico dell'Archivio sonoro della Canzone Napoletana.
Per approfondire la conoscienza di questo grande "trovatore" di materiali d'epoca, si può anche andare sul sito http://www.canzonenapoletana.rai.it/, casa virtuale di questo juke-box partenopeo, che si può consultare, ascoltando anche i materiali in esso contenuti, sia nella sede rai di napoli, che alla Discoteca di Stato di Roma.
D: Nel documentario che Rai Educational ha curato sulla sua storia, si raccontano i suoi inizi come collezionista. Prima di iniziare a collezionare dischi e materiale d'epoca: cos'era la musica per lei?
R: Non ho un concetto preciso di cosa fosse la musica per me in quel periodo. Come tutti i miei coetanei ne ascoltavo tanta, sia classica che leggera.
Io, come tutti i ragazzi siciliani di buona famiglia, avevo iniziato a studiare pianoforte, ma con scarsissimi esiti, perché non era uno dei miei interessi principali, e la musica non era una delle mie prospettive immediate: dovevo fare l'ingegnere.
Oltre alla musica, ad esempio, mi piaceva molto viaggiare o andare al cinema.
Tutto è cambiato quando, in un mercatino, incontrai un vecchio giradischi d'epoca con una manciata di dischi antichi, da cui sono rimasto folgorato.
D: Nella sua famiglia che musica circolava quando lei era molto piccolo?
Mia nonna era un'insegnante di piano, ed è l'unica persona che si sia occupata di musica. Mio padre era ingegnere e preside in una scuola, ed io, che venivo chiamato "l'ingegnerino", ero destinato a fare quel mestiere. Non ho avuto precedenti musicali in famiglia.
D: Mi parli dei suoi inizi come collezionista.
R: Come ho detto è stato un incontro casuale ma, quel repertorio, a forza di sentirlo, ha finito per folgorarmi.
Iniziai ben presto a contestualizzare quei materiali musicali, ritratto di un'epoca lontana, con documenti storici riguardanti tutti gli argomenti e di tutti i tipi. Questo durò fino a quando decisi di creare la collana "Fonografo italiano" (Fonit Cetra n.d.r), che comprende materiale dagli inizi dell'incisione discografica alla fine della Seconda guerra mondiale.
D: Mi racconti la nascita della collana e come ebbe la possibilità di farla pubblicare dalla Fonit Cetra.
R: Dopo aver collezionato tutto quel materiale, mi venne in mente che l'avrei potuto condividere con altre persone. Il fatto era che i discografici erano interessati a pubblicare uno o due dischi 33 giri, ma io per otto anni avevo inseguito una casa discografica che mi facesse fare una pubblicazione generale di cinquanta lp, perché alcune antologie generiche erano già state sfornate. Oltretutto mi sembrava anche di fare un torto a cantanti e canzoni che, se sparite, non sarebbero mai stati conosciuti. Tra i fenomeni di marginale interesse per questo repertorio, va ricordato il caso di Monica Vitti che impazzì per il repertorio di Ria Rosa (interprete della canzone napoletana anni '20-'30 n.d.r.), pensando di dedicarle anche un lp.
La casa discografica che credette nel progetto, che secondo alcuni è stato di proporzioni esagerate, fu la Fonit Cetra. Devo qui ricordare un amico, che non è stato mai citato, Sergio Bardotti, il quale portò la proposta alla casa editrice che la approvò. Il problema fu che, quasi subito, Bardotti fu mandato via dalla casa discografica e gli subentrò Ugo Gregoretti, che si prese il merito di aver concepito "Fonografo italiano", non dandomi nessuna rilevanza.
D: Come nasce in lei la passione per la canzone napoletana?
R: Ai tempi di "Fonografo italiano" io dovetti sacrificare molta canzone napoletana, quindi io la sto scoprendo adesso, perché, in questo archivio virtuale, noi possiamo immettere di tutto senza scelte obbligate.
Mi dispiace moltissimo che, ai tempi del "miracolo economico", si siano buttate tonnellate di vecchi dischi senza che nessuno lo sapesse.
D: Lei possiede degli apparecchi di riproduzione di dischi d'epoca?
R: Sì ma ne ho pochissimi, comperati occasionalmente a prezzi stracciati. A me interessa la storicità ritrovata nei materiali "minori". Infatti possiedo anche molti opuscoli e molte pubblicità d'epoca.
D: E la sua attività di archivista?
R: Io inizialmente volevo fare del cinema, ed iniziai a collaborare con una rivista intitolata "Cinema e film" diretta da Pier Paolo Pasolini, per la quale, oltre ad essere il segretario di redazione, scrivevo alcune recensioni. Dopo il sservizio militare iniziai a collaborare con la televisione, facendo il regista, ma ogni volta si scopriva questa mia passione per i materiali del passato. Ho curato, una trentina di anni fa, una serie intitolata "Come eravamo", dove, attraverso le testimonianze di coloro che avevano vissuto fatti storici importanti e materiali sonori d'epoca, si raccontava la storia d'Italia. Ho anche curato alcune serie per l'Istituto Luce, e, in generale ho girato tutti gli archivi nazionali, incluso quello diaristico, da cui ho tratto spunto, insieme a miei collaboratori, per una serie di documenti usciti in edicola.
Come arriva all'Archivio Sonoro della Canzone Napoletana?
R: L'Archivio Sonoro della Canzone Napoletana è stato creato dalla Rai per due motivi: innanzitutto per dare una prospettiva ai numerosi tecnici del centro rai del capoluogo campano, da cui in quegli anni si era iniziato a trasmettere solo i notiziari regionali. La seconda ragione è anche quella di far avverare un antico sogno napoletano, quello che da circa un secolo auspicava una seria conservazione della canzone cittadina. Io fui invitato da Antonio Bottiglieri che, quando fu stipulato il patto fra la Rai e le amministrazioni locali per la nascita dell'archivio, ricordandosi della mia passione per il materiale storico, mi fece questo regalo.
D: Come reperite i materiali dell'Archivio Sonoro della Canzone napoletana?
R: Inizialmente abbiamo deciso di riunire tutto il materiale sparso per le varie sedi Rai, evitando così che fosse buttato via, cosa che avveniva fino a poco tempo fa. Subito dopo ci siamo dotati di una cerchia di collaboratori esterni che, cosiccome tutti noi, apporta sempre materiale nuovo all'archivio, dove ormai non viene immesso solo materiale audio. Attualmente, con il numero di donazioni fisso di duecento brani napoletani all'anno a testa, si è arrivati ai quarantunmila titoli. Io, anche se ormai sono in età abbastanza avanzata, spero di vedere il traguardo dei centomila.
Attualmente è molto più facile reperire materiale sulla canzone napoletana all'estero piuttosto che in Italia, perché la melodia partenopea viene considerata un semplice prodotto regionale, mentre si ignora che essa sia stata ciò che di meglio l'Italia abbia saputo dare musicalmente da molto tempo. Va poi ricordato che molti autori italiani, specialmente anni '20-'30, erano d'origine napoletana o nascevano artisticamente a Napoli.

domenica 11 ottobre 2009

Commento alla puntata del 10 ottobre 2009 di Canzonenapoletana@rai.it".

Carissimi lettori, ecco qui il commento all'ultima puntata dedicata ad Armando Gill.
Ed eccoci ad un brano, che ascoltiamo in incisione anni '20, intitolato "E allora".
Il brano è interpretato da uno dei più grandi macchiettisti di quel periodo, il cantante Roberto Ciaramella. La voce è tenorile, ma non lirica, comunque potente. Il brano è prevalentemente recitato, permettendo forse di carpire meglio lo spirito macchiettistico, ma io vi consiglio di sentire, se volete ascoltarlo con buon audio, le versioni di Roberto Murolo o di Egisto Sarnelli, altro chitarrista dalla voce un po' sporca ma bellissima.
Ed ecco una "Dorce sirinata" interpretata da Nino Taranto. La voce del cantante è come presa da qualche problema, ma questo è il canto "macchiettistico napoletano".
Eccoci a "Palomma", interpretata con molta sobrietà, sempre negli anni '20, come "E allora", da Raffaele Balsamo. La canzone è bellissima ed è, come ha detto Paquito del Bosco, la più malinconica della produzione di Gill, ma la malinconia è nascosta, e bisogna capire il dialetto per reperirla. Insuperabile, almeno per me, è la versione di Sergio Bruni, buona è anche quella di Mario maglione.
Va detto, però, che l'ultima produzione di Armando Gill, è entrata nella storia con la parte più leggera.
Ed ecco, sempre interpretata da Nino Taranto, "Attenti alle donne". La versione di Taranto è bellissima, perché, questo manuale su come vanno trattate le donne, condito ovviamente da un bel po' di maschilismo, sembra vicinissimo. Ottima è, secondo me, l'interpretazione di Vittorio marsiglia, ultimo grande interprete della "macchietta"" napoletana.
Ed ecco Roberto Ciaramella, grande attore e, forse, anche un po' trasformista, che interpreta "La donna al volante". La versione è bellissima perché, anche qui, si riesce a capire l'atmosfera di favoletta, con tanto di morale. Voglio consigliarvi di sentire, anche se forse è un po' troppo cantata, quella di Roberto Murolo.
Ed ecco Vittorio marsiglia che, dal suo "Macchiette e canzoni", cd che vi consiglio caldamente, canta"Tramway n.3". La voce di Marsiglia è meravigliosa, unica per interpretare le macchiette che, nonostante quello che faceva Murolo, non vanno molto cantate.
Ed eccoci a Roberto Murolo, che ci interpreta "Villeggiatura a Capri". Il brano risale a quel bellissimo doppio "Come rideva Napoli", che ora è completamente irreperibile. Questo cofanetto, ristampato una decina di anni fa in cd singoli e senza libretto, E' un ritratto meraviglioso, basato più sugli interpreti originali che sugli autori, della "macchietta napoletana", che poi Murolo ha continuato anche con "L'umorismo nella canzone napoletana". Oggi questo materiale è ristampato in un doppio cofanetto, assolutamente non all'altezza dei materiali originali perché è un miscuglio di inediti di bassa qualità e brani conosciuti catalogati senza alcuna filologia, intitolato "Canzoni umoristiche napoletane".
Comunque, ascoltare questo repertorio permette di sfatare il luogo comune della canzone napoletana sempre triste: riascoltate Gill e ridete a crepapelle!

venerdì 9 ottobre 2009

"Danzimania" e dintorni (il cd degli Arakne ed altro).

Carissimi lettori, è con molto piacere che torno a parlare degli Arakne Mediterranea, uno dei gruppi più apprezzabili della ripetitiva, e spesso noiosa, scena musicale salentina, in quanto, e questo va loro riconosciuto al di là di eventuali gusti personali, hanno saputo impostare, grazie a Giorgio di Lecce, che li ha fondati nel 1993, una ricerca estremamente personale.
Infatti, ed il cd "Danzimania" di cui vi parlerò è il frutto, oltre ad interpretare il repertorio contadino, il gruppo spesso ha ripreso antichi spartiti e ne ha vivificato le note.
E' il caso di questa "Tarantella di Foriano Pico", brano in modo lidio, ossia alternato tra maggiore e minore, con un giro simile a quello della "Montanara" carpinese, se non fosse appunto per questa "intrusione" del modo maggiore.
Le stesse atmosfere, forse ancora più precisamente, sono ricalcate dalla seconda traccia, ancora una volta risalente al XVII secolo. Il brano è diviso almeno in tre parti, infatti gli Arakne lo intitolano "I, II, III modus tarantella". Il ritmo, secondo i nostri standard di velocità, è più facilmente collegabile alla tammurriata campana, forse con colpi più secchi. Interessantissima è la tecnica della chitarra battente, strumento "re" dello stile degli Arakne, che qui fa particolarissime rullate leggere, talmente immesse negli accordi che vanno ricercate con grande fiuto.
La terza traccia è uno dei "classici" del repertorio popolare barocco, la bellissima "Antidotum tarantulae", che qui ha come titolo principale "Aria turchesca". Il gruppo ne esegue una versione leggermente accelerata rispetto a quelle più comuni, e forse questo aumento di ritmo fa perdere un po' di suggestione al brano, ma queste sono solo opinioni personali. Perfetta è, secondo me, l'interpretazione data di questo brano dai Musicanti del Piccolo Borgo, come introduzione ad una serie di tarantelle campane.
Ed ecco l'"Ottava siciliana", una delle tre tracce cantate di questo disco. Anche questa, come quasi tutto questo cd, risale al XVII secolo, ed è stata ripresa da uno degli studi di Attanasio Chircher, uno dei primi studiosi del tarantismo, al quale dobbiamo la conservazione e la pubblicazione di alcune musiche.
Questo brano si conclude con una variazione un po' arabeggiante, di grande atmosfera, ma forse non fondamentale.
Ed eccoci ad un altro dei "classici barocchi" della musica popolare salentina, la "Tarantella frigia". La partenza è più lenta rispetto ad altre rielaborazioni, ad esempio quella del Canzoniere Grecanico Salentino in "Canti e pizzichi d'amore". Gli Arakne, per quanto vi insinuino la modernità della terzina da pizzica, per niente mitigata, dimostrano la voglia di far vivere all'ascoltatore atmosfere diverse dalle moderne, ed il desiderio di farci sospettare che non sempre la musica salentina è stata come la conosciamo noi. Questo è un merito che va riconosciuto loro, anche se, da questo punto di vista, forse, la versione più mirabile è quella dell'Ensemble Terra d'Otranto, contenuta nel cd "Danzare col ragno".
Ed eccoci ad un altra tarantella che prevede l'"intrusione" di un accordo maggiore in una scala di struttura minore. Anche qui la chitarra battente dimostra le sue insuperabili doti armonico-ritmiche, suonando come un clavicembalo, con un "continuo" rigoroso e discreto. Va detto che questo repertorio ha una ricchezza armonica veramente invidiabile, che permetterebbe anche ai signori dell'innovazione ad ogni costo, di creare cose veramente innovative che, però, saprebbero infinitamente d'antico.
Ed eccoci ad "Alia clausula", brano con cui il gruppo apre, da diverso tempo, i propri spettacoli. Interessantissime, nell'accompagnamento della chitarra battente, le settime minori che dànno un'aria di modernità segreta a questo brano che sennò è completamente immerso in un'atmosfera che non c'è più.
Bellissimo l'accompagnamento delle percussioni, che si prodigano in complicati tempi che, nonostante il loro innegabile virtuosismo, non disturbano mai un quieto ascolto delle altre parti strumentali.
Un altro "classsico barocco" della tradizione del sud Italia è la "Tarantella del '600", resa celebre negli anni '70 dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare. Si direbbe che la versione degli Arakne è meno etnica e più fedele, forse anche perché, oltre a questo "modo minore", si eseguono in questa traccia altre tarantelle meno note, che quindi vanno eseguite con una maggiore fedeltà alle atmosfere di origine, per quanto noi, uomini forse troppo lontani da quel periodo, ne possiamo capire.
Il set di percussioni permette all'orecchio di immergersi in un'atmosfera favolistica, molto colta e, direi, anche un pochino alterata.
Ed eccoci tornati all'inizio del giro, eccoci ad un altro accenno di questa tarantella classica, asciugata dai pretesi virtuosismi del mandolino della nuova Compagnia di Canto Popolare.
E dopo aver accennato al patrimonio del XVIII secolo, perché effettivamente qui si parla di tarantelle settecentesche, si arriva al 1819, anno a cui si fa risalire questa aria romantica. Qui già ci si avvicina agli attuali schemi della pizzica basata su un'alternanza fra tonica e dominante, e si accenna, addirittura, ad uno dei passaggi della "Tarantata" di Stifani.
Nonostante la maggiore vicinanza nel tempo, gli Arakne non semplificano il loro set percussivo, che oltre che da un tamburello, è composto anche da un'imperioso tamburo muto, dal suono lungo e grave.
Gli ultimi due brani del cd risalgono al XX secolo. La prima è la "Taranta di Lizzano", chiamata dagli Arakne "Ci è taranta". Per gli ultimi due brani non si è potuto già prescindere dal canto tellurico di Imma Giannuzzi, che però sa rispettare l'intimità di questo lavoro.
Questa, tra quelle che io conosco, è la migliore versione di questa tarantella, basata, come molte delle precedenti, sull'alternanza tra accordi maggiori e minori.
Il cd si chiude con una versione della "Pizzica tarantata", intitolata "Taranta rintesa", caratterizzata dall'intrusione della chitarra-basso che esegue un giro di Viestesana garganica, caratterizzato da un accordo di diminuita, che gli conferisce un "modo misto".
Questo brano, per la verità, è una rielaborazione della "Pizzica taranta" di "Tre tarante".
Spero di avervi fatto venire un po' di curiosità su questo cd, e, perché no, spero di aver contribuito a far capire ai salentini che, oltre e prima di comporre brani nuovi, va riscoperto tutto il passato di una musica, per poter comporre con maggiore libertà e senza tracotanza od esagerazione.

mercoledì 7 ottobre 2009

Viva la Corte!

Carissimi lettori, questa sera mi va di esulare dall'argomento musicale, per commentare questa bellissima decisione della corte costituzionale, con cui si è dichiarato illegittimo il Lodo Alfano, legge che permette alle quattro cariche più alte dello Stato di essere immuni da processi.
In teoria, si dice che l'immunità sia temporanea, ma credo che, con la prescrizione, questa possa anche aspirare ad essere eterna, lasciando quindi le "mani legate alla giustizia".
Il "grande capo", all'uscita della sua residenza romana, invece di prendere atto di una decisione liberamente presa da una squadra di giuristi sicuramente affermati, ha detto che il verdetto dimostrava faziosità, e che la legge è giustissima.
Il ministro delle riforme, grazie al quale un salentino potrà prestissimo dire "tra picca cu vau Milanu me bisogna lu passaportu" (citazione da "Scusati signori" degli Aramirè in "Mazzate pesanti", rielaborazione moderna di brano tradizionale), ha già dichiarato guerra alla faziosa consulta, la quale non concepisce, giustamente, che la sua costituzione sia messa sotto assedio.
Io, in tutta sincerità, penso che in qualsiasi altro paese un capo del governo con tali abitudini legiferine, ha una grande coscienza sporca: "Se fa prescrivere ogni reato, se fa annullar tutti i processi, rafforza il dubbio, già ben fondato, che quei reati li ha commessi!" (Fausto Amodei, da "Per fortuna c'è il cavaliere").
Credo anche che un capo del governo, anche solo minimamente indiziato di qualche crimine, sarebbe mandato via senza pietà. Da noi, però, con il popolo dalla memoria cortissima che si lascia facilissimamente abbindolare da chiunque, costui, in questo caso colui che "si sacrifica per noi", dopo appena qualche anno d'opposizione intransigente, intollerante ed ingiusta, è potuto tornare al governo, promettendo la luna a chi l'avesse votato.
Il "gran stratega", forse si è scordato che, se è tornato ai posti di comando, non è solo per suo merito, ma anche, e forse soprattutto, per demerito nostro.
Quando noi eravamo al governo, e io questo lo ammetto, non abbiamo saputo creare sintonia fra noi e la gente, cosa fondamentale per questa fantapolitica imperante.
Voglio concludere chiedendovi scusa, ma quando bisogna esulare si deve farlo, e da qui grido il mio personale "Viva!" alla Corte Costituzionale.
Attenzione: Le citazioni non identificate, venivano da "A mammata", brano dedicato a Berlusconi da Cinzia Marzo, e contenuto in "Maledetti guai" ultimo cd dell'"Officina" pubblicato per la Polosud. Cinzia, nello scrivere il testo, in lingua italiana, si è ispirata a molte parti de "La vera apologia di Socrate". E' da notare come i classici, più civili di molti di noi, tenessero a cose di cui oggi a questa società rampante non importa nulla!

martedì 6 ottobre 2009

Fado português (A Amália).

Carissimi lettori, anche oggi apro il mio diario, questa volta per ricordare un''artista a cui devo tanto che, in un giorno come questo, dopo una lunga lotta con la malattia ci lasciava.
Mi riferisco alla fadista portoghese Amália Rodrigues. Probabilmente, se non ci fosse stata questa triste circostanza, io non l'avrei scoperta. Mi ricordo benissimo la sensazione che ebbi quel giorno, quando dalla radio spagnola suonavano le note di una musica, per me sconosciuta, che si chiamava Fado e che, ben presto, sarebbe diventata uno dei punti di riferimento della mia vita di ascoltatrice e di musicista un po' presuntuosa.
La voce d'Amália, che anche ora mi sta facendo compagnia durante la compilazione di questo scritto, mi colpì per la sua limpidezza perfetta, senza sconti, che non avevo mai trovato e non avrei mai ritrovato successivamente in nessuna delle cantanti che avrei scoperto. Infatti, se confrontiamo la struttura timbrica della portoghese con quella ad esempio di Cinzia Marzo, che avrete capito essere una delle mie voci preferite, se non la mia preferita tra le femminili del folk italiano, scopriamo che Amália, quantomeno nei suoi primi trent'anni di carriera, anche se io non considero più di tanto le sue primissime incisioni, aveva un timbro semplicemente limpido, anche se di una potenza disarmante, mentre Cinzia, a seconda di ciò che canta, ha un timbro fortemente, se non completamente, diverso.
Tornando ad Amália, e scusate, voglio subito togliermi un rospo dall'anima. Chi la conosce un minimo, sa che lei, a partire dal bellissimo "Bobino 1960", live registrato nel teatro parigino di Bobino, ha iniziato a cantare brani in altre lingue e ad inserire nei concerti, oltre al Ffado, altri repertori, in quel caso soprattutto la copla spagnola, ovviamente opportunamente "afadistados", perché lei, contrariamente alle fadiste d'oggi, è prima fadista che star internazionale. A partire dagli anni '70, dopo l'incontro con Franco Fontana, avvocato che per lei lascerà l'attività forense e diventerà agente artistico, inizierà a cantare canzoni italiane a cui noi, dopo aver risposto per qualche anno, ossia quando andava di moda il folk serio come Otello Profazio, con ovazioni e molte opportunità come i duetti con Maria Carta e Rosa Balistreri, iniziamo ben presto a dimostrare il nostro, veramente proverbiale, menefreghismo. Questo si è dimostrato ancora più forte, ed è una vergogna accresciuta, quando lei morì perché nessuno, a parte Enrico Vaime dal suo "Blackout" e Fernando Fratarcangeli dalla parte musicale del programma sportivo "Zona Cesarini", la ricordò, facendomi pensare che da noi non fosse neanche conosciuta.
Voglio confessarvi una cosa. Ho parlato della limpidezza del timbro che mi folgorò la prima volta che sentii la voce della Rodrigues, ma, in verità, io la preferisco quando, a partire dalla fine degli anni '70, il suo timbro inizia a diventare più stanco, traducendo meravigliosamente quella tristezza profonda che lei viveva tanto e di cui riempiva moltissimi dei suoi versi.
A voi, lettori, comunque voglio consigliarvi alcuni album da poter ascoltare e, magari, acquistare per farvi ritornare alla mente questa voce così semplice e complicata.
Meraviglioso è il già citato "Bobino 1960", pubblicato in lp da un'etichetta francese, per la quale Amália aveva provvisoriamente lasciato, tra il 1957 e il 1960, la sua fidata Valentim de Carvalho. E' un disco live dove, contrariamente al molto più conosciuto "Amália no Olympia" pubblicato anche come "Amália Rodrigues in concert", c'è una vera comunione tra l'artista ed il pubblico.
Interessante è anche "Fados 67", pubblicato anche con il titolo di "Maldição", dove la fadista è accompagnata da quello che secondo molti cultori del Fado è il miglior gruppo d'accompagnamento mai esistito, il Conjunto de guitarras de Raul Nery.
Per quanto riguarda l'esperienze e le passioni italiane di Amália, sono bellissimi, ma purtroppo quasi introvabili, "A una terra che amo", lp del 1973 con alcuni brani della tradizione popolare italiana, prevalentemente meridionale, "afadistados" benissimo, e "Amália in teatro, live registrato al Sistina di Roma, dove Amália racconta il fado e la tradizione rurale portoghese, a cui lei si è altrettanto dedicata perché la sua famiglia veniva da una delle più ricche regioni in quanto al folklore, in un italiano simpaticissimo, ma, vi giuro, che si impara ad amare semplicemente e profondamente questa cultura, molto più che se si leggono moltissimi studi.
Meravigliosi, infine, sono due dischi degli anni '80 intitolati rispettivamente "Gostava de ser quem era" e "Lágrima", composti completamente da poesie d'Amália, mirabilmente musicate dai suoi chitarristi. Se farete questo percorso nella discografia d'Amália così come io ve l'ho consigliato, la conoscerete bene, senza tediarvi.
Fra i tributi che le sono stati fatti, particolarmente bello è il cd strumentale "Guitarras cantam Amália" della collezione "lisboa cidade de Fado", registrata da un "conjunto" d'eccezione: Paulo Parreira alla chitarra portoghese, Joáo Veiga alla chitarra classica e Joel Pina, bassista storico della fadista, alla chitarra-basso.
Spero d'avervi fatto venire curiosità e voglia di scoprire, finalmente, questa voce del Portogallo e del mondo intero.
Viva Amália!

lunedì 5 ottobre 2009

Duerme negrita (A Mercedes Sosa).

Carissimi lettori, oggi devo scrivere uno dei post più tristi di questo blog, per ricordare un'artista a cui devo molto, che mi tiene compagnia da ormai vent'anni, la cantante argentina Mercedes Sosa, che ieri, dopo una lunga malattia ci ha lasciati.
Mercedes Sosa era un'autentica cantrice popolare che, a partire dagli anni '80, aveva iniziato a ritrovare gioielli anche nella musica d'autore in lingua spagnola, la quale, d'altronde, non gira così brutalmente e stupidamente le spalle al folklore.
La scoperta di Mercedes Sosa, per me, è legata ad un ricordo risalente alle mie scuole elementari, in cui, come compagne di scuola, avevo due sorelle figlie d'un argentino, il quale, alla mia richiesta di musica della sua terra, mi mandò una cassetta con il meglio, selezionato da lui dai cd "Treinta años" e "De mí", di questa cantante del nord del paese, zona per niente toccata dal tango.
Il primo repertorio della cantante, infatti, quello cantato nei suoi primi vent'anni di carriera, approssimativamente, è costituito da brani della tradizione del nord dell'Argentina, e, soprattutto, da brani d'autore ispirati a quei ritmi. Di quel periodo è "Mercedes Sosa interpreta a Atahualpa yupanqui" (1971) o l'omaggio a Violeta Parra, grande artista cilena che ha fatto nascere il movimento sul folklore di quel paese, da cui, quasi subito, partì la coscienza in tutta l'America spagnola.
Mentre scrivo sto riascoltando un disco che ebbi poco dopo averla scoperta sempre da qualcuno di questi argentini che, con gentilezza ed orgoglio, hanno radicato in me l'amore profondo che ho per la loro terra.
Il cd, intitolato "Amigos míos" e risalente al 1988, non è sicuramente tra i migliori né è poi così fondamentale per la scoperta di questa voce argentina, ma io, ci sono molto legata.
Venendo tecnicamente a parlare un po' del timbro di questa cantante, una delle poche "indias" argentine che soffrendo è riuscita ad emergere, è un timbro scuro, segretamente dolce che, almeno secondo me, dà il massimo di sé quando canta ritmi popolari delle sue parti, ossia quasi sempre.
I dischi che io consiglierei per scoprirla sono: "Gestos de amor", "Live in Argentina" (emotivo concerto tenuto a Buenos Aires poco prima della fine della dittatura che le aveva dato tanti problemi. Bellissimo per la comunione di festa e di lotta che si crea tra il pubblico e la cantante); "Treinta años", raccolta molto buona e completa.
In questa epoca in cui pare che puntare sull'incrocio di musica d'autore e popolare debba sempre arrivare alla morte totale della seconda in favore di desuetissimi schemi pop, riascoltare anche solo questo "Amigos míos", dimostra che c'è un'altra strada, e c'è chi la persegue senza tradirsi.
Si può dire che Mercedes Sosa sia stata, forse come nessun altra, la voce della fratellanza di un continente che ora la sta piangendo fortissimo. Con la sua sincerità ha raprpesentato una bandiera di coerenza, virtù che ora è latitante.
L'ultimo repertorio di Mercedes Sosa, lo dico con sincerità, mi vibrava meno, forse anche perché io stessa ero cambiata, ma riascoltarla mi sta facendo molto piacere, e probabilmente sarebbe stato questo che lei avrebbe gradito.
Dovete scusarmi se questo post è un collage di sensazioni e divagazioni personali, non riuscendo forse a raccontare ciò che sento e provo nell'ascoltare questa grandissima cantante, ma meglio non posso fare.
Se qualcuno dopo averlo letto avrà deciso anche solo di tentare la fortuna e comperare qualche disco, avrò ottenuto il mio obiettivo, che è poi solo quello di far continuare a vivere questa artista che, tra le altre sue passioni, aveva anche l'Italia. E' da ricordare, infatti, nell'album "Sino" dell'inizio degli anni '90, l'interpretazione, non eccezionale comunque, di "Caruso".